giovedì 30 dicembre 2010

Due 21 dicembre. Bearzoff (ovvero un ricordo di Bearzot-Magritte attraverso Dino Zoff)



Se le stesse immagini, proiettate su televisori differenti a distanza di ventotto anni, fossero capaci come un prisma miracoloso di restituire oggi corpi, soggiorni e movimenti di chi le stava guardando nel 1982, allora senza dubbio a me non sarebbe dispiaciuto l’altra sera, mentre rivedevo Italia-Brasile su La7, scorgermi bambino sul divano di casa, scrutante un po’ la partita un po’ mio padre, fumante una sigaretta alla finestra per ogni goal di Paolo Rossi.

Con i gomiti appoggiati al cuscino posizionato sul marmo del davanzale (ma non era rischioso posizionare un cuscino in bilico al terzo piano? No, era solo un cuscino) Guerrino tratteneva a stento lo stupore per l’impresa degli Azzurri di Bearzot, il quale in panchina masticava, e gridava consigli a Cabrini, il più a portata di mano, lì sulla fascia sinistra.

Dopo gli stentati pareggi con Polonia, Perù e Camerun, e la sorprendente vittoria sull’Argentina, perfino i giornalisti più incompetenti e in malafede adesso si trovavano costretti a rimangiarsi molte delle furibonde critiche al Vecio con la pipa, e no, anche se il bell’Antonio e Rossi erano stati visti tenersi per mano, questo magari poteva anche non significare che i due fossero omosessuali.

Ma tornando a quel caldo pomeriggio di magliette sudate e strappate, Bearzot ruminava all’ombra della panchina, ancora ignaro della storia che l’avrebbe unito a Vittorio Pozzo non solo pochi giorni dopo sul tetto del mondo, ma anche sui calendari 1968 e 2010: il 21 dicembre, una stessa data decisa dal caso per l’addio alla vita di due Ct Campioni del Mondo.

Pare che Marcello Lippi, intervistato da un noto quotidiano sportivo per un ricordo del Vecio, abbia dichiarato che a partire dal 2011, ogni 21 dicembre se ne starà chiuso in casa, in solitudine, il sigaro acceso, a riguardare consecutivamente le Finali di Roma, Parigi, Madrid e Berlino.

Nei minuti conclusivi, un calcio d’angolo per il Brasile era sufficiente per trasformare milioni di italiani terrorizzati in aspiranti coristi del festival di Sanremo, al grido di:
”Esciiii!”
Dino Zoff, prima voce solista, spinto da questo suggerimento lontano ma convincente, usciva, bloccando in presa. Poi osservava con preoccupata soddisfazione il Direttore d’orchestra, come si cerca con gli occhi un padre silenzioso, ma rassicurante. Era fatta.
Bearzot, cercatore di finestre poco scontate, dalla panchina del Sarrià di Barcellona rispondeva allo sguardo del capitano, vivo nel miracolo, parafrasando Magritte:
“Questa non è una pipa. Ragazzi miei, voi siete la mia pipa”.

lunedì 27 dicembre 2010

Il Corriere del materassaio


Talvolta, specie quando mi ritrovo a fare il cassiere per sei ore consecutive, mi chiedo perché nessun quotidiano o settimanale decida di pagarmi per le cose che scrivo. Ascolto i Bip della mia cassa numero 7 per sei ore consecutive, e superato il dispiacere del non sapere il perché, dopo dieci anni di carriera nella stessa azienda (durante i quali mi sono occupato in prevalenza di consigliare dischi e libri a tanti milanesi) da qualche tempo io venga utilizzato solamente per fare Bip in cassa, la mia attenzione si sposta sui cognomi dominanti nelle svariate testate nazionali. La loro uguaglianza o similitudine, mi permette di rispondere alla domanda principale: perché nessuno mi paga per scrivere? Probabilmente, perché mio padre non faceva il giornalista. E pensare che io glielo avevo detto: papà, fai il giornalista. Lui però niente, voleva proprio fare il materassaio. E va bene. Se però mi avesse ascoltato, adesso io mi sarei potuto avvalere dell’unica cosa che, soprattutto in Italia, garantisce l’inserimento nel mondo del lavoro: la raccomandazione.

Sfogli le pagine dei giornali, e i cognomi sono sempre gli stessi. Vai al cinema, e gi attori sono sempre loro. Guardi SuperQuark, Piero e Alberto. Figli, nipoti, mogli, amanti. Ogni tanto qualcuno riesce a inserirsi in qualche professione avulsa alla storia della propria famiglia, per acclarata bravura o colpo di fortuna, garantendo così ai discendenti un sorprendente cambio di casta.

Leggo sempre divertito certi corsivi indignati contro Berlusconi (che non ho mai votato). Poi guardi chi l’ha scritto e dal cognome ti viene il dubbio che sia stato assunto in quel giornale per raccomandazione. Però si scaglia conto Berlusconi, dall’alto della sua integrità professionale. Perché Berlusconi è un furfante, lui invece no, è pulito. Perché, come disse una volta Piero Angela: “Non l’ho assunto perché è mio figlio, ma perché è bravo”. Ok, ma quanti altri bravi ce n’erano con cognomi diversi?

I Bip continuano e trovo la soluzione: fondare il Corriere del materassaio. Tutti i materassai lo prendono e un po’ di copie vanno così. Poi faccio come Repubblica e Corriere: qualche pubblicità con donne nude o in mutande, e altri lettori sono assicurati. Se proprio voglio esagerare, strappo alla concorrenza qualche giornalista corrotto (meglio se con la fama di incorruttibile). Di quelli pagati a gettone per scagliarsi contro i nemici principali del proprietario del quotidiano, e mi assicuro un’altra fetta di pubblico. Di più non posso fare.
Comprate il Corriere del materassaio, vi prego. Ci scrivo anch’io.

lunedì 20 dicembre 2010

Il posticipo: Napoli-Lecce (Taugenichts e il terremoto a Bet Lèhem)


Ricordo un tardo pomeriggio dicembrino degli anni ottanta. Con mia madre e un coltellino per uno, avevamo attraversato due strade dal portone di casa nostra per arrivare ai piedi del castello che dominava il quartiere, la città. Che intenzioni avevano mamma e figlio con coltello? Regolare all’aperto e in modo barbaro un litigio di famiglia? Attentare alla vita di qualche ignaro passante? Niente di tutto questo.

L’idea di Teresa, era quella di raschiare dal muro che precedeva l’inizio del colle Cidneo il muschio che vi era cresciuto, al fine di ottenere un degno prato per il presepio di casa. Era legale? M’interrogavo seguendo abbastanza fiducioso le orme materne. Probabilmente, e comunque in galera al massimo ci sarebbe andata lei, mica io, bambino. Gratta tu che gratto anch’io, alla fine eravamo tornati a casa col nostro prato, sul quale posizionare le statuine secondo criteri sedimentati dagli anni, e poi qualche pigna come alberi, sassi, e un rettangolo di stagnola a fare da laghetto.

Talvolta venivano a trovarmi le cugine, e giocando a calcio o a tennis con una pallina di spugna, capitava che la stessa terminasse sul presepio, travolgendo pastori e animali. Con l’innocenza cinica di certi giochi infantili, io Gisella ed Elena ci avvicinavamo al presepe, cercando di stabilire la causa di quella tragedia. Meteorite su Bet Lèhem? Terremoto nella Casa di Pane? E di che grado? In base alle statuine cadute, morte o ferite, veniva stabilito il grado della scossa, seguendo scale Mercalli o Richter.

Questi pensieri mi ritornano sempre quando all’inizio di dicembre vado con Marta in un negozio di Largo Schuster a Milano, specializzato in presepi. Ogni anno aggiungiamo uomini, donne e pecorelle alla nostra rappresentazione, costretti a privilegiare per fare economia alcuni personaggi rispetto ad altri. Ad esempio i Re Magi non li abbiamo ancora, ma se questo inizialmente mi dispiaceva ora no, perché ogni anno vedo le privilegiate comparse di Betlemme aumentare, e penso al giorno in cui la città sarà completa.

Prima di entrare da Tricella, mi chiedo se all’interno dietro il bancone troverò l’ex libero di Juventus e Verona a servirmi, ma poi mi accontento di una signora anziana che, a sorpresa, sbuca ai nostri piedi da una botola presente sul pavimento. Superato lo spaventato stupore di una persona che sale dal sottosuolo di legno per chiederti cosa desideri, giunge il momento di scegliere le statuine dell’anno. Marta le sue, io le mie, e quest’anno la mia è uno addormentato con il cappello rosso appoggiato sulla pancia, bello nel suo pennichellare, tanto da ricordarmi il protagonista di “Vita di un perdigiorno” di Joseph von Eichendorff, tra i libri che portavo sottobraccio quando intorno ai vent’anni oltre a lavorare andavo in giro per i parchi di Brescia a leggere da solo, pensando di essere qualcosa di simile a un poeta, che però vendeva anche lavatrici e frigoriferi.

Il perdigiorno addormentato adesso brilla nel nostro presepio, e siccome ho smesso di giocare con la pallina in casa perché sono una persona matura, mi sono permesso di chiedergli se, come statuina, si senta offeso quando i giornalisti più astuti definiscono “difese di belle statuine”, quelle immobili su cross avversari adatti a far svettare di testa punte col fiuto del gol, per intenderci il contrario di Amauri. Un po’ sì, mi ha detto il perdigiorno, ma alla fine che mi frega, lasciami dormire per favore.

Poi di sera tornavo a piedi da un teatro dove avevo visto Erri De Luca parlare in nome della madre. Calpestavo la neve, riflettendo sulla straordinarietà di Miriàm, moglie di Iosef, madre di Ieshu, capace di partorire da sola, con un coltello e un bacile d’acqua. Quale legame tra il suo coltello e quello mio e di mia madre? Perché la neve non si ferma sul sangue? Con tutta la neve che cadeva, avrebbero rinviato qualche partita? Quanto bianco nello stadio-grotta di Bet Lèhem?

Ho ascoltato qualche pastore maligno asserire che, per via del problema dei rifiuti, quest’anno potrebbero far vincere lo scudetto al Napoli. Non gli ho creduto. Di certo la squadra di Mazzarri è molto fortunata, e Cavani assomiglia pure ad un Ieshu adulto. Dopo ogni rete non si dimentica mai di ringraziare Dio, con le braccia indica il cielo, mormorando qualcosa con gli occhi spiritati. Del resto, la traiettoria del pallone scagliato dal “Teschio” uruguagio domenica pomeriggio come sempre oltre il novantesimo, qualcosa di religioso certamente aveva.

mercoledì 15 dicembre 2010

Carlo D'Amicis su Mio padre era bellissimo

Pubbico la recensione di Carlo D'Amicis su "Mio padre era bellissimo" tratta da l'immaginazione (novembre 2010).
Carlo D’Amicis su
FRANCESCO SAVIO, Mio padre era bellissimo
Italic Pequod 2009
Una solida corrente di pensiero vorrebbe la
generazione dei nati tra l’inizio degli anni Sessanta
e la fine degli anni Settanta come una collettività
disgregata e individualista: la prima a
crescere priva di quelle esperienze comuni che
furono, nel nostro Novecento, le due guerre, il
regime, l’antifascismo, i movimenti giovanili.
In realtà, nel leggere molti recenti romanzi,
questa tesi appare rivedibile. C’è oggi una cordata
di narratori fin troppo incline al reciproco rispecchiamento,
connotata da un background
certo meno ideologico rispetto alle generazioni
precedenti, ma non per questo più evanescente.
Nessun credo politico, o culturale è servito a cementare
una generazione più del ventennio
compreso tra il boom economico e gli anni di
piombo: spesso cresciuta davanti alla tv, in ambiti
familiari molto più ristretti e spesso sradicati,
oppressa da un senso di isolamento e di marginalità,
quella generazione che si voleva disunita
e frammentata oggi si riconosce compatta, e
quasi stupita, nelle tante narrazioni che ne descrivono
un forte, seppure involontario e inconsapevole,
tratto identitario.
Accade così che, nell’attingere al proprio vissuto,
i narratori che appartengono a questa vasta
nidiata di soli ed uguali si ritrovino costantemente
di fronte a un’insidia: quella cioè di scivolare
nel mainstream, in un flusso dove l’elemento
del riconoscimento, o addirittura dell’epica generazionale,
prevale su quello della ricerca personale.
Di fronte a questa insidia il quasi esordiente
Francesco Savio (già autore di un racconto nell’antologia
che Manni ha dedicato, nel 2008, a
Bob Dylan) sceglie una strategia umile e sfrontata
al tempo stesso: semplicemente non se ne
cura, misurandosi con i tanti topoi del romanzo
(primo tra tutti, quello della linea d’ombra, qui
anticipata ai 9 anni, l’età in cui il protagonista del
romanzo perde il padre) come se il suo piccolo
Nicola fosse, in un certo senso, il primo bambino
del mondo ad avvicinarli. Con il risultato che
il romanzo si rivela fragile nella sua presunta forza
(il volere attingere al vasto repertorio dei moderni
riti di passaggio: lo sport, gli straniamenti
linguistici, la bambina-principessa “dai capelli
biondi e dagli occhi profondi come oceani”) ma
forte della sua fragilità: il candore un po’ spericolato
con cui l’autore si incammina in un solco già
largamente battuto, infatti, diventa la stessa innocenza
del protagonista di fronte a un evento
troppo grande, come la morte del proprio genitore,
e al quale non sa cos’altro opporre se non la
sua profonda, estrema, dolente sensibilità.
C’è insomma, in Mio padre era bellissimo, un
che di ingenuo che Savio riesce a indirizzare
(inequivocabile segno di talento) verso una freschezza
e una trasparenza che, alla fine, seducono
anche il lettore più avvertito: quello che,
leggendo delle fughe in bicicletta di Nicola, è
portato a rivedere, in formato ridotto, l’Alex di
Jack Frusciante; che, imbattendosi nel racconto
della tragedia dell’Hysel, è costretto al confronto
con la potente valenza simbolica che, dallo stesso
fatto di cronaca, scaturisce nell’ultimo romanzo
di Lagioia; che, nella poetica del dettaglio come
“sineddoche della complessità”, a cui spesso
Savio si affida per rappresentare la sensibilità
infantile, rivede l’acume minimale di Francesco
Piccolo.
Quello di “Mio padre era bellissimo”, insomma,
è un sentiero battuto. Savio però lo percorre
con un passo rapido e lieve che lo rende seducente
compagno di viaggio. La sua generazione,
credendo di piangere soltanto un proprio
genitore, si è scoperta a celebrare il definitivo
lutto dei padri; credendo di poltrire davanti alla tv
si è scoperta ad officiare un rito collettivo; credendo
di essere totalmente de-responsabilizzata,
disincanta, disimpegnata, si è scoperta sulle
spalle il peso del crollo morale e civile di un Paese.
Anche per lui la sfida è dunque quella della
complessità: affondare nella propria formazione
per connetterla allo spirito dei tempi, scavare nel
privato per raccontare storie pubbliche, educare
la propria memoria alla profezia del futuro.

martedì 14 dicembre 2010

Il posticipo: Juventus-Lazio (Tremando sull’orlo con Henry David Thoreau)


Ancora nel 1848, Henry David Thoreau era a malapena noto ai suoi concittadini di Concord, che al massimo lo apostrofavano come un tipo strambo che era andato a vivere in una casupola nei boschi di Walden, e che aveva passato una notte al fresco per essersi rifiutato di pagare la tassa elettorale pro capite. I più maligni addirittura, avevano sparso la voce che il presunto “trascendentalista”, giunto alla soglia dei trent’anni, si fosse rifugiato nei boschi solamente perché tra gli alberi il segnale televisivo giungeva con maggiore pulizia visiva rispetto al centro di Concord, dove sia Sky che Mediaset Premium faticavano a garantire una copertura soddisfacente.

Conscio di queste cattiverie, quando un mattino Thoreau aveva intravisto una lettera nella cassetta della posta, aveva pensato immediatamente al peggio: si trattava con quasi certezza del solito fastidioso cittadino che chiedeva il perché del trasferimento a Walden oppure, in seconda battuta, del solito fastidioso cittadino che voleva sapere per quale squadra della serie A simpatizzasse il cosiddetto “filosofo naturale”, amico di Emerson (non il Puma brasiliano ma Ralph Waldo). Davvero aveva traslocato nella casupola solo per dedicarsi “agli studi che hanno più direttamente a che fare con questo pianeta”? Davvero Thoreau non sentiva il desiderio della compagnia degli amici, bastante a se stesso, al suo “essere niente”?
Difficile da credere, com’era difficile ignorare certe esplosioni vocali di gioia che parevano provenire dal bosco al sabato sera o alla domenica, casualmente in concomitanza con lo svolgimento del campionato di calcio.

La lettera invece era di Harrison Blake di Worcester, Massachusetts, un ammiratore dell’ancora sconosciuto “mistico”, il quale incitava Thoreau a iniziare una corrispondenza per aiutarlo ad innalzarsi “a una vita più vera e più pura”.
La soddisfazione di Henry David era stata grande: pur non ritenendosi niente, qualcuno gli aveva fatto capire che forse poteva essere qualcosa. Una volta aperta la busta, le poche righe scritte da Blake avevano confermato la sensazione positiva di poco prima. Finalmente qualcuno comprendeva il significato della sua scelta, il suo desiderio di separarsi dalla società, dal sortilegio delle istituzioni, dalle usanze, dai conformismi…
E la disperata umiltà di quella richiesta di soccorso spirituale, che si concludeva con il rammarico di sentirsi “tremare sull’orlo” era stata la goccia determinante per accettare quell’idea di amicizia sulla carta, da mettere in pratica subito, o meglio dopo la partita della settimana.

Utilizzando il telecomando per abbassare come sempre a zero il volume della televisione, al fine di non perdere i suoni del bosco che provenivano dalla finestra socchiusa, Thoreau aveva deciso per Juventus-Lazio, affascinato dalle potenzialità dell’incontro di cartello della sedicesima giornata.
Il tempo di sedersi, e Giorgio Chiellini portava in vantaggio i bianconeri, esibendosi poi in un battito ripetuto di pugni sul proprio petto griffato Balocco, metodologia di esultanza che a Henry David era apparsa come una raffinata citazione di quando l’uomo stava ancora nelle foreste. Bello da parte del capitano della Juventus il non dimenticarsi della Natura di un tempo, adesso che pelo e coda erano scomparsi e l’uomo in posizione eretta poteva divertirsi colpendo il pallone di testa anticipando grintoso altri suoi simili.
Sull’esempio del centrale livornese, anche Storari aveva pensato di lanciarsi in un omaggio naturalistico, ipotizzando di aggrapparsi ad una liana immaginaria per colmare uno spazio bianco, nero e celeste, ma sfortunatamente nel suo volo verso l’alto aveva dimenticato di afferrare con precisione la palla, sotto gli occhi azzurri e affilati di Gianluigi Buffon che, in tribuna, almeno per un secondo aveva pensato: il primo errore in sedici giornate, male per la Juve ma almeno i tifosi si ricorderanno che esisto. Zarate ne aveva approfittato per pareggiare.

Nelle pause di gioco, Thoreau riprendeva in mano la lettera che gli aveva scritto l’ammiratore di Worcester, soffermandosi sul quel “Ma aihmè, tremo sull’orlo!” che da solo valeva tutto, l’insicurezza di essere umani, e una serie di cose ben più vaste della penuria indecente racchiusa anche nelle migliori parole. Cosa rispondere a Blake? Qualcosa capace di semplificare il problema della vita, lasciando in pace Dio e le cose, puntando alle vette.

E mentre divisa in ventisette punti, la risposta cominciava ad arrivare, a dieci secondi dal 94 Momo Sissoko azzeccava un passaggio rasoterra diagonale che mai in carriera. A cinque secondi il giovane Cavanda, non potendo prevedere l’imprevedibile, faceva appena in tempo a osservare quel taglio passargli alle spalle. A tre, Milos Krasic saettava come una freccia verso la porta di Muslera, per crossare, o tirare. Nel dubbio, sull’orlo della fine, il portiere laziale smanacciava tremante col guantone-racchetta come quando a ping pong vuoi dare l’effetto, ma nella sua porta.

venerdì 10 dicembre 2010

Roma-Fahrenheit e il Colosseo Quadrato



Come verso la fine della vita può capitare di rimpiangere per un secondo certe cose non fatte o certe donne non fermate per strada, pur accettando l’impossibilità di non poter fare ogni cosa e di non poter fermare ogni donna, così ogni volta che vado a Roma ho la sensazione che mi manchi sempre del tempo, quello necessario per osservare con attenzione le meraviglie che la capitale mostra o nasconde, a seconda delle situazioni e della prontezza di chi la sbircia.

Ad esempio mercoledì, mentre raggiungevo il Palazzo dei Congressi dell’EUR per partecipare alla puntata di Fahrenheit trasmessa in diretta dalla Fiera Più libri Più Liberi, speravo mi avanzasse del tempo (sempre quello, prima o dopo) per guardare da vicino il Palazzo della Civiltà Italiana, soprannominato anche il Colosseo Quadrato o Groviera, e controllare quindi se corrispondeva al vero quell’informazione letta su Wikipedia (ebbene sì, anche io consulto Wikipedia, come del resto fa Michel Houellebecq, ovvero l’autore di uno dei libri più belli che ho letto in questo 2010) e cioè che “in alcune ore del giorno e in particolare di notte, l’edificio del Piacentini esprimesse un evidente fascino di architettura metafisica”. Che poi uno può cliccare su Piacentini e Razionalismo italiano se vuole saperne di più, o quantomeno qualcosa.
Comunque, avevo calcolato il tempo necessario dalla fermata Ottaviano a quella EUR Fermi per non ritardare l’appuntamento radiofonico e potermi permettere qualche spiata metafisica, ma non avevo fatto i conti con i lavori nei sottopassi della Stazione Termini, capaci di rallentare anche due camminatori esperti come me e M.
Partiti col sole poi, sbucati da EUR Fermi pioveva, quindi abbiamo preso il Bus Navetta per la Fiera e così il Colosseo Quadrato l’ho visto solamente dal finestrino, senza potermi avvicinare al groviera come avevo sperato.
Come in ogni luogo chiuso affollato, dentro il Palazzo dei Congressi faceva molto caldo, e mentre pensavo a non dire scemenze durante la spiegazione del perché avevo scelto “Nel territorio del diavolo” di Flannery O’Connor come “mio libro” della Fiera, altri pensieri, votati a tranquillizzarmi, mi facevano tornare a poche ore prima quando, presso un famoso antico forno-focacceria sito in Campo de’ Fiori, avevo notato appena fuori dal bagno una maglia di Totti autografata dentro un quadro, e per un attimo avevo desiderato comportarmi da vero inesperto di calcio, avvicinando il gestore per chiedere: “Scusi, ma il Totti non giocava mica nella Lazio?”.
Ottima in ogni caso la focaccia, anche se il rischio paventato dalla guida di sporcarsi la faccia e la barba di bianco farina, non era in effetti da sottovalutare.
Alle 17.10 sono andato in onda, in compagnia di Christian Raimo di Minimum Fax, autore della prefazione dei saggi sul mestiere di scrivere della O’Connor. Ho detto la mia, svelando agli ascoltatori di Radio3 quello che i lettori di Quasi Rete sapevano già. Cose relative alla grazia, e al coraggio di guardare. Poi la conduttrice Loredana Lipperini mi ha chiesto a bruciapelo quale libro sarei stato, in una vita di carta e non di carne, e allora ho detto “La vita agra”, di Luciano Bianciardi. Un parte del pubblico seduto nel caffè letterario sotto il palco ha emesso un breve boato di approvazione, e sorpreso ho realizzato di aver fatto goal. O meglio, di averla passata bene a Bianciardi che, davanti a Julio Sergio, ha fatto quello che solo i campioni sanno fare: saltare in dribbling il portiere, e accompagnare la palla oltre la riga di porta.

giovedì 9 dicembre 2010

Il ragazzo dai capelli come Pavel Nedved



Ho conosciuto un ragazzo che, per diventare come il suo campione preferito, era solito recarsi dal parrucchiere per farsi pettinare i capelli come il suo campione preferito.

Per una coincidenza sfortunata, il suo campione preferito era Pavel Nedved, proprietario di una chioma bionda irripetibile, sorgente dal centro della testa per propagarsi poi, attraverso onde saltellanti durante la corsa, fino quasi alle spalle.

E’ stato forse per il tempo perduto dal parrucchiere e a guardarsi allo specchio che quel ragazzo non è diventato forte come Nedved, lo si capisce con chiarezza leggendo La mia vita normale, autobiografia del fuoriclasse ceco scritta dall’ex giocatore di Juventus e Lazio in collaborazione con Michele Dalai, e pubblicata da add.

Leggere la vita di una persona importante è piacevole quando dal racconto traspare la normalità di essere straordinario, e quando questa eccellenza viene descritta senza presunzioni. E’ questo il caso della Vita normale di Pavel, iniziata a Cheb, ad ovest della Repubblica Ceca, nel 1972 e proseguita poi prevalentemente a Praga, Roma, e Torino. Luoghi dove Nedved ha dedicato più tempo a rinforzare il suo luminoso talento che a pettinare i suoi belli capelli.

Ora potrei raccontare della Rivoluzione di Velluto, delle Vacanze romane o del Pallone d’Oro di Pavel. Di certi derby o di un’ammonizione da dimenticare. Ma non voglio rovinare la lettura a chi magari sta già correndo, appena meno veloce della Furia Ceca, fino alla libreria più vicina per acquistare il prezioso volume, sorprendendo per giunta il libraio grazie ad una parrucca bionda esplosiva indossata per l’occasione.

Preferisco svelare un segreto nascosto a destra di pagina 96, dove solitamente, come tutti sanno, trova spazio pagina 97. Non in questo caso.
Qui a destra del 96 iniziano le fotografie, con un Nedved bambino splendente in mezzo agli altri compagni di classe. La domanda è: perché alcune persone splendono nelle fotografie? Solo una questione di luce, o accordi col fotografo? No, io non ci credo. Voi non so, ma se sapete la verità, fatemelo sapere.

martedì 30 novembre 2010

Liga: Barcelona-Real Madrid (Il coraggio di Flannery, la Manita e la sacra bellezza di vivere)


Da Milano, l’amico F. mi scrive: “Quale aspetto positivo può esserci nell’alzarsi alle otto e trenta del mattino di domenica per andare a lavorare in un negozio dove trascorrerò la giornata in balia di orde di italiani votati allo shopping pre-natalizio?”.
Caro F., rispondo comprensivo, l’unico aspetto positivo che mi viene in mente è quello di non essere morto durante il sonno.

Ma appena dopo aver pensato alla sacra bellezza del poter vivere, il mio pensiero si sposta verso vantaggi ulteriori. Una volta superata la domenica lavorativa, l’amico F. potrà anche decidere cosa guardare alla televisione lunedì sera: Vieni via con me della coppia Fazio-Saviano o il Clasico di Spagna, Barcelona-Real Madrid? Conosco bene F., e fino all’ultimo resterà indeciso.

Intanto la domenica regalata al Dio-Lavoro se la farà passare nel migliore dei modi grazie al consueto stratagemma: acquistare un libro dopo averlo scelto con attenzione, ovvero il contrario di quello che fa la maggioranza dei clienti del negozio dove lavora i quali, simili a pecore bianche rosse e verdi, tendono a scegliere il rettangolo con pagine situato ai primi posti della classifica (pensiero che rassicura la pecora italica per fortuna non clonata: “Ah, quel libro è primo, meglio andare sul sicuro, se piace alla maggioranza delle persone un motivo ci sarà…”) o quello consigliato da qualche giornalista/scrittore (talvolta prostituito intellettualmente) in una recensione sui quotidiani nazionali.
F. quasi sempre compra libri non consigliati, fidandosi dei suggerimenti che, immancabilmente, sfuggono a certi scrittori che legge. Non si ricorda però chi, qualche anno fa, gli presentò Flannery O’Connor. Pazienza, la fortuna di aver conosciuto Flannery fa passare in secondo piano chi gliela presentò.

Della scrittrice americana, F. ricorda le fotografie scovate in rete. F. controlla sempre la faccia degli scrittori che ama, forse per capire dalle rughe o dal taglio degli occhi come fanno ad essere così bravi. Il suo è un tentativo di scoprire, leggendo i tratti del naso o il taglio della bocca degli scrittori stimati, una fisiognomica del genio o quantomeno del talento, senza dimenticare che, come ha imparato ascoltando Franco Battiato, in fondo siamo miseri ruscelli senza Fonte. Della O’Connor il mio amico F. ricorda soprattutto tre foto: una seduta in poltrona con un libro tra le mani, una con cappello dietro una staccionata, una con collana che sembra una fototessera da carta d’idendità. C’è un sentimento comune però che traspare dalle tre immagini: è quello dell’umiltà.

A F. le fotografie di Flannery arrivano da chissà dove nella testa mentre si trova in una cassa che è un parallelepipedo di vetro aperto sopra per far respirare, dentro il quale ci sta un cassiere, lui nella fattispecie. Ma ovunque si giri, fotografie di altri scrittori lo guardano. Sono tutte molto serie, con le mani appoggiate ad una parte del viso come se stessero pensando a qualche cosa di assoluto, fondamentale e determinante. Mani che sorreggono menti, fronti, sopracciglia. Per intenderci nessuno che si metta le dita nel naso. Truman Capote si sistema gli occhiali ad esempio, ma è chiaro che sta riflettendo su qualcosa di molto importante. Ernest Hemingway invece è grande come una porta, e tiene in braccio un gatto. Il cassiere F. comincia male con lui quando, girandosi verso sinistra e avendo l’impressione che il gatto voglia fuggire da quell’abbraccio un po’ forzato, lo provoca:
“E lascialo scendere Ernest, povera bestiaccia. Sai che ti dico? Francis Scott Fitzgerald mi piace molto più di te. Non so cos’è, ma Il grande Gatsby, ecco, è quello. E lascia giù quel gatto.”

F. vorrebbe una fotografia di Flannery O’Connor da guardare ogni tanto mentre restituisce soldi o carte fedeltà a clienti che comprano Cotto e mangiato. La cerca disperato con gli occhi, ma non la trova sulle pareti. Flannery, dove sei?
Ricorda allora un brano tratto da Nel territorio del diavolo (minimum fax), i saggi sul mestiere di scrivere dell’autrice de La saggezza del sangue.
“Scrivere un romanzo è un’esperienza terribile, durante la quale spesso cadono i capelli e i denti si guastano. Se il romanziere non è sostenuto dalla speranza di far soldi, deve essere almeno sostenuto da una speranza di redenzione, altrimenti non sopravviverà alla prova. Chi è senza speranza non solo non scrive romanzi ma, quel che più conta, non ne legge. Non ferma a lungo lo sguardo su nulla, perché gliene manca il coraggio.”
Con tutti i soldi che mi passano tra le mani qui in cassa, pensa F., qualora avessi al riguardo dubbi che non ho, li butto nel cestino. Non i soldi, ma i dubbi: nel mio percorso di piccolo scrittore, l’unica forza che mi spinge è la speranza di redenzione.
Questo è l‘ultimo discorso registrato di F., prima di essere inghiottito nella ripetitività dei gesti, tumulato nella teca di vetro domenicale in attesa delle ore diciannove.

Poi è lunedì sera. La decisione è presa: Barcelona-Real Madrid, e nell’intervallo Vieni via con me. Si rivelerà quella giusta, fatta eccezione per l’intervallo, che andrà a coincidere purtroppo con il noioso e inutile balletto teatrale sulle note accelerate della canzone di Paolo Conte, messo in scena da attori esagerati per la quarta volta consecutiva. Basta.

La partenza della squadra di Guardiola è da brividi. Xavi, Iniesta e compagnia fanno girare palla così veloce che le Meringhe madrilene non sanno più da che parte voltarsi. 2-0 dopo diciotto minuti, 5-0 al novantesimo. La Manita. Un risultato che va stretto al Barca, composto da undici giocatori che hanno il coraggio di guardare. I centomila del Camp Nou passano il secondo tempo a cercare con la voce Josè Mourinho, apparentemente scomparso. E’ invece seduto in panchina, mentre una telecamera inquadra lo striscione della serata:
“Mourinho, ora e sempre Traduttore”.
Per l’allenatore portoghese, reduce dal triplete nerazzurro ottenuto senza sportività, davvero una brutta serata.

venerdì 26 novembre 2010

Serie A: Genoa-Juventus (Lo zucchero di Campana e il vendicatore del calcio moderno)

Il principale vantaggio delle cose e delle costruzioni rispetto alle persone, risiede nella possibilità di durare (una volta venute alla luce) oltre la vita degli umani, o di esistere già quando questi si presentano nel mondo, con l’ingenuità o la presunzione di essere i primi o fondamentali.

Ogni volta che vado a Genova, passo per piazza Caricamento e resto qualche minuto a guardare la sopraelevata, rammentando sempre un’intervista a Paolo Villaggio nella quale l’attore genovese ricordava di essersi svegliato un giorno e di essere rimasto stupefatto nella negatività della scoperta: chi aveva tirato su quell’orrore di cemento che impediva la visione del mare? Le generazioni future sarebbero state liberate da quella bruttezza?
Successivamente mi è capitato di percorrerla da automobilista la sopraelevata, e osservando il profilo al tramonto di Zena ho pensato che anche una cosa brutta può permettere in qualche modo di accedere alla bellezza. Una magra consolazione.

Poi solitamente faccio colazione al Caffè degli Specchi, rubando talvolta la bustina di zucchero con scritto sopra dei versi di Dino Campana, che qui prendeva cappuccio e brioche prima di essere costretto a fare la cosa che ogni scrittore si augura non gli capiti mai: provare a riscrivere un libro a memoria, dopo averlo sfortunatamente smarrito.
”Entro una grotta di porcellana
sorbendo caffè
guardavo dall’invetriata
la folla salire veloce”.

Dagli spalti del Luigi Ferraris dei giocatori senti quasi l’odore, e ti sembra di essere in un campetto di periferia dove puoi guardare chi gioca sulla fascia negli occhi. Milos Krasic rappresenta una sorta di vendetta contro il calcio moderno, colpevole di aver assassinato la maggioranza delle ali di una volta. Sarebbe un numero 7, ma indossa il 27. La sua visione personale del football è semplice: riceve palla, la stoppa e punta il difensore. Lo fa con tale naturalezza da portare il marcatore (il numero 3 di una volta) in una zona del cervello molto vicina all’esaurimento nervoso. Prima di alzare bandiera bianca e correre sul lettino dello psicanalista, solitamente il terzino sinistro si piglia almeno un cartellino giallo. Per questo, dopo la simulazione dell’ala serba a Bologna abbiamo assistito ad una serie di corsivi indignati, che curiosamente non si sono ripetuti dopo la testata di Samuel Eto’o a Cesar in Chievo-Inter. Quando fatichi a fermare un campione sul campo, provi a bloccarlo sui giornali.

Al primo pallone toccato da Milos, ho pensato che lo stratagemma fosse servito. Palla a Krasic che punta Criscito il quale, per non essere scavalcato, lo butta per terra con le braccia. L’arbitro lascia correre, e Del Neri è solo uno dei tifosi juventini che si mette a pensare: “Ecco, adesso cercheranno di farlo passare per simulatore sempre”.
Non sarà così.

Sotto gli ingiustificati Buu del pubblico genoano, Krasic prima è sembrato smarrirsi, poi ha ripetuto l’esercizio preferito. Stop e puntare. Dalla gradinata avevo la sensazione di leggere la sua idea nascosta sotto i biondi capelli. Ragionava in serbo, ripetendo a se stesso più o meno così: “adesso la stoppo, poi punto Criscito”.

L'avrebbero steso quattro o cinque volte, sarebbero arrivati i primi gialli. Poi Krasic avrebbe deciso per lo slalom, saltando come paletti tre difensori rossoblu prima di calciare verso il palo più lontano che l’avrebbe premiato spingendo la palla oltre la linea bianca. Genoa 0 Juventus 2.

Il secondo tempo non avrebbe cambiato il risultato e Krasic, uscendo dal terreno di gioco sostituito da Sissoko, mi avrebbe dato la stessa impressione di un appartenente alla folla che, oltre il vetro, saliva veloce.

mercoledì 24 novembre 2010

Tornando a casa

Ieri pomeriggio ho incontrato me stesso mentre tornavo a casa dall’oratorio. Avevo probabilmente nove anni, indossavo una maglietta a righe verticali bianche e nere, di cotone, che avevo comprato nell’emporio vicino al cortile sul lato sinistro della chiesa del mio quartiere. Si poteva scegliere fra tre colori diversi di righe alternati al nero, ma francamente non avevo avuto nessuno dubbio, e al proprietario dell’emporio avevo detto: “Ecco, voglio quella”.

Tornavo a casa dall’oratorio, e il fatto d’incontrarmi adesso nel 2010 a Milano all’inizio mi aveva sorpreso: possibile che fossi davvero io?
Non ho avuto il coraggio di salutarmi, e nemmeno di accarezzarmi con la mano i capelli come fanno certi grandi con i bambini.
Ho continuato a camminare sul marciapiede, calcolando con il piede destro i centimetri da far percorrere alla palla per raggiungerla dopo un passo senza farla scontrare contro altri passanti sul marciapiede, o prima che il cane del fruttivendolo scambiasse uno stop a seguire per un invito al triangolo.

Allora ieri pomeriggio mi sono voltato di scatto e ho seguito quel ragazzino che tornava a casa felice dopo aver giocato a pallone, di una felicità che (non ho avuto il coraggio di dirgli) sarebbe stata la forma di felicità più pura che avrebbe provato in vita sua.
L’ho raggiunto cercando di non spaventarlo e gli ho detto sai, probabilmente il sogno che hai nella testa ora non lo realizzerai, ma un giorno, il 24 novembre del 2010, riceverai una breve lettera da parte del Presidente della Juventus, che ti ringrazierà per un libro che gli hai spedito. Adesso è difficile da spiegare, ma ti verranno gli occhi lucidi, che non sai cosa vuol dire ma ti assicuro è una cosa bella associata alla possibilità che le lacrime non siano per forza sinonimo di sofferenza. Penserai che è da stupidi emozionarsi così a trentacinque anni, ma stai tranquillo, forse in quella capacità di emozionarsi si nasconde l’impresa di aver conservato qualcosa di quel ragazzino con la maglia a strisce, che aveva intuito se stesso futuro in un signore grande e un po’ strano che l’aveva rincorso lungo il marciapiede.

martedì 23 novembre 2010

Le elezioni. Perché votare “Mio padre era bellissimo” come Libro dell’Anno di Fahrenheit?

Francamente non ne ho la più pallida idea. Tuttavia, l’8 dicembre parteciperò a Fahrenheit. Durante la puntata, in diretta dalla Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria di Roma, verrà proclamato il Libro dell’Anno 2010, scelto tra tutti i libri del mese segnalati dalla trasmissione.
E’ possibile votare “Mio padre era bellissimo” (già Libro del Mese di Gennaio) scrivendo una mail a

fahre@rai.it

Per il testo fate voi, consigliabile il classico:
“Voto per Mio padre era bellissimo di Francesco Savio”.

Già, ma perché votare “Mio padre era bellissimo” come Libro dell’Anno di Fahrenheit?
L’unica cosa che mi viene in mente per invogliare i lettori di Radio 3 e non solo a votare il mio libro piuttosto che quello di un altro, risiede nella leggerezza di “Mio padre era bellissimo”. Una leggerezza non filosofica o spirituale, ma sancita dai grammi. Ci sono infatti svariate possibilità che il mio libro sia il più leggero in concorso e quindi posso dire questo:
“Se siete una di quelle persone che comprano due, tre quotidiani al giorno, avrete certamente notato una cosa. I giornali ormai arrivano intorno alle settanta pagine ciascuno tra articoli più o meno interessanti e pubblicità con le donne nude. Pertanto, se amate accompagnare la lettura del quotidiano a quella di un buon libro, quale migliore soluzione che infilarsi sottobraccio “Mio padre era bellissimo”, di sole 139 pagine? Un bilanciamento cartaceo. Una velata protesta contro il sistema dell’informazione che obbliga, ad esempio, a pagare cinquanta centesimi in più al sabato per un chilo di rivista femminile non desiderata, aggregata al quotidiano numero 1 o 2. Senza contare che nel libro di Savio a sorpresa non ci sono donne nude.

Secondo aspetto, da non sottovalutare, e derivante dall’infanzia quando mi capitò di trovare nella cassetta della posta un portachiavi con uno Scudo da un lato e il volto di un candidato dall’altro. Votate X, c’era scritto, e molti condomini accettarono il consiglio, soddisfatti per il nuovo portachiavi.
Non arriverò a tanto, però. E’ mia intenzione regalare a tutti quelli che voteranno “Mio padre era bellissimo” una matita, la stessa (lunga sottile, marroncina, perfettamente temperata) che Giorgio Gaber rubò dalla cabina nella sua adorabile canzone che parlava di elezioni. Di più non posso promettere.
Grazie.

lunedì 22 novembre 2010

Contro la Chiesa del silenzio (con Langone da prima di Langone)


Sul Foglio di sabato, il bravo Langone scrive contro la Chiesa del silenzio che “non dice niente” in merito alle aperture domenicali di Esselunga, Coop ecc.
“Il Papa non dice niente” commenta E., un amico del giornalista che lavora all’Esselunga. E con lui la Cei (questo sindacato di vescovi senza carisma, specifica Camillo).
Langone non vorrebbe che un giorno si addebitasse alla Chiesa questo silenzio, e prega affinché nelle prossime settimane un autorevole uomo di Chiesa prenda la parola e dichiari che chi decide a favore delle aperture domenicali è contro Dio e perciò contro l’uomo. Proprietari che chiedono, amministratori pubblici che autorizzano. Mentre i clienti domenicali, conclude splendidamente Langone, sono semplicemente contro sé stessi.

Già. A partire dalla metà degli anni novanta le aperture domenicali hanno rivoluzionato la vita dei lavoratori del commercio, categoria che peraltro sindacalmente non conta nulla. Qualcuno raccontava che sarebbe aumentata la ricchezza di tutti, che si sarebbero creati nuovi posti di lavoro. Qualcuno ci aveva anche creduto.
Alla Chiesa quindi non addebito un silenzio, ma una colpa. Una delle tante.
Ho visto famiglie spostarsi dalle chiese ai centri commerciali, stufi di pregare Dio per un qualcosa futuro meno affascinante di uno shopping presente. Per questo l’indignazione di Langone arriva con quindici anni di ritardo. E sono certo che nessun autorevole uomo di Chiesa prenderà la parola. Perché la Chiesa è corrotta, il Papa è corrotto, la maggioranza dei vescovi sono corrotti, di una corruzione che purtroppo non è materiale ma spirituale. Mi sento quasi banale nell’affermarlo, ma mi sentirei ancora più ingenuo nell’ipotizzare prese di posizione che non arriveranno mai. Certo l’uomo, come sempre, può scegliere, e quindi se gli italiani non fossero un gregge galoppante alla domenica verso il centro commerciale più vicino, non servirebbe nessuna Preghiera.

Per fare la mia parte comunque, verso le sei del pomeriggio di domenica ho camminato fino alla chiesa di Santa Maria delle Grazie. Sono entrato, e sono rimasto in silenzio quasi trenta minuti a guardare il soffitto.

martedì 16 novembre 2010

Serie A: Inter-Milan (Un derby deciso dal parrucchiere, ovvero Materazzi Taxi Driver)



Che si sarebbe trattato di un derby deciso dal parrucchiere lo si era capito già la sera del 31 ottobre scorso quando, al termine di Mila-Juventus 1-2, Silvio Berlusconi aveva individuato nei capelli di Massimiliano Allegri la radice della sconfitta rossonera.
L’allenatore del Milan il mattino seguente si era prontamente recato dal parrucchiere per regolare la chioma in modo che risultasse adatta a rilasciare interviste in sala stampa, e da quel momento Nesta e compagni avevano cominciato a girare per il verso giusto, seguendo una rotazione di vittorie più adeguata ad una squadra votata al conseguimento dello scudetto.

Conoscendo la predisposizione del Presidente del Consiglio ad azzeccare le mosse vincenti anticipando gli altri concorrenti, sia come proprietario di club che come politico, il resto dei contendenti aveva utilizzato il ponte dei Morti per consultarsi con i parrucchieri più autorevoli della penisola. Massimo Moratti aveva consigliato Benitez di studiare con attenzione le scelte del barbiere di Milanello ma la società di via Turati, esempio di azienda organizzata in maniera quasi esemplare, aveva immediatamente obbligato i suoi calciatori a farsi fotografare o riprendere sempre con il berretto in testa, per non permettere agli avversari più temibili di spiare.

Così Rafa aveva dovuto improvvisare, lasciando liberi i reduci del Triplete di sistemarsi la capigliatura nel modo che preferivano, possibilmente lo stesso che avevano adottato con Mourinho, ma senza dichiararlo per non aumentare la nostalgia. Se però ad esempio Javier Zanetti non aveva avuto dubbi a pettinarsi sempre con la riga a sinistra come un uomo degli anni quaranta, Marco Materazzi, investito a sorpresa del gravoso compito di marcatura di Zlatan Ibrahimovic, qualche incertezza in più l’aveva provata, e alla fine aveva pensato di copiare la soluzione estrema “alla moicana” di Robert De Niro in Taxi Driver. Davanti allo specchio di casa, prima di eseguire il taglio, Marco si preparava a sfidare il suo peggior ex amico, incapace di comprendere che i nervi gli stavano per saltare definitivamente. http://www.youtube.com/watch?v=Zduq4YGmiUw

Una volta in campo, Matrix se ne sarebbe reso conto troppo tardi, quando già era in scivolata sul prato bagnato di San Siro per travolgere il centravanti svedese appena dentro l’area di rigore interista. Palla sul dischetto e uno a zero per il Milan al quinto minuto del primo tempo.
Il resto della partita sarebbe stata una sfilata di pettinature, con i calciatori nerazzurri costretti ad ammirare le scelte estetiche sopra la fonte dei ragazzi di Allegri.
Via il berretto, e Seedorf aveva mantenuto il suo intelligente cranio rasato, Pirlo la sua svolazzante testa ondulata, Thiago Silva i suoi corti riccioli brasiliani.
Dall’altra parte, Materazzi Taxi Driver era solo il più evidente sbaglio di un barbiere poco ispirato, senza il coraggio di abbassare l’esplosione forestale del bambin Coutinho (Paulo Roberto Coutinho), di porre rimedio all’aeroportuale avanzata centrale del ciuffo di Pandev, d’impedire il disegno a trecce-righe curve sul capo dell’infatti presto infortunato Obi.

venerdì 12 novembre 2010

Serie A: Brescia-Juventus (L’ineducato Garrone, Cassano che ride e il concetto di genio racchiuso in un tiro di Diamanti)

La notizia mi giunge nel cervello poco prima che inizi Brescia-Juventus.
“Riccardo Garrone, presidente della Sampdoria, è pronto a chiedere la pena di morte per Antonio Cassano”. La scritta compare veloce in basso sul teleschermo, evidenziata dallo strillo: ultim’ora. “Se ritenuto colpevole, Antonio da Bari vecchia verrà probabilmente giustiziato in Cina, i buoni rapporti tra l’Italia e il Paese di Hu Jintao dovrebbero facilitare l’estradizione del pericoloso fantasista”.

Di quale atroce delitto si è macchiato il numero 99? Nessuno lo sa con precisione tranne i diretti interessati. Qualcuno fa finta di saperlo, altri esprimono la loro opinione basandosi sul “sentito dire”. Sì, gli ha detto “vecchio di m.”, ma in una discussione potrebbero contare altre cose avvenute prima dell’insulto.

Dopo il lancio d’agenzia è arrivata l’intervista di Garrone da Genova alta che, parlando con la bocca stretta come fanno certi ricchi, ha detto che Cassano è un ineducato, che Del Neri l’aveva avvertito e lui non gli aveva creduto, che Cassano è una persona fragile. Quindi non gioca più, nonostante le scuse.

Guardavo il presidente del Doria e pensavo a quello che avevo letto il 2 novembre su Repubblica. Un articolo di Gabriele Romagnoli che, sottolineando le lampanti differenze tra il calciatore e il petroliere, tra le altre cose ricordava come l’industriale fosse sopravvissuto un po’ a tutto nella sua vita, “compreso un processo penale per corruzione seguito all’apertura lampo di un impianto a Siracusa (assolto in secondo grado o salvato dalla prescrizione per altri addebiti)”.
Guardavo la bocca stretta del benzinaio Erg e pensavo: “c****, questo qui è uno che non perdona”. Poi chiedevo scusa a Riccardo per aver detto c****. Ma lui lo stesso non mi faceva più scrivere.

Stavo ancora sorridendo amaro, stupito da certe questioni di principio sollevate da pulpiti salvati dalla condanna penale per prescrizione, quando Garrone ha smesso di parlare al cronista per rivolgersi, rugoso e spietato, proprio a me.
“Cosa hai detto Savio??”
“Niente presidente, dicevo solo ma non lo sapevi che Cassano era così? Credevi di aver comprato Del Piero? E dai poteva andarti peggio, se pigliavi Balotelli? Antonio rispetto a Mario pare quasi San Francesco”.

San Francesco magari no, tuttavia credo che il maleducato Cassano sia il solo giocatore ancora capace di ridere in campo. Prima, durante e dopo la partita con gli avversari, calciatori e allenatori. Cassano ride e scherza, in un ambiente dove le conferenze stampa dei Mister sembrano interviste a chirurghi che hanno appena operato pazienti a cuore aperto, o a Capi di Stato che hanno deciso di dichiarare guerra allo Stato canaglia di turno. Perché gli allenatori italiani non perdono mai per colpa loro, ma sempre per colpa dell’arbitro.
Il sorriso cafone di Cassano mi manca già, e se esistesse un tribunale della bellezza, la persona da giudicare sarebbe Garrone, che con la sua sospetta intransigenza sta privando il pallone di uno che si diverte ancora a prenderlo a calci.

Ragionavo così quando, dal vertice sinistro dell’area di rigore, Diamanti ha tirato fuori un incredibile colpo di punta esterno che, seguendo la traiettoria di una spada curva e invisibile, ha sfiorato la testa di Chiellini senza decapitarlo, prima d’infilarsi nel sette alla sinistra di Storari. Un goal mostruoso, che i replay successivi avrebbero mostrato più volte in tutta la sua unicità. Un’idea di tiro che solo ad un matto come Cassano poteva venire in mente. Quindi nello stadio della mia città, con il cuore diviso a metà, mi sono alzato ad applaudire, senza riuscire a smettere. Ma che goal hai fatto Antonio?? Per fortuna che sei tornato.

lunedì 8 novembre 2010

Serie A: Inter- Brescia (Il viaggio di Jeanne e quello di Eto’o)

Noleggiare un film da Blockbuster è sempre più difficile. Da qualche anno il catalogo è stato smantellato, e per un appassionato di cinema trovare pellicole che si elevino al di sopra della mediocrità tanto cara alla maggioranza degli italiani bisogna brancolare nel gialloblu per almeno un quarto d’ora. Qualcuno potrebbe obiettare: “ma un appassionato di cinema non si reca da Blockbuster per trovare un film decente…” Giusto, ma è anche vero che videoteche migliori non sono così vicine a casa.

Il miracolo tuttavia può accadere, e al calare di un pomeriggio scorgo sullo scaffale “Il viaggio di Jeanne” (Les Grandes personnes) di Anna Novion. Mi dirigo in cassa dove mi attende una coda poco piacevole, con i poveri commessi schiacciati dalla massa italiota del sabato che pressa e sbuffa. Mogli vestiste come baldracche, mariti palestrati con i pantaloni a vita bassa programmano una brutta serata che ringraziando il cielo riguarderà solo loro, adagiati sul divano a visionare un pessimo film, tra mitragliate di telefonate e messaggini.

Riesco a noleggiare “Il viaggio di Jeanne”, superando il commesso che da consumato piazzista obbligato mi offre di tutto, l’importante è che non esca dal negozio “solo” con “Il viaggio di Jeanne”. Se aggiungo 3 euro posso prendere altri due film, da consegnare entro 48 ore. No, grazie. Se aggiungo 1 euro mi porto via una confezione di M&M’S, quelli con le noccioline. No, grazie. Se aggiungo il cofanetto del Decalogo di Kieslowski euro ho diritto ad uno sconto del 50% sulla mia futura bara in legno di cirmolo, molto pregiato. Cristo, finalmente una proposta definitiva. Mi complimento col piazzista, accetto e corro a casa.

Con i francesi vai quasi sempre sul sicuro. Il loro cinema sta in equilibrio, il nostro no. E’ come se abitasse una dimensione speciale, che un tempo ci riguardava. Ma adesso no, e non capisco perché. Cioè lo intuisco ma non ho tempo di spiegarlo perché comincia Inter-Brescia. O meglio la squadra di Iachini contro Eto'o, stupendo numero 9 che gioca con i nerazzurri. Uno che se di lavoro fai il difensore del Brescia, prima di scendere in campo perdi almeno cinque minuti davanti al crocifisso nello spogliatoio pregando che si prenda una storta nel riscaldamento.

Niente da fare, e lui ti punta, finta, modella la bellezza dei suoi lunghi muscoli per scatti che ti lasciano sul posto, quasi abbattuto nel tuo destino di giocatore “normale”. Ma ti fai forza, gli altri dieci di Benitez non sono così di un altro pianeta e allora disputi un bel primo tempo, vai in vantaggio con il tuo centravanti/capitano e poi al riposo vincendo a San Siro contro i campioni d’Europa.
Il secondo tempo te lo immagini già. Stringere i denti e difendersi senza abbassarsi troppo, sperando che Diamanti controlli i nervi ed inventi qualcosa in contropiede. Passano i minuti e quasi ci credi. Poi ricordi che ad un arbitro, se vuole fare carriera, certi rigori che non ci sono alle squadre di vertice bisogna fischiarli comunque, anche se il giocatore stupendo è rotolato da solo sul pallone come un bambino. Pazienza, hai fatto il possibile. Non hai vinto ma non è colpa tua. Porti a Brescia un punto dopo cinque sconfitte consecutive. Certo aggiungendone altri due, avresti avuto uno sconto su quelli che ti mancano per rimanere in serie A.

domenica 7 novembre 2010

I valori del calcio nel settore giovanile e scolastico e nell'attività di base FIGC CRL

Ecco il video ufficiale del Campus della FIGC (settore giovanile scolastico) di Salice Terme, prodotto e diretto da Officina27, al quale ho collaborato con la stesura della storia originale.

Un estratto del testo:
Mi hanno presa a calci fin dall’inizio.
La prima volta che l’hanno fatto, gli italiani avevano tutti una maglietta bianca, perché era quella che costava meno. I pantaloncini e i calzettoni invece erano di tutti i colori. Avrebbero potuto mettersi d’accordo.

Ho perso la testa per piedi speciali. Quelli di Silvio Piola e Giuseppe Meazza.
Ho ascoltato i consigli di Vittorio Pozzo a ragazzi che, io lo sapevo già, sarebbero diventati campioni del mondo. Prima a Roma e poi a Parigi.

Mi sono messa a piangere per Valentino Mazzola e i campioni del Grande Torino.

Sono tornata a divertirmi una sera d’estate del ‘68, quando l’Italia è diventata campione d’Europa.
Due anni dopo in Messico ho pensato di regalarvi una partita straordinaria. Ho imparato ad amare nello stesso modo le carezze dolci di Gianni Rivera, e gli schiaffi senza appello di Gigi Riva.

In tutti questi anni ho cambiato faccia tante volte, ma sono rimasta sempre la stessa.

Nell’estate del 1982 ho visto Enzo Bearzot portato in trionfo dalla sua squadra.

Mi sono spaventata dentro notti magiche, osservando gli occhi enormi di un ragazzo siciliano.

Nel ‘94 ho cercato di riscoprire l’America seguendo sul prato le idee di carta di un rivoluzionario.

In Germania mi sono lasciata proteggere dai guanti di Buffon e dalla tranquillità dei tacchetti di Grosso.
Fabio Cannavaro mi deve ancora un pizza, e Marcello Lippi un sigaro.

lunedì 1 novembre 2010

Serie A: Milan-Juve-Houellebecq (Tutte le carte in regola per essere francese)

Ho tutte le carte in regola per essere francese, come Piero Ciampi aveva tutte le carte in regola per essere un artista.
Da piccolo, chiedevo a mio padre:
“Papà, perché non siamo francesi?”
Lui rispondeva enigmatico:
“Comincia ad andare bene a scuola, e si vedrà…”

Crescendo, pur non essendo schiavo delle mode, alcuni capi d’abbigliamento marchiati Lacoste e Le Coq Sportif, finivano con l’attrarre il mio gusto più di altri, e quando raramente il portafoglio me lo consentiva, acquistavo qualcosa con il coccodrillo o il galletto, subendo la garbata ironia di mia sorella che m’intimava di essere vittima della moda. Eh no, le rispondevo, mi piacciono perché sono di buona fattura. Questo però non la convinceva.
Anni dopo sarei tornato alla carica, sostituendo la letteratura all’abbigliamento, ovvero raccontando a mia sorella quanto mi fosse piaciuto La Carta e il territorio, dello scrittore francese Michel Houellebecq.

Cosa c’entra questo inizio con Milan-Juventus di sabato sera è difficile dirlo, forse c’entra di più col fatto di non aver accettato pienamente il consiglio di mio padre, specialmente per ciò che riguarda i compiti in classe di italiano, che svolgevo a modo mio, subendo talvolta dai professori qualche segno in penna rossa del tipo “qui sei andato fuori tema”. Ma insomma, stare sempre nel tema che noia.

Parlare di questo non c’entra con Milan-Juventus, e l’alternativa era iniziare con la storia delle due gattare che, verso sera, si contendono le strade del mio quartiere. Una in bicicletta, l’altra al volante di un’automobile caratterizzata dall’inquietante presenza di sacchetti e piattini di plastica che finiscono con lo stipare sedili posteriori e baule, fornendo al passante l’immagine di una macchina sul punto di esplodere e gettare intorno crocchette e scatolette di mangiare per felini.
Sorvolando sui disturbi mentali che trasformano certe donne in gattare, ho visto in quella ciclista la Juventus, e in quella patentata il Milan.

La gattara Allegri ha cominciato bene la partita, grazie soprattutto a un meraviglioso incrocio dei pali colpito da Ibrahimovic. Dopo il primo quarto d’ora di supremazia rossonera, molti gatti juventini hanno allora pensato di essere spacciati, il cibo non sarebbe bastato per tutti, e gli unici a mangiare sarebbero stati i gatti milanisti, con il loro pelo morbido e lucente.
Ad un certo punto però Mamma gatta bianconera, dall’alto dei suoi 36 anni, ha guidato un pericoloso contropiede, peraltro concludendolo troppo egoisticamente, andando al tiro quando avrebbe potuto servire un compagno. Era comunque un segnale.
Qualche minuto dopo, un cross di De Ceglie dalla sinistra esaltava lo stacco e il colpo in sospensione di Quagliarella, che di testa mandava la palla nell’angolo in alto alla destra di Abbiati, complice il sonno di Antonini che evitava di contrastarlo per ammirarne meglio il gesto.
La Juve in bicicletta era in vantaggio, e la gattara Del Neri si metteva a posto soddisfatto gli occhiali bianchi e neri.

Il Milan continuava a creare occasioni di rete, ma in prossimità della porta difesa da Storari qualcosa andava sempre storto. Sfortuna, parate, imprecisione ed eccessiva leziosità aiutavano una Juve grintosa e ben organizzata, capace di rendere inoffensivi sia Pato che Robinho.
Il raddoppio della squadra di Torino era conseguenza della famosa legge riguardante la punizione inferta a chi spreca troppo. Ancora Antonini sbagliava il tempo di un’uscita difensiva, la palla finiva a Sissoko che, con la velocità di uno che non capisce cosa sia quell’oggetto dalla forma circolare che gli rotola tra i piedi, riusciva prima a ciabattare in modo ignobile, poi a servire all’indietro sempre lui, Del Piero, monumento vivente della bellezza del calcio, che con un diagonale di collo trafiggeva un immobile Abbiati. Milan 0, Juventus 2.

Seedorf e Inzaghi cercavano di convincere i gatti loro compagni di squadra che non si trattava di un concorso di bellezza teso a stabilire quale felino fosse più bravo a giocare con la pallina di spugna. Lo scopo della serata era far finire la pallina dentro quella rete bianca, protetta da un gatto con i capelli un po’ i piedi, una maglietta di rara bruttezza bianca con una manica rossa e una verde, e le calze sopra il ginocchio. L’unico a capirlo tuttavia era Zlatan, il gatto svedese, che dimenticato dai difensori avversari accorciava le distanze con facilità incornando da pochi passi.

I cinque minuti di recupero trascorrevano lenti per i gatti bianconeri, che per farli passare più in fretta si mettevano a correre a turno con il pallone fino alla bandierina del calcio d’angolo più vicina, troppo veloci per gatti rossoneri che provavano gli ultimi, poco convinti assalti.

Nel post-partita, Silvio Berlusconi consigliava alla gattara Allegri di pettinarsi (lisciarsi il pelo), prima di andare a farsi intervistare in sala stampa, e così l’unica gattara contenta alla fine era Gigi Del Neri, ovvero quella in bicicletta. Ma per il controllo definitivo della distribuzione di cibo per gatti nel quartiere, ci sarà da aspettare fino a maggio.

giovedì 28 ottobre 2010

Sport Movies a Milano


domenica 31 ottobre - ore 17.30,
Milano, Piazza Mercanti, 2 - Palazzo Giureconsulti - Sala Colonne

Presentazione del video ufficiale del Campus Federale di Salice Terme sui valori del calcio nel Settore Giovanile e Scolastico e nell'Attività di Base F.I.G.C. C.R.L e tavola rotonda su “Etica, calcio giovanile e arbitri”.

Il video ufficiale è una produzione officina27: regia di Elise Cresson, storia originale di Francesco Savio.

Interverranno: Dott. Carlo Tavecchio, Dott. Felice Belloli, Prof. Giuseppe Righini, Prof. Giuseppe Terraneo, Dott. Paolo Casarin.

lunedì 25 ottobre 2010

Serie A: Bologna-Juventus (La famiglia Wapshot non può entrare allo stadio)

L’avvento delle telecamere negli spogliatoi ha svelato fondamentalmente una cosa: quelli dei padroni di casa sono sempre molto grandi e comodi, in alcuni casi (Milan e Inter) sembrano addirittura salotti, con poltrone disposte circolarmente che richiamano ipotetici luoghi letterari, dove gli allenatori al centro della stanza sono messi nella condizione ideale per raccontare ai loro ragazzi trame e personaggi del libro che hanno letto durante la settimana.
Quelli degli ospiti invece sono simili a sgabuzzini, talvolta senza finestre, spazi angusti che forse vogliono essere metafora, con la loro microscopicità, dell’antisportività ben radicata da diversi anni nel calcio italiano. Vieni a giocare a casa mia? Tanto per cominciare ti sbatto nello sgabuzzino, poi vediamo. O forse no, relegare gli avversari dentro spazi ridotti al minimo, è un escamotage per stimolarli a reagire sul campo alla claustrofobia subita sottoterra, con il solo intento di aumentare le probabilità di una partita spettacolare.

Quale che sia la verità, questa scelta contraddice anche un’altra credenza molto diffusa, ovvero che la Tv abbia allontanato gli appassionati dagli stadi e dall’amore per il calcio. Niente di più falso e anzi, nell’osservare i giocatori della Juventus pressati nella stanzetta del Dall’Ara, mi sono ricordato di certi spogliatoi gelidi frequentati da bambino e adolescente durante improbabili trasferte mattutine, anche se credo che quelli della Juve fossero almeno riscaldati. Il mezzo televisivo quindi mi ha trasmesso un’emozione che, se mi fossi recato alla stadio, si sarebbe certamente persa dentro noiosi ed invasivi controlli, tesi a sapere perché nascondessi un libro nello zaino:
Poliziotto numero 1: “E checce fai con sta famiglia Wapshot nello zaino??”
Poliziotto numero 2: “Anvedi oh, abbiamo trovato er poeta de Praga!”
Poliziotto numero 1: “Ah ah ah…ma chette porti i libri allo stadio??”
Io: “No , è che ero al parco a leggere e allora…”
Poliziotto numero 2: “E vabbè per stavolta passi, ma chimme dice che nun lanci er libro in testa a quarcuno??”
Io: “Certo, perché secondo lei io mi metto a lanciare nel vuoto il secondo romanzo di John Cheever, una delle poche cose che non ho ancora letto del grande scrittore americano, rischiando che Lo scandalo Wapshot non mi torni più indietro…”

La vostra folle stupidità, mi stupisce più del fatto che non abbiate fatto le stesse storie a quei bestioni con precedenti penali prima di me nella fila al tornello, che poi per incitare al tribale canto altri come loro, seguiranno la partita a torso nudo nonostante la pioggia dando le spalle al campo, cioè come si schierano gli steward in Inghilterra dove, stranamente, hanno risolto il problema della violenza senza alcuna Tessera del Tifoso.

Ma veniamo a Bologna-Juventus. Una squadra di vertice può permettersi un centravanti scarso, due però no. Questo mi è parso il principale problema della Juve di ieri, che se dotata di un numero 9 titolare scelto a caso tra le altre diciannove compagini della Serie A, probabilmente avrebbe portato a casa i te punti. Ma Del Neri al momento può scegliere tra un Amauri ormai fotocopia precisa a colori del primo Aristoteles della Longobarda banfiana, e un Iaquinta svogliato che, oltre ai soliti limiti tecnici sembra, dai suoi sguardi non particolarmente intelligenti, aver dimenticato il funzionamento di una regola tra le più importanti, quella del fuorigioco.
Quando Krasic si è buttato in area e l’arbitro ha fischiato il calcio di rigore, il buon Vincenzone ha tolto la palla a Felipe Melo pensando di sbloccarsi. “Tiro io” gli ha detto. Per sfortuna dei tifosi juventini l’ha fatto davvero, estraendo dal cilindro il suo classico piattone quasi centrale che l’ottimo Viviano ha parato senza difficoltà. Giusto così, perché il rigore non c’era, e una vittoria ottenuta in quel modo avrebbe generato polemiche infinite, con probabili dubbi da parte di Massimo Moratti riguardanti la presenza di Luciano Moggi dietro ogni decisione sbagliata di un arbitro, in Italia e nel mondo.

Per qualche minuto il Bologna ha comunque reagito rabbiosamente all’ingiustizia subita, senza tuttavia impensierire Storari. Nel secondo tempo la Juventus ha mantenuto una supremazia sterile, resa appena più fertile dall’ingresso di Del Piero al posto di un Krasic divorato dal senso di colpa manco fosse Kafka e dai buu del pubblico bolognese, e di un Martinez che ha fatto intravedere qualcosa delle sue potenzialità, valutate in estate dodici milioni di euro.

Il libro di John Cheever com’era prevedibile non l’ho utilizzato come corpo contundente, ho usato invece una matita per fare cerchi intorno ai nomi dei personaggi principali de Lo scandalo Wapshot, perché leggere e guardare una partita contemporaneamente porta a perdere il filo della storia. Il migliore in campo, a mio insindacabile giudizio, è stato Emiliano Viviano, bravissimo già ai tempi del Brescia, inseguito da un curioso destino sportivo che lo vuole da sempre acceso tifoso fiorentino, di proprietà dell’Inter, e salvatore del Bologna.

mercoledì 20 ottobre 2010

Serie A: Milan-Chievo (Thoreau non basta al Céo)


Le cose che mi distinguono da Pirlo sono molte, ma le più evidenti sono di natura tecnica ed economica. Restando a quelle sul campo, mi ha sempre affascinato il coraggio di Andrea nel farsi dare palla al limite della propria area, pur sapendo di essere braccato dal centrocampista avversario, incaricato a contrastare sul nascere il generatore principale della manovra rossonera. Io invece da ragazzo, specie nei momenti cruciali di una partita, tendevo a nascondermi. Se portavo il 7 dietro il 3, se indossavo il 9 o il 10 vicino al 5 o all’8.
Pirlo no: si fa dare palla, la protegge come pochi altri al mondo utilizzando veroniche e altre rotazioni intorno al proprio asse (che gli sono state fornite in dotazione probabilmente da Dio) quindi la passa ai compagni, inventando traiettorie che sovente destano stupore negli appassionati.
Per sua fortuna, uno dei destinatari di questi suggerimenti si chiama Ibrahimovic, il quale a sua volte eccelle non solo nel segnare, ma anche nel mandare in porta Pato con cross calibrati, o rapide furbizie partenti da innocui calci di punizione.

Allo scadere del primo tempo, mentre il telecronista ricordava che, con la doppietta appena realizzata, il ventunenne “papero” brasiliano aveva raggiunto quota 40 gol in 81 presenze di serie A, i giocatori del Chievo si auguravano che il loro allenatore desse loro una confortante spiegazione su come fosse stato possibile giocare bene e ritrovarsi sotto due a zero, senza meritarlo. Pioli li avrebbe tranquillizzati, incitandoli tuttavia ad essere più precisi davanti ad Abbiati, peraltro in grande forma, prima di decidere per il doppio cambio Fernandes-Bentivoglio Thereau-Granoche.

Cambiando una vocale, ho pensato: “ecco dov’era finito…”
E poi che Henry David Thoreau, dopo due anni trascorsi isolato nei boschi di Walden, non avrebbe potuto scegliere che il Chievo per il suo esordio nel campionato italiano. Il filosofo e scrittore americano, nato a Concord nel 1817, si è presentato con un bel tiro da fuori, un colpo di testa in mischia, diversi scatti e tagli intelligenti. Ma al Céo questo non è bastato per pareggiare e anzi, dopo l’autogol di schiena di Ibra, i mussi hanno preso pure il terzo da Robinho, fino a quel momento comparabile al collega di maggior talento ma svogliato durante la partitella aziendale Scapoli-Ammogliati del giovedì.

Al termine di Milan-Chievo, mi sono chiesto se Andrea Pirlo fosse un consumatore abituale di pirlo (vino bianco frizzante, bitter, acqua di selz). Mi sono risposto di no, dandomi addirittura una spiegazione. Pirlo non beve il pirlo, perché vive ogni giorno un sogno realizzato, direi da circa 31 anni. Il consumatore il pirlo invece, cerca sensazioni piacevoli attraverso un bicchiere o più, non solo per la bontà dell’aperitivo, ma anche per rendere reali (almeno nello stato di ebbrezza) certi sogni nascosti che ormai per abitudine preferisce dimenticare.
Poi ho pensato a Thoreau, che la prima estate a Walden non lesse e scrisse nulla, ma zappò fagioli.

venerdì 15 ottobre 2010

Italia-Serbia (Matteo, Bianciardi, e un piccolo scrittore che non riesce a lavorare in libreria)

Non mi vengano a raccontare che tutti i pomeriggi della settimana sono uguali. Per quanto mi riguarda, il martedì significa andare a giocare a calcio con Matteo, dieci anni. L’appuntamento si ripete ormai da quattro anni, così ho avuto modo di osservare i miglioramenti del ragazzo, e pure la fermezza della sua fede milanista, che non sono riuscito a scalfire neppure facendogli prendere a calci talvolta un pallone della Juventus.
“Hai visto come rotola bene? Dipende dal bianco e dal nero che, mischiandosi nella rotazione sferica, disegnano sfumature di pentagoni che, oggettivamente, emozionano più dell’abbinamento cromatico rosso e nero. Non trovi? Perché non passi alla Juve?”
Niente da fare.

Il martedì andiamo al parco a giocare a calcio, e questo mi consente di aggiungere qualcosa al mio basso stipendio di libraio, anzi no, perché libraio non sono mai stato, e libraio non riesco a diventare, nonostante lavori in una libreria, dove però faccio il magazziniere, ma non di libri. Mi sono sempre infatti occupato di musica, in passato e con soddisfazione mettendo a disposizione le mie conoscenze musicali per ordinare i dischi migliori, da 17 mesi invece confinato inspiegabilmente in magazzino dove qualche volta, mi scopro a pensare: ma la logica non dovrebbe consigliare di darmi almeno una possibilità? Vuoi vedere che questo bravo ragazzo, che non ha mai dato problemi in dieci anni di carriera, essendo anche un piccolo scrittore, magari potrebbe essere pure un bravo libraio? Forse no, meglio non rischiare. Meglio farlo stare in magazzino, a mettere i cd e i dvd nelle custodie trasparenti, in piedi per sei ore consecutive nello stesso punto, dove quel Savio osserva sul muro di fronte una piccola fotografia di Luciano Bianciardi che ha attaccato come una figurina. Sostengono alcuni che ci parli pure con questa fotografia, ma non ci sono riscontri scientifici di botta e risposta tra l’autore de “La vita agra” e il magazziniere nato a Brescia.

Uno degli aspetti più sconfortanti di Milano è la difficoltà di trovare un pezzo di prato dover poter giocare a pallone gratuitamente. Da illusi poi la speranza di avere anche porte regolamentari, provviste addirittura di reti. Quindi con Matteo si va ai giardini di Porta Venezia (dominati però dalla presenza massiccia di cacche canine, non essendoci misteriosamente un’area recintata per quadrupedi) o ai giardini di Palestro, molto più belli e puliti (vietato l’accesso ai cani) ma sovente invasi da comitive di piccoli con madri e feste di compleanno che occupano i potenziali spazi di gioco.

Due zaini come porta e via, con Matteo giochiamo in anticipo le partite del fine settimana, sfidiamo altri bambini o mezzi adulti di passaggio, calciamo cinque rigori per uno e vediamo chi vince, rimpiccioliamo la porta e cerchiamo di centrarla da distanze siderali, scommettendo anche forte:
“Se faccio gol da qui in fondo, decentrato, il Milan vince la Champions, la Juve il campionato e l’Inter va in B per le telefonate di Facchetti…”
Gol.

Martedì sono tornato a casa stremato, pronto a sedermi sul divano per assistere a Italia-Serbia, partita che prometteva bellezza. Stankovic e Krasic contro Bukowski-Cassano e il bel Pazzini. Ma quando ho notato quello scimpanzé tatuato con passamontagna a cavalcioni sulla parete di plexiglas tagliare le reti di protezione con un tronchesino arancione per lanciare meglio i fumogeni in campo, ho capito che la cosa sarebbe andata per le lunghe. Ho sperato che insieme ai poveri poliziotti, chiamati ad arginare una situazione pericolosa che poteva precipitare in tragedia, arrivasse pure il jazzista Bobo Maroni, magari per spiegare i vantaggi della Tessera del Tifoso agli ultras serbi. Poi, durante gli inni nazionali, i fischi a quello serbo e l’emozionate canto di quello italiano (che mi ha fatto venire, come sempre, la pelle d’oca) mi hanno fatto temere una dichiarazione di guerra dell’Italia alla Serbia, firmata da Ignazio La Russa. Quindi hanno provato a giocare. Un difensore serbo ha cercato di troncare la carriera a Stefano Mauri con un’entrata da killer, per fortuna senza riuscirci. L’arbitro, comprensibilmente preoccupato e confuso, è riuscito a non vedere un rigore clamoroso su Pazzini, spinto con due braccia sulla schiena mentre era già in volo per colpire di testa. All’ennesimo lancio di fumogeni e bengala in campo, l’incontro è stato sospeso. Viviano ha detto che lui nella porta sotto quei matti non ci sarebbe più andato. Ma chi si ostina ad amare il calcio per quel meraviglioso spettacolo che è, come Rivera e Donadoni ad esempio, aveva già abbandonato lo stadio da un po’.

venerdì 8 ottobre 2010

Serie A: Inter-Juventus (Milos Krasic sta a Pavel Nedved come John Barth sta a Sheherazade)

John Barth nasce il 27 maggio del 1930 a Cambridge, nel Maryland, insieme a una sorella gemella, Jill: circostanza tutt’altro che trascurabile nella carriera dello scrittore, se è vero che in più di una sua opera si fa allusione a coppie di gemelli, e che i suoi libri, a quanto sostiene, tendono per un certo periodo a susseguirsi in coppie affini…”
Inizia così la vita dello scrittore secondo il profilo bio-bibliografico che potete trovare nei libri stampati in Italia da Minimum Fax, nella collana Classics, che comprende anche Richard Yates e Bernard Malamud, ovvero due tra i miei scrittori preferiti.

Da qualche anno sono solito trascorrere le ferie estive in montagna. Tra lunghe passeggiate e gustose soste in malghe dove mi sacrifico a mangiare stupefacenti cotolette viennesi con patate al forno all’erba cipollina, o doppie uova appoggiate sopra un letto di caldo speck, trovo pure il tempo di leggere ottimi libri e tre quotidiani al giorno, uno di questi sportivo. Come ogni appassionato, apprendo di colpi di mercato imminenti o saltati, confronto le potenzialità della mia squadra con quelle delle altre e, nei momenti di regressione all’infanzia più acuti, arrivo a compilare foglietti con probabili formazioni tipo. Quando penso che sto esagerando, mi consolo ricordando che Fabrizio De André faceva lo stesso con il suo Genoa.

Milos Krasic mi veniva di metterlo sempre a centrocampo sulla sinistra con il numero 11 nelle mie formazioni, nonostante la predilezione dell’ala serba per la corsia opposta. Chiaro, seppur inconscio, il mio intento: costruire una Juve che puntasse su somiglianze estetiche decise (Krasic/Nedved) a certe forti compagini bianconere del recente passato. L’insistenza con cui Krasic pretendeva la Juve a tutti i costi tuttavia mi lasciava perplesso, specie nella fase digestiva altoatesina. Chi mi poteva assicurare che dietro questo desiderio ossessivo non si nascondessero le velleità di un buon giocatore di fronte all’occasione della vita?
Scacciavo questi turbamenti con il caffè.

Le prime giornate hanno superato le previsioni di molti sedicenti “esperti”: l’impatto di Krasic sul campionato italiano è stato di quelli che si fanno notare. Sono andato a riprendere i miei foglietti estivi e ho spostato Milos sulla destra. Ho visto il biondino sfrecciare palla al piede con difensori al seguito incapaci di raggiungerlo e mi sono detto: “Perbacco, vuoi vedere che questo è un potenziale campione e io non lo sapevo?” Ho sentito Massimo Mauro dire cose banalmente provocatorie come al solito, ad esempio che Krasic non “vedesse” la porta (appena prima che il nazionale serbo realizzasse una tripletta), e ho pensato immediatamente che la Juventus allora aveva davvero centrato un bell’acquisto.

“Non sono un esperto di letteratura o di filosofia”, dichiara in uno dei suoi saggi John Barth, “ma un semplice narratore di storie. Ovvero, un bugiardo professionista. E nel corso degli anni ho sviluppato una vera e propria ossessione per la più leggendaria di tutte le narratrici, Sheherazade, che torna come personaggio in più d’uno dei miei libri”.

Mi sono convinto che Pavel Nedved rappresenti per Milos Krasic quello che Sheherazade per John Barth. Ho pensato ad un nuovo libro dello scrittore americano, capace di raccontare meglio di me come certe somiglianze si ripetano nel tempo e perché, già che c’è, alcuni volti risultino famigliari già dalla prima volta, e certe piacevoli intese con sconosciuti scattino senza difficoltà dopo pochi minuti trascorsi a parlare.

Siamo arrivati così a Inter-Juventus. Una partita non bella, anche se ne ho viste di peggio, dove la cosa migliore è stato il comportamento dei giocatori, combattivo ma senza isterismi. Qualche maligno ha fatto notare come le contemporanee assenze di Mourinho, Materazzi e Massimo Moratti abbiano contribuito al ritorno ad una normale rivalità sportiva tra bianconeri e nerazzurri. Ma non avremo mai la controprova. Di certo c’è che l’Inter di quest’anno ha un nuovo allenatore, simpatico e dotato di maggiore sportività del portoghese, ma meno bravo (per ora) di Mourinho nello stimolare una squadra sulla carta più forte dell’avversario.
Il pallone che rotola però di carta e foglietti estivi se ne frega, quindi Inter-Juventus è terminata 0-0.

In panchina Rafa Benitez si è grattato la testa, pensando che un Kuyt gli avrebbe fatto comodo, considerando il Milito che gli è capitato. Gigi Del Neri, beccato più di una volta dalle telecamere sbirciare il libro di John Barth che nscondeva nella tasca della giacca, ha poi precisato in sala stampa che, se ognuno deve “stare” per forza a qualcos’altro, se Krasic si è messo in testa l’idea di essere il sequel di Pavel Nedved, allora a lui, da buon friulano, non dispiacerebbe raggiungere i risultati della Juve di Fabio Capello.

domenica 3 ottobre 2010

Mia moglie e Roger Federer come esperienza religiosa


I vantaggi di avere una moglie che lavora in libreria sono molteplici. Se si ama leggere, ovviamente. Se si preferisce invece che so, collezionare statuine del presepio, consiglio vivamente di chiedere la mano della proprietaria di un negozio storico del centro di Milano, famoso per la varietà di presepi, e anche per il fatto di avere sul pavimento una botola dalla quale, nel dicembre scorso, è sbucata una signora anziana che mi ha fatto quasi spaventare, sorgendo ai miei piedi, e poi alle mie ginocchia, ma qui lo spavento è rientrato, perché ho capito di cosa si trattava.
Tornando a noi, mia moglie lavora in libreria, e ogni fine settimana mi consiglia libri che potrebbero fare al caso mio. Spesso allontano queste sue indicazioni con educato diniego: “Grazie, interessante, ma sai sono già pieno di libri da leggere...”
Capita poi che, anche mesi dopo, io le dica entusiasta il titolo del bel libro che sto leggendo e lei sbuffi: “Ma certo, te ne avevo parlato!”
Secondo me però non è sempre vero.
L’altro giorno mia moglie mi ha regalato “Roger Federer come esperienza religiosa” di David Foster Wallace. E’ furba mia moglie, sa quanto amo gli scrittori che parlano di sport. Mia moglie sa anche quanto mi piacerebbe scrivere di sport su un quotidiano, ma è pure a conoscenza del fatto che non conosciamo nessuno in grado di raccomandarmi e che, per sfortuna, nessuno di noi due è figlio di un giornalista. Questo faciliterebbe molto il mio esordio sulla carta stampata. Basta sfogliare i giornali per scovare cognomi che si ripetono, dinastie di penna che talvolta cambiano testata per dare meno nell’occhio. Come figlio di materassaio avrei potuto essere un bravo materassaio, anche se non è detto perché ci vuole talento, e ogni tanto rimpiango di non aver continuato il lavoro paterno, ma giornalista no. Adesso che ho iniziato a fare qualche presentazione per il mio libro, dalla prossima diciamo, penso che chiederò ogni volta se c’è qualcuno tra gli spettatori in grado di raccomandarmi. Funziona così, ma insomma anche se morirò senza scrivere su un quotidiano me ne farò una ragione.
Gli scrittori che parlano di sport, dicevo. Nel 2006, il New York Times invia in Inghilterra un corrispondente d'eccezione, David Foster Wallace. Ne viene fuori questo saggio narrativo pubblicato in Italia da Casagrande, raffinato editore di Bellinzona, quindi svizzero come Roger Federer.
E’ un libricino maestoso, che parla della bellezza religiosa di un campione straordinario e del tennis, ma è come se parlasse del rapporto casuale o studiato che intercorre tra gli uomini e qualcos’altro, magari una divinità.
Trascrivo un brano dai, così si capisce che non dico bugie.
“L’obiettivo dei giochi di competizione non è la produzione di bellezza, ma qualsiasi sport praticato ad alto livello diventa una sede privilegiata per l’espressione della bellezza umana. Il rapporto è più o meno lo stesso che intercorre tra coraggio e guerra.
La bellezza umana di cui stiamo parlando è un tipo particolare di bellezza; potremmo definirla bellezza cinetica. L’attrazione e il fascino che esercita sono universali. Non ha niente a che vedere con il sesso e con le norme culturali. Semmai, sembra essere strettamente legata alla possibilità per un essere umano di riconciliarsi con il fatto di avere un corpo.
Ovvio, negli sport maschili nessuno parla mai della bellezza, della grazia, o del corpo.
Gli uomini possono professare il loro amore per uno sport, ma questo amore deve essere espresso e rappresentato nella simbologia della guerra: eliminazione e avanzamento, gerarchie di rango e posizione, statistiche maniacali, analisi tecniche, fervore tribale e/o nazionalistico, uniformi, frastuono collettivo, bandiere, petti percossi, facce dipinte, ecc. Per ragioni che non sono totalmente chiare, molti di noi trovano i codici della guerra più sicuri di quelli dell’amore.”

(David Foster Wallace)
Per concludere, un “Momento Federer”.