lunedì 21 maggio 2012

"Anticipi, posticipi" a "Ti racconto un libro" (Iris Mediaset)


Una sera di marzo io e Antonio Gurrado siamo tornati al calcio giocato parlando di anticipi e posticipi, calciando rigori ineccepibili e punizioni talvolta improbabili con un pallone degli anni sessanta tolto senza esitazioni dalla copertina del nostro libro. Queste immagini sono il posticipo di quella serata. 


martedì 15 maggio 2012

Il posticipo: Lazio-Inter (Un amaro con Franz Tunda, oppure Stramaccioni)


Per concludere in bellezza, avevo pensato di accettare l’invito di Tunda:
“Fatti trovare davanti alla Madeleine, il 27 agosto del 1926”.
Conquistato dalla proposta, mi ero recato con largo anticipo nella città dove il mattino era disegnato con una matita morbida. Nelle mie intenzioni, prima di stringergli la mano volevo spiare con attenzione quell’uomo giovane, vivace e forte che stava in una piazza, nel cuore della capitale della terra, superfluo a se stesso e al mondo, senza nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo.

In treno, avevo pensato a come Franz avesse qualche rotella fuori posto, a tanti anni trascorsi in un sospiro, a mio figlio, ai desideri impossibili molti dei quali avevo per fortuna realizzati, all’incapacità di goderne a pieno per qualche misterioso motivo, a come alcune grandi questioni filosofiche ed esistenziali potessero anche essere interrotte dal controllore che pretendeva con invasiva severità il biglietto.

Giunto a Parigi il 13 maggio, avevo visto sorgere il sole mentre le donne scendevano per strada avendo dimenticato la notte. Qualcuno intorno allo stadio parlava di Europa, e in campo Lazio e Inter facevano il possibile per raggiungerla dimostrando con evidenza che, come sosteneva Joseph Roth, nemmeno una crosta di pane secco si ricevesse in cambio di niente.
Così iniziava la partita e il depilato Mauri tirava una volta, l’ondeggiante Guarin due. Milito con la testa radeva il palo sfiorandolo senza sangue, poi realizzava il rigore assegnato per taglio scivolato di Ledesma ai danni della gola di Maicon. Nel secondo tempo, Kozak e Candreva facevano 2 a 1, Pazzini paleggiava, infine Mauri metteva in rete la crema dopo-barba del tris.

Al termine di tutto, la sera del 27 agosto 1926, sotto la tettoia di un baracchino lungo il fiume vendente hot-dog di dubbia qualità dove chiacchieravano sfaccendati, un uomo tranquillo mi aspettava educato, con un punto in mezzo al mento:
“Piacere, sono Andrea Stramaccioni. Mi permetta di offrirle un bicchierino dell’amaro che porta il mio nome: barman! Due Amari Stramaccioni, per favore”.
“Con ghiaccio?”
Il vento ci spingeva, e non avevamo paura di andare a fondo. In un certo qual modo, eravamo tutti Franz Tunda di noi stessi.

martedì 8 maggio 2012

Il posticipo_Cagliari-Juventus (I baci di Angiolina non valgono trenta scudetti)


Così alle tre del pomeriggio Emilio ha suonato il campanello di quando ero molto giovane e mi ha detto scendi che andiamo a Trieste, c’è un sole che non lascia dubbi.

Dopo il viaggio abbastanza lungo ci siamo fermati sul terrazzo di S. Andrea a guardare il mare calmo che diventava verticale, ma più che altro con il Brentani aspettavamo che la luna grande facesse il suo corso diventando gigante, come avevano detto i giornali, curiosi entrambi di verificare se questo periodico seppur raro avvenimento avrebbe portato con sé i più improponibili disastri.

Nell’attesa, Emilio mi ricordava la sua vita fino ad allora: 35 primavere, autore qualche anno prima di un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina però ingiallito nei magazzini dei librai e utile solo a trasformarlo in un letterato rispettato nel piccolo bilancio artistico della città, al momento innamorato di tale Angiolina, bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, snella e flessuosa, con il volto illuminato dalla vita, a sentir lui.

Nella difficile condizione del confidente che sapeva quello che Trieste urlava di tale donnina (una zoccoletta, che se la faceva un po’ con tutti, che appendeva alle pareti della camera le fotografie dei suoi svariati uomini) ma che non trovava il modo meno indolore per comunicarlo all’amico caro, arrivavo almeno a convincere Emilio a rimandare di qualche ora l’appuntamento con la bionda, il tempo necessario per assistere a Cagliari-Juventus.

Trovata un’osmizza aperta, litigavamo con l’oste pancione che ci negava un bicchiere di vino tre ore e 5 minuti prima dell’inizio della partita, quando la Polizia municipale di Trieste aveva emesso un’ordinanza che vietava la vendita di bevande alcoliche ma da tre ore prima, e intorno negli altri tavoli tutti andavano per frasche.*
“La campanella è già suonata” dichiarava paonazzo il ciccione, ed eravamo costretti ad una nevrotica resa bagnata di coca-cola.

Dentro lo stadio di confine rosso e bellissimo, Vucinic sentiva aria di casa e sbloccava il risultato già al sesto minuto bucando le gambe di Agazzi su intuizione del regista difensivo Bonucci. Ma i cagliaritani giocava la partita della vita, secondo un maligno vicino di seggiolino correndo e menando come fabbri-pastori giunti dopo anni di pecore e Cannonau alla meritata Finale di Champions. Probabilmente incentivati da chissà quale telefono stavolta non controllato, si sostituivano addirittura ai raccattapalle per recuperare più velocemente i palloni usciti di campo. Vicino alla riga, Lichsteiner dopo tre duri colpi finiva al tappeto per K.O. ed usciva in barella. L’arbitro orso ammoniva a caso, Pirlo colpiva un palo su calcio d’angolo.

Al risveglio post-intervallo, i boati dei supporters del Cagliari segnalavano con rumore il vantaggio del Milan grazie a Ibrahimovic che dopo un rigore inventato faceva 2-1 con una prodezza. Le gambe degli juventini cominciavano a tremare, fino a quando il neo-entrato Borriello provocava l’autogol, di ottima fattura, dello sventurato Canini: Cagliari 0, Juventus 2. Al triplice fischio di un sei maggio, la Juventus era campione d'Italia per la trentesima volta e Conte dei miracoli gridava al vento il suo capolavoro di bellezza e imbattibilità.

I tifosi invadevano il prato, imbarazzando poliziotti in apparenza capitati lì per coincidenza, ed erano i capi-ultras bianconeri a garantire le condizioni di ordine pubblico necessarie per consentire il ritorno in campo di alcuni giocatori juventini per festeggiare: tutto normale, in un Paese sub-normale.

Entusiasti di cotanta anarchia, con Emilio ci lasciavamo trascinare dallo stupore per uno Scudetto storico e scavalcavamo pure noi, riuscendo peraltro con successo ad estirpare con la forza dal pavimento verde il busto in bronzo di Aron Hector Schimtz, in arte Italo Svevo. Uno scrittore della domenica, che in settimana vendeva vernici sottomarine. Ce lo saremmo portati a casa come ricordo.

Fuori, in una città meravigliosa, adesso tutte le osmize ci accoglievano a braccia aperte. Emilio ed io ipnotizzati dalla marea pensavamo alla fortuna di essere vivi, e dilettanti. In lontananza, Angiolina passeggiava a braccetto con un noto ombrellaio-antennista calvo in cravatta gialla, conosciuto a Trieste per la curiosa perversione di conservare nel taschino della giacca fotografie non dei suoi cari ma di goal annullati o lampioni spenti sul più bello.

E allora ho visto Emilio Brentani chinarsi per cercare un sasso, senza trovarlo. L’ho visto accontentarsi di pietruzze, da raccogliere e scagliare dietro a quei due. Infine ho guardato il vento portarle e qualcuna deve aver colpito la coppia perché Angiolina si è messa a piangere, gridando di spavento.


*A Trieste la frase “andar per frasche” significa andare a bere il vino nelle osmize

mercoledì 2 maggio 2012

Aujourd'hui


C’est une histoire de bicyclette rouge posée contre un mur, de père défunt, de famille soudée, d’enfant véloce et futé, c’est l’histoire de Nicola. Marié à Leonilde, Guerrino le père, dont la voix revient hanter le texte, ouvre le récit par sa mort, une mort que l’enfant reçoit comme un gros paquet dur à porter. Devenu "le roi pauvre du quartier", le sempiternel fils du mort doit subir la pesante bienveillance des voisins, endurer les coupes de cheveux aberrantes qu’il masque avec un bonnet Ferrari, recevoir en présent le saucisson d’âne du boucher Luciano, les sorbets à l’œil du glacier Bedont, d’autres encore. Mais ce gavage affectif ne peut rien contre la… biligorgne. Tristesse douceâtre qui vient se lover dans le cœur de l’enfant quand il trie les photos de famille, celles surtout où il est avec son père : "Pourquoi les gens morts restaient-ils coincés dans les photos? (...) Il fallait des ciseaux pour découper les gens morts des photos." Pour y échapper, il y a, certes, les boucles blondes d’Andrea, la poussière soulevée par les trains, des envies de trompettes débouchées, mais il y a avant tout le rêve d’une vie balle au pied, d’un destin platinique qu’émaillent plaies et bosses. Mais le ballon rentrera au garage, les rêves à l’étui et l’enfant Nicola deviendra calmement ce que fut son père : matelassier, fabricant de ces matelas sur lesquels meurent les pères et dorment les enfants. C’est une histoire de Fiat 127, de fugue en train, de blessure en cours de match, c’est l’histoire de Nicola et de ses souvenirs du temps où "son père était très beau".


(le dilettante, 2012. Traducteur : Hélène Sauvage.)