mercoledì 15 dicembre 2010

Carlo D'Amicis su Mio padre era bellissimo

Pubbico la recensione di Carlo D'Amicis su "Mio padre era bellissimo" tratta da l'immaginazione (novembre 2010).
Carlo D’Amicis su
FRANCESCO SAVIO, Mio padre era bellissimo
Italic Pequod 2009
Una solida corrente di pensiero vorrebbe la
generazione dei nati tra l’inizio degli anni Sessanta
e la fine degli anni Settanta come una collettività
disgregata e individualista: la prima a
crescere priva di quelle esperienze comuni che
furono, nel nostro Novecento, le due guerre, il
regime, l’antifascismo, i movimenti giovanili.
In realtà, nel leggere molti recenti romanzi,
questa tesi appare rivedibile. C’è oggi una cordata
di narratori fin troppo incline al reciproco rispecchiamento,
connotata da un background
certo meno ideologico rispetto alle generazioni
precedenti, ma non per questo più evanescente.
Nessun credo politico, o culturale è servito a cementare
una generazione più del ventennio
compreso tra il boom economico e gli anni di
piombo: spesso cresciuta davanti alla tv, in ambiti
familiari molto più ristretti e spesso sradicati,
oppressa da un senso di isolamento e di marginalità,
quella generazione che si voleva disunita
e frammentata oggi si riconosce compatta, e
quasi stupita, nelle tante narrazioni che ne descrivono
un forte, seppure involontario e inconsapevole,
tratto identitario.
Accade così che, nell’attingere al proprio vissuto,
i narratori che appartengono a questa vasta
nidiata di soli ed uguali si ritrovino costantemente
di fronte a un’insidia: quella cioè di scivolare
nel mainstream, in un flusso dove l’elemento
del riconoscimento, o addirittura dell’epica generazionale,
prevale su quello della ricerca personale.
Di fronte a questa insidia il quasi esordiente
Francesco Savio (già autore di un racconto nell’antologia
che Manni ha dedicato, nel 2008, a
Bob Dylan) sceglie una strategia umile e sfrontata
al tempo stesso: semplicemente non se ne
cura, misurandosi con i tanti topoi del romanzo
(primo tra tutti, quello della linea d’ombra, qui
anticipata ai 9 anni, l’età in cui il protagonista del
romanzo perde il padre) come se il suo piccolo
Nicola fosse, in un certo senso, il primo bambino
del mondo ad avvicinarli. Con il risultato che
il romanzo si rivela fragile nella sua presunta forza
(il volere attingere al vasto repertorio dei moderni
riti di passaggio: lo sport, gli straniamenti
linguistici, la bambina-principessa “dai capelli
biondi e dagli occhi profondi come oceani”) ma
forte della sua fragilità: il candore un po’ spericolato
con cui l’autore si incammina in un solco già
largamente battuto, infatti, diventa la stessa innocenza
del protagonista di fronte a un evento
troppo grande, come la morte del proprio genitore,
e al quale non sa cos’altro opporre se non la
sua profonda, estrema, dolente sensibilità.
C’è insomma, in Mio padre era bellissimo, un
che di ingenuo che Savio riesce a indirizzare
(inequivocabile segno di talento) verso una freschezza
e una trasparenza che, alla fine, seducono
anche il lettore più avvertito: quello che,
leggendo delle fughe in bicicletta di Nicola, è
portato a rivedere, in formato ridotto, l’Alex di
Jack Frusciante; che, imbattendosi nel racconto
della tragedia dell’Hysel, è costretto al confronto
con la potente valenza simbolica che, dallo stesso
fatto di cronaca, scaturisce nell’ultimo romanzo
di Lagioia; che, nella poetica del dettaglio come
“sineddoche della complessità”, a cui spesso
Savio si affida per rappresentare la sensibilità
infantile, rivede l’acume minimale di Francesco
Piccolo.
Quello di “Mio padre era bellissimo”, insomma,
è un sentiero battuto. Savio però lo percorre
con un passo rapido e lieve che lo rende seducente
compagno di viaggio. La sua generazione,
credendo di piangere soltanto un proprio
genitore, si è scoperta a celebrare il definitivo
lutto dei padri; credendo di poltrire davanti alla tv
si è scoperta ad officiare un rito collettivo; credendo
di essere totalmente de-responsabilizzata,
disincanta, disimpegnata, si è scoperta sulle
spalle il peso del crollo morale e civile di un Paese.
Anche per lui la sfida è dunque quella della
complessità: affondare nella propria formazione
per connetterla allo spirito dei tempi, scavare nel
privato per raccontare storie pubbliche, educare
la propria memoria alla profezia del futuro.