mercoledì 25 novembre 2009

Le regole del perfetto stenditore


La prima regola dello stenditore è controllare che le bacchette o i fili dove si stendono i panni siano libere. Almeno quattro bacchette, i fili dipende dalla lunghezza. Solo dopo si può procedere e fare una lavatrice.
La seconda regola dello stenditore (qui ancora lavatore) è dividere i capi in chiari e scuri, e a seconda della quantità o del bisogno scegliere quale colore lavare per primo. In commercio esistono fogli cosiddetti “acchiappa colore” ma francamente non mi convincono, anche se funzionano. Lo trovo un aiuto superfluo, un bravo lavatore-stenditore deve esserlo senza favori.
La terza regola è non riempire troppo il cestello. Se la capienza è di 5 Kg, non vanno inseriti 5 Kg, magari spingendo con la forza lo sportello per farceli stare (questo è considerato “grave errore” e personalmente lo trovo anche di cattivo gusto). Se il cestello è troppo pieno, i vestiti o le salviette si soffocano a vicenda, pregiudicando la buona riuscita del lavaggio, o almeno il buon profumo di pulito. A tal proposito scegliete con accortezza detersivo e ammorbidente.
La quarta regola, è organizzare la propria esistenza in modo da essere in casa quando la lavatrice termina il programma. Ok questo non è sempre possibile, ma facciamo in modo che il più delle volte sia possibile. Dopo i risciacqui finali e i pochi minuti in cui lo sportello resta bloccato per ragioni di sicurezza, è preferibile essere pronti a estrarre il bucato, immediatamente. Un piccolo sacrificio, ma ne gioverà il risultato finale.
La quinta regola dello stenditore (che tale comincia ad essere da questo preciso momento) è non posizionare i panni a caso sulle bacchette o sui fili (secondo “grave errore”). Piccolo consiglio per chi non ama stirare: le camicie e le Lacoste, se messe con cura sugli omini meglio non di legno (ma dipende dal legno), con i bottoni allacciati, possono poi non essere stirate. Vengono bene, presentabili, e considerato che tovaglie, lenzuola, salviette ed eventuali fazzoletti di stoffa non si stirano (se qualcuno lo fa cominci seriamente a preoccuparsi della propria salute psichica) io direi che l’asse da stiro e il ferro potete pure lanciarli dalla finestra, senza guardare ovviamente, nella speranza di colpire dal quarto piano un politico a caso che passeggia sornione sul marciapiede, della maggioranza o dell’opposizione fa lo stesso, tanto è uguale. Guadagnerete pure spazio in casa.
Sesta regola: non sovrapponete i capi, per carità. Si asciugano male, c’impiegano di più, davvero non ne vale la pena. Vi sembrerà di aver steso più cose, ma è l’illusione di un momento. Il ritardo umido di alcuni vestiti v’impedirà di effettuare una nuova lavatrice. Dove stendereste altri panni? Se usate mollette per non far volare via i vestiti (mossa astuta se si stende all’aperto) non piantatele in centro alle magliette, resterà il segno.
Settima e ultima regola (per sposati o conviventi): mettete subito in chiaro chi porta i pantaloni in casa, ovvero chi si occuperà di fare le lavatrici. Sembra una sciocchezza, ma ne va della vostra serenità di coppia.

domenica 22 novembre 2009

La donna che amava i parcheggi (La donna che parcheggiava due volte)


Era perché in un parcheggio aveva fatto per la prima volta l’amore. Era capitato così, in modo forse poco romantico e raffinato per una ragazza della Milano bene, ma quando si è innamorati, certe cose possono accadere. Gli anni trascorsi avevano fatto dimenticare alla donna se le strisce tra le macchine erano blu, gialle oppure bianche, ma il dolce e rabbioso ricordo di quella sera, quello no, non l’aveva scordato. Per questo, a differenza della maggioranza delle persone, ogni parcheggio faceva ridestare in lei un sentimento d’amore forse idealizzato, ma senza dubbio vero, palpabile, uno dei rari appigli ai quali potersi sorreggere nella difficile esistenza di donna in carriera. Ma questo suo segreto amore per i parcheggi non l’aveva mai rivelato a nessuno.
Una volta sindaco, in buona fede, aveva deciso di riempire Milano di parcheggi, in superficie o sotterranei, convinta che il sentimento di gioia forse solo un po’ melanconico che l’accompagnava alla vista di un cartello con una P bianca su sfondo blu, fosse lo stesso che provava ogni cittadino.
E allora ok al parcheggio cratere davanti al Teatro Nazionale, ok a quello in via Buonarroti (a cinquecento metri di distanza dal precedente) ricavato genialmente al posto delle uniche due aiuole triangolari di verde presenti nella cementificata piazza, già monumento olfattivo perenne al profumo di smog. Il tutto sotto lo sguardo perplesso della statua di Verdi il quale, nei rari momenti in cui smetteva di chiedersi perché fosse finito in Piazza Buonarroti, volgendo appena lo sguardo alla propria sinistra, poteva scorgere solo una via più in là il grande parcheggio di Pagano.
Ma soprattutto la splendida basilica Sant’Ambrogio. Chi avrebbe mai potuto pensare di scavare anche lì, a pochi metri dalla chiesa, un bel parcheggio sotterraneo? Magari per unire l’amore automobilistico e carnale della giovinezza a quello più spirituale garantito dalla presenza di una chiesa.
Lei ci avrebbe pensato. La donna che amava i parcheggi, in nome dell’amore.

domenica 15 novembre 2009

Le telefonate della mia vicina di casa durante il D-Day


Le telefonate della mia vicina di casa arrivano ogni sera puntuali, diciamo verso le diciotto. Le principali trovano all’altro capo del filo sua madre. Il rapporto non è dei migliori. La figlia mi pare chiami solo per una sorta di senso di colpa. Ne farebbe volentieri a meno. Oppure è la madre che telefona, qui dall’altra parte della parete non è sempre chiaro chi squilli o faccia squillare. Un problema da risolvere. In ogni caso, la mia vicina di casa esegue sempre lo stesso tipo di telefonata. Inizio pacato, prime alterazioni vocali, aumento delle medesime sempre meno controllato, esplosione finale di grida furibonde, dettate in parte dalla sordità della madre presumo, in parte da uno squilibrio emotivo della mia vicina di casa, che a mio avviso assume qualche dose di psicofarmaci.
Così capita che mentre sto leggendo, mentre sto guardano uno degli ipnotici programmi di Rai Storia (quel canale quando vuole mi tiene imprigionato) la mia quiete sia invasa da urla prive di connessione logica, almeno per me che ho questa maledetta parete troppo sottile a farmi da argine. E allora mentre gli Alleati stanno sbarcando con epico coraggio in Normandia, dall’appartamento oltre il mio confine giungono grida come: “Il prosciuttooo! Mamma prova col prosciuttoo alloraa!” oppure, solo pochi secondi dopo: “Il neurologooo! Il neurologooo!”.
Mah, mi distraggo e penso esistano neurologi che vendono salumi.
Ma il disperato destino di quei ragazzi sulle spiagge del D-Day, alla fine mi commuove. Quelli delle prime file: folli, ubriachi, pieni di paura e vomitanti, costretti a morire da eroi, pensando solamente alle loro madri, alle loro fidanzate. Vallo a spiegare alla mia vicina.

martedì 10 novembre 2009

domenica 8 novembre 2009

Elogio della parrucchiera per donne (lettura consigliata di più agli uomini)


Ora io non so se ci siano uomini che vanno ancora dal barbiere, ma temo di sì. L’ho fatto anche io, per anni, ma poi ho cambiato decisamente strategia. Da tempo ormai vado solo dalla parrucchiera. Una parrucchiera per donne in particolare, che per fortuna accetta anche uomini, in provincia di Brescia, ma non fatemi dire di più, non vorrei trovare il negozio troppo pieno.
Quindi, cari uomini, datevi una svegliata. E non me ne voglia l’associazione barbieri italiani.

Ma insomma, uno entra dal parrucchiere per donna (e non scoraggiatevi se alcuni esercizi vi respingeranno, non possono! E comunque l’integralismo dei saloni di bellezza non è quello dei talebani), uno entra dicevo, e si trova immerso in un tepore profumato di shampoo, balsamo e donne. Già, perché ci sono quasi esclusivamente donne ad abitare questi luoghi rilassanti, dove si decide di darci un taglio. Più qualche uomo che ha raggiunto l’illuminazione.
Ecco, io entro e sono tutte donne, il che già è meraviglioso, specie per me che sto meglio con le donne, che sono cresciuto con due donne, che amo lavorare con le donne. Anche adesso, perfino nel mio lavoro di magazziniere, ho la fortuna di lavorare con quattro donne.
Una volta tolto il giubbotto di pelle vengo accompagnato ai lavandini per il momento più bello, il lavaggio dei capelli. Unica sofferenza, il collo. Dopo un po’ stare con la testa all’indietro mi fa male. Ho la sensazione che il collo possa spezzarsi e far rotolare i miei capelli con il cranio dietro nel lavabo. Ma è l’orribile pensiero di un attimo. Se l’acqua è ben miscelata, calda ma non troppo, farsi lavare i capelli da una donna è una delle cose più belle della vita. Se la donna in questione non è nervosa certo, magari perché il fidanzato la trascura o l’ha fatta arrabbiare, altrimenti potrebbe mettersi a sfregare il cuoio capelluto con troppa energia, trasformando le sue dita sottili in quelle pesanti e callose di un uomo. Ma non è questo il caso della mia parrucchiera, dove le ragazze hanno il tocco delicato. Acqua, shampoo, massaggio rotatorio, acqua, shampoo, risciacquo. Il collo adesso si spezza, me lo sento, ma resisto eroicamente, da vero uomo. La spintarella che la shampista offre alla mia nuca mi consente di tornare con la testa dritta con discreta eleganza.
Io sarei già a posto così, soddisfatto e sereno, ma uscire all’aperto in novembre coi capelli bagnati sarebbe davvero da stupidi. Quindi me li taglio pure, una regolata (dai 2 ai 4 cm, sempre meglio precisare) ascoltando le chiacchiere femminili delle signore che fanno il “colore” o altre cose sconosciute, effettuate con arnesi elettrici o rotoli di stagnola.
Anche l’asciugatura con il phon non è male, perché proustianamente mi riporta al lavaggio tiepido di qualche minuto prima, ma la vivo già con un po’ di malinconia, consapevole del suo essere inizio del mio crepuscolo in questa oasi senza tempo di donne e pace. Poi pago e le ragazze dello staff mi salutano, interrompendo ciò che sta facendo, con gli asciugacapelli che per un attimo sparano in aria calore soffiato. Ciao. Ciao ragazze, a presto, che freddo che fa fuori.

lunedì 2 novembre 2009

Alda Merini è morta il giorno prima di Pier Paolo Pasolini







Espiando con Keyra Knightley


Mi sono innamorato di Keyra Knightley mentre lei recitava “Espiazione”. Io stavo seduto sulla poltrona Poang di casa mia, e la sua magrezza mi convinceva, in particolar modo mentre si tuffava nella fontana del giardino della sua villa, ora non ricordo più il perché. Ne usciva con il vestito bagnato attaccato al corpo.
Il film andava avanti e il nostro amore si consolidava, tra reciproci sguardi pieni di passione. Poi lei faceva l’amore con un altro in biblioteca, appoggiata con la schiena a libri felici di incontrare con il loro profilo le sue scapole. Ma io mi dicevo che tanto era solamente un film. Se la donna che amavo faceva l’attrice, qualche corna cinematografica avrei pure dovuto metterla in conto.
L’uomo della biblioteca più avanti partiva per la guerra, peggio per lui. Ora Keyra non avrebbe più avuto grilli per la testa, mi auguravo, e i suoi occhi da cerbiatto, ancorché affetti da lieve strabismo, avrebbero avuto tempo solo per me. Avevo diverse tessere, l’avrei portata in una biblioteca quando voleva.
Ma poi ho iniziato a sentire un odore cattivo. Veniva dalla bocca di Keyra. Ho cominciato a muovermi nervoso sulla mia Poang. Possibile che provenisse proprio da lei? Mah. Questa idea poco profumata prendeva il sopravvento, la mia amata Keyra aveva problemi di alitosi. Incredibile a pensarci, ma ormai non avevo più dubbi. Così ho tirato un sospiro di sollievo, quando il soldato innamorato è tornato dalla guerra.