domenica 31 gennaio 2010

Caro Sandrino (pezzo probabilmente per juventini, ma anche no)

Caro Sandrino,
non so quando mi sono sorpreso a chiamarti così. Probabilmente dalla serie B. In quei sabato pomeriggio ricordo un tuo urlo dopo un gol, uscito fuori attraverso i quadrati bianchi della rete, con Trezeguet che sorrideva e ti guardava. Era la fine del 2006, e da campione del mondo avevi ricominciato a giocare quasi sempre con il sole e con il chiaro, lasciando le partite sotto le luci dei riflettori a chi si vantava ignobilmente di essere l’unico onesto, l’unico puro, l’uomo che non aveva rubato, mai.
Tu giocavi e segnavi (una ventina di gol, tanto per confortare chi periodicamente ti dava per finito) e io, davanti alla Tv, mi scoprivo a incitarti: “Vai Sandrino! Vai Sandrino!” come non mi era capitato prima. Sempre Ale ti avevo chiamato, e raramente Alex, perché mi piaceva poco quella X finale.
Ti eri trasformato in Sandrino, e mi facevi venire in mente Mazzola, esponente luminoso di un altro calcio, di un’altra Inter, meno isterica e più educata, non rappresentata insomma dai Materazzi e dai Mourinho Balotelli di oggi.
Così, quando stamattina ho comprato anche Tuttosport per rilassarmi un po’ in questa magnifica domenica milanese senza automobili e ho visto la tua fotografia in allenamento, con il pallone giallo tra le mani e quel sorriso di chi gioca a calcio perché è nato per fare quello, ho pensato: ma chi diavolo ce l’ha un capitano bello così? Nessuno, nessuno ha un capitano bello come te. E addirittura, cosa conta vincere oppure no, se hai un capitano così?
Rivera, Platini, Baggio, Del Piero. Questo è il mio calcio, offerto in sacrificio per voi, strepitanti ultras domenicali, nelle curve e nelle tribune d’onore.

venerdì 29 gennaio 2010

Una pietra preziosa

Tra le frequenti porcherie che ogni venerdì escono nei negozi di dischi, oggi, finalmente, una pietra preziosa. A trent’anni dalla morte del cantautore livornese la Sony pubblica “piero ciampi le canzoni e le sue storie”. Un cd con 18 canzoni, ma soprattutto il dvd “Adius, Piero Ciampi ed altre storie” di Ezio Alovisi, presentato alla Biennale di Venezia 2008. Un rara occasione per vedere Piero in movimento, circondato dalla sua musica e dalle sue parole.

giovedì 28 gennaio 2010

Un uomo solo

"E da qualche parte, in mezzo alla schiavitù del dover essere, il folle poter essere sussurra loro di vivere, conoscere, sperimentare - cosa? Meraviglie! Un stagione all'inferno, Viaggio al termine della notte, I sette pilastri della saggezza, La chiara luce del vuoto...Qualcuno di loro ce la farà? Oh, certo. Almeno uno. Due o tre al massimo - tra le migliaia che tentano."

(Christopher Isherwood, Un uomo solo, 1964)

sabato 23 gennaio 2010

Cantando sotto la doccia ho già vinto numerose volte Sanremo

La prima volta è stata con “Vedrai, vedrai” di Luigi Tenco. Suonavo il pianoforte circondato da ragazze che mi guardavano in modo strano, quasi come se fossi un animale allo zoo. Eppure io cantavo una canzone intima per mia madre.
Successivamente mi sono imposto con “Tu no” di Piero Ciampi, la pioggia mi picchiava in testa, ma io restavo con le braccia conserte, forse per difendermi dal pubblico.
Quindi ho trionfato con “L’animale” di Franco Battiato, indossavo gli occhiali da sole perché le luci mi hanno sempre dato fastidio.
Infine, ma solo perché non volevo consumare troppa acqua, ho raggiunto il gradino più alto del podio con “Sempre e per sempre”, di Francesco De Gregori. Poi mi sono messo l’accappatoio.

mercoledì 20 gennaio 2010

"Mio padre era bellissimo" favorito a Fahrenheit

Apprendo con stupore che "Mio padre era bellissimo" è tra i 3 libri "favoriti" di Fahrenheit per il mese di Gennaio. Non sto mentendo, guardate sul sito http://www.radio.rai.it/RADIO3/fahrenheit/ (in basso a destra).
Gli altri due sono, ehm, Andrea Camilleri e Norman Mailer.

Chi volesse farsi due risate ascoltando la mia intervista del 6 gennaio, non deve fare altro che cliccare qui sotto.

http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=308481

Juventus Club Travagliato

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
Avrei tanti motivi per essere grato a mia madre, ma in questo momento me ne viene in mente uno di natura spaziale. Dopo sei giorni di lavoro per un totale di 44 ore settimanali circa, Leonilde metteva la sveglia alle 7 anche la domenica mattina per accompagnarmi in automobile a Travagliato. Nella piazza principale di questo paese sorgeva il Club Juventus che mi avrebbe permesso di seguire la mia squadra del cuore per un anno intero. Stagione 1991/92. Allenatore Giovanni Trapattoni. Prima non avevo mai osato, ma a diciassette anni mi pareva di essere giunto al momento giusto per chiedere a mia madre l’autorizzazione che, dopo qualche dubbio di natura apprensiva ed economica, mi era stata accordata, con l’obbligatoria contropartita di andare bene a scuola. Ultimi disperati tentativi di farmi cambiare idea:
“Ma perché invece non ti fai un bell’abbonamento al Brescia?”
“Ma perché mamma, il Brescia lo vedo da quando ho sei anni, e in tutto questo tempo solo per una volta è stato in serie A. Meglio di niente certo, ma vuoi mettere guardare Roberto Baggio una domenica sì e una no?”
“Ma sì, però anche Giunta e Ganz sono una bella coppia…” (si era documentata Leonilde)
“D’accordo, ma nella Juve c’è anche Di Canio, sai che mi piace…”
“E va bene Nicola, ma prometti di…”

Per due domeniche al mese Leonilde puntava la sveglia e mi lasciava nella piazza a Travagliato, in inverno ancora divorata dal buio. Eravamo solitamente in una decina, fatta eccezione per le partite più importanti in occasione delle quali il Club noleggiava un autobus da sessanta posti. Un’ora per arrivare a Milano, altre due scarse per ritrovarci fuori dal nuovo Stadio delle Alpi. Dentro stavamo al primo anello, e i cartelloni pubblicitari impedivano la visuale della parte bassa della porta, per cui, specie sui calci di rigore o in generale sui tiri rasoterra, diciamo che c’era un certa incertezza. Parato? Palo? No, gol. Se tutti gli altri erano esplosi c’era sicuramente un motivo.
Il mio primo idolo era Roberto Baggio, ma il secondo era Paolo di Canio, che ammiravo incondizionatamente per la sua indisciplina tattica che mandava invece su tutte le furie Giovanni Trapattoni. Con l’amico Omar aspettavamo ansiosi l’annuncio delle formazioni per sapere se Paolo faceva parte degli undici. Ma dopo il consueto precampionato da titolare fisso con la maglia numero 7 sulle spalle in una formazione che oltre all’ala romana comprendeva di solito due punte e una mezza punta, con il passare delle giornate Di Canio poi tendeva progressivamente ad accomodarsi in panchina, sostituito nello scacchiere tattico del Trap dal più razionale Galia. Imprecavamo per la scelta poco coraggiosa del Mister, ma il Giuàn ne sapeva più di noi. Solo verso il sessantesimo, se la partita non si era ancora sbloccata, Trapattoni mandava a scaldarsi l’ex laziale che iniziava a fare avanti e indietro in tuta vicino alla riga del fallo laterale, consapevole che la faccenda sarebbe durata per un bel po’. Lo 0-0 resisteva, ma il Trap aspettava il più possibile prima di giocarsi l’ultima carta. Poi, di solito a quindici minuti dalla fine, lo buttava dentro dopo averlo catechizzato per diversi secondi. Anche da lontano si capiva quello che diceva:
“Paolo, so che hai il dribbling. Salta l’uomo, e poi mettila in mezzo per la testa di Casiraghi. Punta l’uomo, saltalo, ne sei capace, ma poi crossa per Casiraghi. Ok?”

Il boato dei tifosi, unito a qualche inopportuno fischio al magro Galia, faceva da colonna sonora all’entrata in campo dell’idolo della curva. Il pubblico spingeva la Juventus a cercarlo e la palla rotolava fino al numero 7, largo sulla destra. Di Canio su di giri dribblava il primo avversario, talvolta pure il secondo, ma poi, quando avrebbe avuto lo spazio per crossare faceva invece un’altra finta, e poi un’altra ancora. Arrivava il raddoppio, e Paolo si trovava chiuso vicino alla bandierina del calcio d’angolo. Passarla? Mai. Il suo testardo talento non avrebbe ceduto così in fretta, e il Trap così avrebbe imparato a farlo giocare solo un quarto d’ora. Attraversare i corpi dei difensori non era possibile, ma un altro modo ci doveva pur essere prima di abdicare in favore di un banale tocco all’indietro…

Il ritorno in autostrada era meno gioioso dell’andata. Incombevano i pensieri, la scuola. Eppure, indipendentemente dal risultato, sul pulmino con Omar non smettevamo di ridere per le prodezze di Zani (da tutti chiamato Zsani) che ogni volta ci sorprendeva con qualche invenzione. Come quando, tra lo stupore generale, si era portato una mozzarella come pranzo al sacco. Dopo averla aperta lacerando la plastica con i denti, aveva chiesto all’autista di rallentare. Stava poco bene? No, voleva disperdere l’acquosa placenta della bufala dal finestrino, per poi cibarsi del latticino a morsi. O come quando, per la prima volta a diciotto anni d’età, aveva fatto la schedina, azzeccando un dodici. Ma gli altri del pulmino non ci credevano, e volevano controllare di persona. Atalanta-Fiorentina 1. Bari-Lazio 2. Cremonese-Foggia 2. Aveva vinto davvero Zsani, ma…

“Ma Zsani! Ta ghe scriit el nom de drè? I te maia fo tot co le tasse! Ta se ruinat! El nom de drè el va mai scriit! La va a finì che i te maia fò la baita…”
(Ma come Zani, hai scritto il nome dietro? Ti mangiano fuori tutto con le tasse! Sei rovinato! Il nome dietro non va mai scritto! Va a finire che ti mangiano fuori la casa!)

Prima uno, poi cinque, poi tutti i passeggeri avevano cominciato a stringere alle corde il povero Zsani, che alla fine aveva ceduto. Per 120 mila lire valeva la pena essere massacrati dalle tasse, rischiare che lo Stato con il suo inesorabile braccio fiscale ti portasse via l’appartamento e magari, pure la famiglia? No, non ne valeva la pena. E il foglietto rettangolare del Totocalcio, appallottolato, era volato anch’esso fuori dal finestrino, seguendo la scia bagnata della mozzarella.

sabato 16 gennaio 2010

Due volte

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
Incontrò se stesso due volte nel compiere il tragitto che lo separava dal centro del campo al dischetto, dove gli sarebbe capitato di calciare il rigore decisivo per l’assegnazione del mondiale sudafricano. Incontrò se stesso la prima volta dopo pochi passi, sudato e già con gli occhi grandi che sognavano di diventare come Gary Lineker, ed era un sogno strano per un bambino di Volta Redonda, città dello Stato di Rio de Janeiro. E poi di nuovo appena prima di prendere la rincorsa definitiva.
Pensò a quante cose gli erano successe nell’ultima stagione, dal passaggio ad una grande squadra di club, all’inizio di stagione confortante, al crollo psicologico che l’aveva portato a commettere errori clamorosi a ripetizione, i più frequenti dei quali consistevano nel tentare di saltare l’avversario di turno al limite della propria area (magari affrontandolo con il pallone sotto la suola), nell’effettuare passaggi surreali che finivano per lanciare micidiali contropiedi della squadra nemica, nel rendersi protagonista di interventi fallosi che avevano più di una cosa da spartire con dei colpi di Vale Tudo, l’arte marziale brasiliana che aveva praticato con successo da giovane.
Ma ora si trattava solamente di colpire bene la palla, e di scegliere l’angolo giusto. Poi ci sarebbe stata la fila per chiedergli scusa. Allora asciugò il pallone nella sua maglietta oro e verde, lo sistemò con cura sul piccolo cerchio bianco scolorito. Non guardò negli occhi il portiere che per tutto il campionato era stato suo compagno di squadra, prese una breve rincorsa come gli avevano insegnato da ragazzo nel Flamengo, e calciò.

mercoledì 13 gennaio 2010

Per i non lombardi, la recensione di Repubblica Milano

Per coloro cioè che domenica mattina alle ore 6:30, convinti di essere in Lombardia, si sono recati ansiosi dal proprio edicolante di fiducia per acquistare La Repubblica e leggere la recensione di "Mio padre era bellissimo" scritta da Annarita Briganti, ma che, non essendo in Lombardia, non l'hanno trovata, eccola qui sotto, preceduta da una breve introduzione nella quale l'autrice rivela così, come se niente fosse, di aver conosciuto Michel Platini. Tremo pensando che Michel abbia svelato a lei, e non a me, il segreto per calciare le punizioni aggirando la barriera.


Repubblica Milano / Francesco Savio

Ieri su Repubblica Milano abbiamo raccontato l’intensa, e delicata, autobiografia romanzata di Francesco Savio. Dietro le quinte: quando ero giovanissima, e mi trattavano da maschio portandomi allo stadio e a volte negli spogliatoi (detesto il calcio), ho conosciuto Michel Platini e ne ho un ricordo stupendo. Il blog dell’autore è http://francescosavio.blogspot.com/ Buona lettura!


Francesco Savio Mio padre era bellissimo (Italic Pequod)


“Se c’era una cosa che davvero non sopportavo, una cosa che mi trafiggeva, era l’essere sgridato ad alta voce. Implorando Leonilde e Guerrino e promettendogli di essere sempre bravo, ero quasi riuscito a convincerli a non urlare, salvo inevitabili eccezioni.” È il 1984, quartiere del Carmine, centro storico-popolare di Brescia. Nicola, nove anni, vive con la mamma Leonilde, il padre Guerrino e la sorella Camilla. Ogni tanto Nicola fa arrabbiare i genitori: non mette a posto la carta igienica dopo averla usata, rompe le boccette di profumo di Camilla giocando a pallone in casa, cose così. Un giorno Guerrino reagisce male, urla contro il figlio. Il bambino si spaventa e prega Dio di “far crepare” il padre. Poi i due si riappacificano, la mano di Guerrino sul braccio di Nicola in una carezza che fa un po’ fatica a uscire fuori. Tutto bene, tranne il senso di colpa di Nicola: ama suo padre e lo ha condannato a morte. Un mattino di febbraio Guerrino muore ma la comprensibile rabbia infantile del figlio non c’entra niente. Guerrino era spacciato, malato di epatite. Negli ultimi ricordi di Nicola, il padre è in pigiama, non va al lavoro (vendeva materassi), giace semiaddormentato in una camera buia anche di giorno. Nicola, prima che Guerrino morisse, non voleva seguire la tradizione di famiglia dei materassi ma diventare un campione: vincere il Giro d’Italia, si allenava salendo in bicicletta al Castello di Brescia sul colle Cidneo, o giocare nella Juventus come Michel Platini, del quale imparava a memoria la biografia a fumetti e imitava le movenze sul campo dell’oratorio. Che fine fanno questi sogni se ti trovi a nove anni senza padre? Perché inizi a balbettare e la torta alla crema di Leonilde non basta più a renderti felice?

Francesco Savio (nato a Brescia il giorno di Natale del ’74, da tempo a Milano dove lavora nel Ricordi Mediastore in Galleria Vittorio Emanuele), dopo aver pubblicato nel 2008 un racconto, si cimenta con una riuscita autobiografia romanzata. La scelta vincente è tenere la “penna” ad altezza bambino, evitando considerazioni filosofiche e religiose sulla morte che avrebbero appesantito la storia e distratto il lettore dalla sua delicatezza.

La curiosità: se avete un manoscritto nel cassetto, speditelo all’editore Pequod con il coupon che trovate nell’ultima pagina del libro di Savio. L’iniziativa si chiama Chi legge, viene letto. Chissà.



Segnalo il blog Annarita della giornalista Annarita Briganti, nel quale in data 11/01/2010 trovate nuovamente l'articolo (nel caso vogliate leggerlo due volte da due angolazioni diverse) ma soprattutto qualche interessante commento.

domenica 10 gennaio 2010

Repubblica, e Gazzetta





O non succede niente per anni o accade tutto insieme. Oggi ad esempio la brava giornalista Annarita Briganti dedica una brillante recensione a "Mio padre era bellissimo" nelle pagine milanesi di Repubblica. Dico brillante, specificando che di solito questa definizione, se associata ad un individuo, non mi convince. "Lo vedi quel tipo? E' così brillante..." E invece a me sta antipatico. Ma la recensione della Briganti brilla, nel senso che splende, perchè è acuta nel cogliere aspetti del romanzo che magari sono sfuggiti perfino a chi l'ha scritto.

Ieri sera invece (ma l'ho saputo solo questa mattina) ho esordito su Quasi Rete, blog letterario della Gazzetta dello Sport, con il pezzo dal titolo "Due Volte". Il "Compito" era quello di immaginare un fatto, sportivo oppure no, del 2010. Io ho immaginato la cosa qui sotto.

sabato 9 gennaio 2010

“Mio padre era bellissimo” Libro del giorno Fahrenheit. (2) (ovvero La morte come una forma di sgranocchiamento triste)

Via Asiago si trova nella parte mazziniana di Prati, un quartiere che non potremmo mai permetterci, dico a M., abituata ormai ad affiancarmi nelle lunghe passeggiate che amiamo fare dentro le città che ci capitano, osservando terrazze che non saranno mai nostre. Al numero 10 c’è la sede RAI, dove una guardia gentile e laziale per indicarci la retta via ci accompagna per qualche metro con il sorriso a tutta faccia che sanno fare certi romani, in particolare quando la squadra per la quale tifano ha vinto 4-1, mentre i cugini sono stati raggiunti sul 2-2 al minuto 93.
“Per lo studio di Fahrenheit dovete andare dritti, scendere la prima rampa di scale, dopo l’angolo altra rampa di scale, c’è un androne. In fondo a sinistra, imbucate il tunnel (quello che passa sotto la strada) e seguite la pavimentazione grigia di plastica fino all’ascensore. Schiacciate piano 0 e aperte le porte vi trovate davanti a Fahrenheit…”
Io e M. ci guardiamo attoniti, ma diciamo sì, capito.

Sono abbastanza calmo, riesco a scorgere con esattezza il sesso delle persone presenti nello studio: ci sono due maschi, e tre femmine. Ne sono praticamente certo. Un maschio diviso da un vetro dal resto del gruppo. La prima ragazza mi stringe la mano, sono così concentrato nel dire “piacere Francesco” che non afferro subito il suo nome, e mi dispiace, perché il suo modo di fare è accogliente e mi fa sentire subito a mio agio. La seconda e la terza ragazza mi offrono dei pasticcini, ma sono a posto così, con le mie visioni mistiche.

Poi la diretta. Indossate le cuffie mi guardo attorno e dappertutto vedo scritto RAI. RAI. Radio Rai. Radio Tre. Fahrenheit. RAI. RAI. Sono alla RAI, non c’è dubbio. Avevo elaborato un piano per stare più tranquillo, convincermi di essere a Radio Gabbiano Morto ad esempio. Ma no, sono davvero in RAI, e fuori i gabbiani vivi volano spericolati nel cielo con le nuvole di Roma.

Giuseppe Antonelli avanza le sue richieste, intelligenti e sottili, cogliendomi impreparato sul fronte “dualismi”. Bugno o Chiappucci? Indosso le cuffie, ah no le ho già. Chiappucci. Sbagliato! Ma in quel tempo Chiappucci mi emozionava di più, certe sue azioni senza senso figlie di troppa generosità e poco cervello, in fondo erano poetiche. Solo razionalizzando la classe superiore di Gianni Bugno risultava evidente. Domanda di riparazione: Saronni o Moser? Saronni. Sbagliato amici ascoltatori! La risposta di Giuseppe è Moser. Cambiamo repentinamente argomento.
Avevo nascosto un biglietto con qualche schema di risposta nel libro in caso di panico, ma non mi serve. Ad alcune domande rispondo meglio di altre, ma è giusto così, e la bellezza del “Libro del giorno” è che non c’è nulla di preparato. Riesco a citare scrittori che amo e che in un modo o nell’altro hanno influenzato la stesura di “Mio padre era bellissimo”. Penna, Magrelli, Bianciardi…Non capita lo stesso con Erri De Luca, Prevert, Berto e Philip Roth, ma pazienza. Poi alla fine Antonelli tira fuori dal cilindro “Tu, sanguinosa infanzia” di Michele Mari. Me lo dice 4 secondi prima di rientrare a sorpresa in onda dopo l’ultima Tombola di Fahre, perché abbiamo ancora un po’ di tempo. Come fa a saperlo? Che ho letto quel libro (eccolo qui nella mia biblioteca datato 14/9/99), come ho letto “Rondini sul filo”, altro che gabbiani. Che quel titolo e quel libro sono anche per me bellissimi. Ne parliamo gli ultimi minuti, che resteranno ignoti a chi ascolterà solo il podcast. E’ in quel buco di registrazione che azzardo un parallelo tra la “Vita agra” di Bianciardi e l’infanzia agra di Nicola, il protagonista di “Mio padre era bellissimo”. E’ sempre lì che, dovendo citare un momento del romanzo capace di far sorridere, prima clamorosamente non me ne viene in mente nessuno, poi mi salvo ricordando la sensazione del bambino al funerale che, sentendo i sassolini dei viali di ghiaia del cimitero calpestati dai partecipanti, ha la sensazione che quel suono sia simile a quello delle patatine sgranocchiate, ma con molta più tristezza.

E’ finita, me ne vado concludendo con un “Grazie a voi” che suona come vorrei, finalmente, e con il rammarico di non essere a Radio Tre anche il giorno dopo, e poi quello dopo ancora. Lavorare a Radio Tre, ecco quello che vorrei.

venerdì 8 gennaio 2010

Da tre stranieri per squadra a tot. stranieri per classe

Da tre stranieri per squadra a tot. stranieri per classe. La geniale ottusità del Ministro Gelmini non finisce mai di sorprendermi. Io allora mi prendo i tre olandesi.

giovedì 7 gennaio 2010

"Mio padre era bellissimo" Libro del giorno a Radio 3 Fahrenheit (1)

http://www.radio.rai.it/RADIO3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=308481

Ecco com’è andata, pare. Potevo fare meglio, ho pensato, ma anche molto peggio. Prima di Fahrenheit, all’Osteria da Mario in Piazza delle Coppelle, un giovane e borioso giornalista veneto trascinava con i suoi racconti ad alta voce il resto della tavola vicino a me:
“Mi ricordo quando ho intervistato il sottosegretario…e quando invece mi ha strizzato l’occhio il portavoce di…E non vi ho mai raccontato quando il Ministro in persona mi ha fatto i complimenti?”

No, non ce l’ha mai raccontato, ho detto sottovoce a M., mentre il tavolo dei veneti in trasferta a Roma pendeva dalle labbra dell’audace giornalista in carriera. Ma era un modo di pendere che non mi convinceva, e soprattutto, mi annoiava.

domenica 3 gennaio 2010

Mercoledì 6 gennaio presento “Mio padre era bellissimo” a Fahrenheit - Radio 3


E ieri mentre mi lavavo i denti per un attimo sono stato preso dal panico. Sono stati pochi secondi, spero non decisivi. Poi ho proseguito con lo spazzolino, tentando di moderare la forza, perché i denti vanno lavati con dolcezza, non c’è bisogno di sfregare, solo che spesso per far veloce e andare a dormire o a lavorare, uno ci casca.
Mentre il sapore del dentifricio come sempre mi dava una buona sensazione, ho messo un piede negli studi RAI di via Asiago, in Roma, e ho pensato: “E adesso? Che ci faccio qui? Ma soprattutto, cosa diavolo dico? E se mi pongono delle domande difficili e faccio una figura da scemo?” Gli ascoltatori di Fahrenheit potrebbero immediatamente pensare: “E questo chi è? Ma cosa sta dicendo? In che lingua sta parlando? Che poi parlando, insomma, esageriamo, boh, non si capisce niente. E ha pure scritto un libro?? Ah, siamo messi bene, povera Italia.” I problemi del Paese verrebbero riversati immediatamente sulle mie spalle.
Poi ho finito con i denti, e sono tornato parzialmente calmo. Ho pensato a Roma, a come ogni volta non mi abbia fatto capire più niente. Non la vedo da otto anni circa, ma tempo fa…
Partivo con il mio zaino e raggiungevo in treno la capitale, convinto che prima o poi (me lo sentivo) ci sarei vissuto.
Mentre camminavo a caso dalla Stazione Termini verso non so, addirittura mi accorgevo di sbagliare, io avevo vissuto a Roma, come a Lisbona, e Napoli. Si trattava di adolescenze parallele, prosecuzioni di infanzie altrettanto incapaci di toccarsi, ma che pure c’erano state, eccome. Camminavo e non capivo più niente di fronte a quella bellezza sottile e pure così sfacciata, e ridevo da solo per certe lacrime di felicità assoluta che dagli occhi scendevano giù, sotto il sole. Mi guardavo intorno stupito, e come una spugna assorbivo ogni cosa, avvicinavo a me i palazzi e le persone, due zingarelle anche, che appese alle mie braccia mi avevano detto Ciao signore, Dacci qualcosa signore…Care zingarelle, avevo pensato, quanti pregiudizi su di voi. Cinquanta metri dopo mi ero accorto di non avere più il portafoglio. L’avevo messo apposta nella tasca davanti per sentirlo con la gamba, ma insomma non c’era più, erano state quei due piccoli angeli tzigani. In retromarcia ero tornato sui miei passi, pronto ad affrontarle con estrema durezza, ma a pochi metri da loro avevo scorto la più piccola agitare vorticosamente il braccino e urlare: “Signore! Hai perso questo!” Possibile? Possibile, era il mio portafoglio, e non mancava nulla, mah.
Roma. Ero andato al cimitero inglese a trovare John Keats, e salutandolo gli avevo ricordato quello che gli dicevano gli amici quando stava per uscire di casa e c’era brutto tempo:
“John Keats, John Keats, John. Please put your scarf on!”
(John, mettiti la sciarpa per favore!)

Mi sono ricordato questo e tante altre cose di me e di Roma. Mi sono fatto forza, rammentando quel programma radiofonico che conducevo a Radio Brescia Popolare, prima che la chiudessero (la radio, non la trasmissione, e giuro che non fu colpa mia!) Non c’erano più soldi, e in ogni caso sono certo che non accadrà lo stesso con Radio Tre. Forza, mi sono detto, hai sempre amato la radio. Certo, ma un conto è fare il conduttore, un altro è essere intervistato, e per di più sul mio libro. Ma insomma, stiamo calmi. Io a Farehneit. Che, per chi non lo sapesse, è la trasmissione radiofonica più bella che c’è. E non lo dico per ottenere clemenza da parte dell’intervistatore. Ascolto sempre Radio 3, i miei colleghi sono testimoni. Quando al mattino ore 8 mi collego in magazzino per ascoltare Prima Pagina, intuisco la loro disperazione, ma sono spietato, almeno dalle 8 alle 9, col negozio chiuso, si ascolta Radio 3. I pomeriggi ognuno poi faccia ciò che vuole. Io ascolto Fahrenheit, tranne mercoledì.

Il libro stupendo che sto leggendo


Riesce quasi a spiegarmi “l’assurda discrepanza tra l’eccellenza di gran parte degli italiani singoli e il destino generalmente sciagurato del loro paese attraverso i secoli”. Mi fa scoprire che i blue jeans non esisterebbero senza Genova, che Henry James, nel 1869, durante la prima giornata trascorsa a Roma, confidò al suo diario: “Finalmente, per la prima volta, vivo”. Che “garbo” è una delle parole italiane che non possono essere tradotte esattamente in altre lingue, e definisce una qualità che in Italia è particolarmente necessaria ed apprezzata. O forse una qualità che era particolarmente necessaria ed apprezzata, mi viene da pensare.
Con questo libro ho visto Cola di Rienzo presentarsi sul balcone del Campidoglio, dopo essersi impadronito dell’edificio, e pronunciare un discorso pare memorabile. Era il 10 maggio del 1347. Poche pagine dopo mi sono trovato nella prima metà del ventesimo secolo ad osservare i limiti della messa in scena di Benito Mussolini.
Grazie a Luigi Barzini ho appreso che Macchiavelli per il rivale Guicciardini provava “non soltanto la più alta stima, un sentimento raro tra concorrenti, ma anche ammirazione, amicizia, e addirittura affetto”.
Insomma, consiglio a tutti di leggere questo libro. Molti l’avranno già fatto, ma qualcuno probabilmente no. Un saggio splendido scritto nel 1964, con una dedica come questa:

“Questo libro è dedicato a tutti gli italiani illustri e sconosciuti che hanno speso la vita, si sono sacrificati e sono morti perché l’Italia non fosse com’è. Questo libro è dedicato a tutti coloro che vogliono vedere l’Italia liberata finalmente da tutte le sue sventure”.

sabato 2 gennaio 2010

Savio su Quasi Rete, e Gurrado come Pirlo


Ecco, il primo colpo di mercato l’ha fatto “Quasi Rete”, il blog letterario della Gazzetta dello Sport, coordinato da Antonio Gurrado. A partire da…ora (più o meno), ogni tanto sarò molto felice di collaborare con qualche pezzo a questo blog rosa.
Già, ma chi è Antonio Gurrado? Nessuno lo sa con esattezza. In sintesi potremmo dire che è un narratore, rammento un suo breve pezzo che distingueva appunto tra l’essere romanziere, o narratore, ma citandolo a braccio rischierei di rovinarlo, quindi visitate il suo blog, è decidete voi di che si tratta. http://antoniogurrado.blogspot.com/
E va bene, l’ho visitato io per voi, pelandroni, il post è quello del 5 ottobre 2009.
Per quanto mi riguarda, la prima volta che ho letto qualcosa di Gurrado ho avuto la stessa sensazione di quando ho visto esordire Andrea Pirlo con la maglia del Brescia, a sedici anni e due giorni. Stupito da certi passaggi, da certe intuizioni, mi ero permesso di attirare l’attenzione del mio vicino con una leggera gomitata (per educazione e timidezza non faccio mai di queste cose, ma vista la situazione):
“Scusi ma ha visto? Quello lì è un campione!”
Il vicino mi aveva risposto torvo in dialetto, con frasi francamente irripetibili, facendomi notare come la cosa lo interessasse poco, comunque meno della sconfitta che la squadra della nostra città stava subendo, per di più tra le mura amiche.
“E va bene d’accordo, ma lasciamo da parte il risultato, abbiamo la fortuna di osservare la nascita di un probabile grande giocatore, godiamocela! Cioè, estrapoliamo la prestazione del ragazzo dall’orrore tecnico-tattico generale e…”
Il vicino questa volta mi aveva fulminato, ed era decisamente grosso e incazzato per la sconfitta delle Rondinelle, quindi approfittando dell’intervallo poi nel secondo tempo ero andato a sedermi da un’altra parte.
Ecco, Antonio Gurrado è un po’ come Andrea Pirlo, e un giorno sarà un bravissimo giornalista, o un ottimo scrittore, si vedrà. Quando ciò accadrà (in realtà è gia accaduto, sta accadendo anche in questo momento) io potrò dire di averlo detto, come posso dire di aver visto che Pirlo era, diciamolo, un fuoriclasse. (Gli anni seguenti non furono facili per Andrea, qualche grande esperto dubitò del suo talento: troppo magro, troppo lento, poco grintoso, ecc. Gli capitò di essere acquistato da una squadra particolarmente portata a distruggere talenti, specie se italiani, e si salvò solo andando in prestito alla Reggina, e successivamente tornando al Brescia, dove Mazzone, prima di Ancelotti, lo inventò regista davanti alla difesa. Poi Inter e Milan si accordarono per uno scambio con Guglielminpietro. La contrattazione tra le due squadre meneghine durò poco.
“Volete Pirlo eh? Allora ci date Guly.”
“Ah, fateci pensare un attimo perché Guly…Ok dai ci stiamo!”).

Approfondendo la prosa di Gurrado in questi mesi ho avuto conferma delle somiglianza tra Antonio e Andrea, in particolare ho notato come certi periodi del Gurrado siano straordinariamente simili a quel modo tutto suo che ha Pirlo di proteggere il pallone, girando su se stesso per 180 o 270 gradi, esasperando con la sua tecnica il rozzo centrocampista della squadra avversaria.

In definitiva, se amate lo sport come non ve lo raccontano più, se ancora riuscite ad emozionarvi per certi aspetti poetici o ironici di una partita di calcio, o di una scalata al Giro d’Italia, o di altro ancora, se vi piacciono le donne nude ad esempio, ogni tanto visitate Quasi Rete. Non resterete delusi.