lunedì 14 dicembre 2015

In quindici più belli del 2015



I quindici libri più belli che ho letto nel 2015, in rigoroso ordine alfabetico:

A. Busi - Vacche amiche (Marsilio)
J. Cercas – L’impostore (Guanda)
E. Cioran - Sommario di decomposizione (Adelphi)
J.P. Cavalcanti Filho - Fernando Pessoa, una quasi autobiografia (edizioniAnordest)
J. Czapski - Proust a Grjazovec (Adelphi)
A. Ernaux - Gli anni (L’Orma)
V. Erofeev - Mosca-Petuski (Quodlibet)
D. Hamilton – George Best, l’immortale (66thand2nd)
B. Fenoglio - Il libro di Johnny (Einaudi)
D. Gorret - Errori giovanili di Anselmo Secòs (Italic peQuod)
M. Houellebecq – Sottomissione (Bompiani)
D. Kehlmann – E’ tutta una finzione/I fratelli Friedland (Feltrinelli)
K.O. Knausgard - La morte del padre/Un uomo innamorato (Feltrinelli)
A. Manguel - Una storia naturale della curiosità (Feltrinelli)
S. Vitale - Il defunto odiava i pettegolezzi (Adelphi)

martedì 6 ottobre 2015

Il torracchione e l'aereo da turismo

Ricordando Luciano Bianciardi. 
Il mio articolo su "il gabellino", periodico della Fondazione Luciano Bianciardi.



Mi ero trasferito a Milano con l’idea di trovare il mio personale torracchione, ingenuo cattivo e sentimentale. Da avvicinare, il torracchione, da guardare con attenzione, da far saltare in aria. Poi un giorno di settembre avevano tirato giù le Twin Towers, le dimensioni delle cose erano cambiate, sei mesi dopo un pilota di aereo da turismo forse imitatore si era schiantato contro il ventiseiesimo piano del Grattacielo Pirelli, non credo per omaggiare Luciano Bianciardi. Tre morti e settanta feriti, il sessantasettenne svizzero Luigi Fasulo non era l’originale, ma solamente un aviatore incapace di gestire in modo adeguato la condotta della fase finale del volo in presenza di problematiche tecnico-operative e ambientali, nello specifico il circuitare sull’anello di attesa Ata, il percorso aereo a forma di ellisse che  si sviluppa lungo la periferia della città, in attesa che il traffico diminuisse consentendogli così di atterrare come richiesto sulla pista 36R di Linate.
Io nel frattempo corteggiavo la ragazza che poi sarebbe diventata mia moglie regalandole La vita agra e Vita agra di un anarchico, la mia ossessione avrebbe sconsigliato al rapporto serio e duraturo per primo me stesso figuriamoci la candidata, e pure i suoi genitori ai quali in settimane successive avrei donato per presentarmi La solita zuppa e altre storie, mostrando fin dal principio del nostro in divenire rapporto parentale il mio lato meno rassicurante. La prima cena da nuovo fidanzato della figlia a cercare coincidenze tra futuri suoceri milanesi e la vita meneghina di Bianciardi:
“Ma  siete sicuri di non aver mai sentito parlare dalla pensione in via Solferino 8, camere in affitto, cesso in corridoio, ottomila lire al mese? D’accordo. E che mi dite allora di Arcisterco?”
Un metodo come un altro per far capire ai giustamente preoccupati papà e mamma che la loro bambina sarebbe stata in buone mani.
Del resto pure io, come Bianciardi, ero stato assunto da Feltrinelli, anzi romanticamente, e non per esigenze di copione letterario, mi trovavo solitario nei pressi del lungolago di Sirmione sul Garda a osservare distratto un cartellone pubblicitario del Grand Hotel a Villa Feltrinelli quando il telefonino era squillato e un funzionario aziendale mi aveva freddato affermando:
“Signor Savio? Volevo comunicarle che lei è stato assunto per l’apertura della nuova libreria di Piazza Piemonte!”
E io, dopo una risposta già professionale di contenuta contentezza,
“Ma come, lei non mi sembra contento…”
“No davvero, mi fa molto piacere è che sono fatto così.”
avevo chiuso la telefonata ed ero tornato davanti al cartellone pubblicitario del Grand Hotel a Villa Feltrinelli per ringraziare qualcosa e pensare di fronte all’acqua,
Ma guarda un po’, se lo racconto o lo scrivo non ci crede nessuno e pare confezionato, certo adesso c’è questo inutile albergo di lusso eppure un tempo, in quella villa.
Quindi mi ero trasferito a Milano con la biografia scritta da Pino Corrias nello zaino, appena uscito di casa per strada m’investiva il fiato umido delle prime nebbie, ma timbravo il badge in libreria e posizionavo i volumi in preciso ordine alfabetico con una forma di gioia a tratti religiosa che avrei mantenuto a sorpresa per quasi quindici anni, al netto di alcune disavventure fisiologiche dettate da umana noia e isolate stupidità superiori occasionali, dimenticando almeno in apparenza il torracchione che avrei dovuto scovare, combattere e far saltare, in parte travolto da un tempo veloce e dal vento, a mio modo integrato, turista della letteratura? E cos’era diventata la letteratura in Italia? Fama e successo spesso scambiati per qualità dalla maggioranza del pubblico lettore peninsulare, confortato nella circostanza dalle seriali recensioni pilotate periodicamente disponibili sul Quotidiano numero 1 oppure sul Quotidiano numero 2, sdoganatori di bravure talvolta inventate e per questo culturalmente pericolose. Ah Luciano, come avresti irriso certi scrittori fotocopiati in serie e poi raccomandati alle case editrici dalla nota scuola di scrittura, la vanità di quelli sempre pronti a presenziare sistemici a festival letterari o infiniti reading strumentali, meglio attaccarsi alla bottiglia di grappa cattiva (però a buon mercato) e sperare nel ritorno di Garibaldi, o quantomeno di Giuseppe Bandi.
Di nuovo risorgimento però non era il caso di parlare, nella grande città una piccola camera in affitto da amici in via Nervesa, poi come tanti prima di me alla ricerca, cinquant’anni dopo, dei luoghi di Bianciardi durante infinite passeggiate: il bar delle Antille in verità Giamaica, la trattoria delle sorelle Pirovini: Lina, Lena e Cecilia. Oppure la temibile osteria Fiorino, ma solo fino alla scoperta dell’eczema della gerente che per questo e non per eleganza serviva ai tavoli con dei guanti neri, e del marito cuoco uscito dalle cucine per spiegare, però tutto blu di metilene.
Passeggiare ricordando con attenzione il consiglio di Bianciardi: meglio attraversare sulle strisce pedonali, ma tenendomi al margine più vicino alla parte da dove arriva il traffico, per essere certo, in caso d’investitura automobilistica, di cadere all’interno del passaggio zebrato, unica certezza per aver diritto almeno al risarcimento danni. Anche se con le nuove autovetture oggi più in voga, SUV sempre più grandi dei precedenti appena prodotti, come a voler dimostrare prepotenti di essere pronti senza incertezze a schiacciarti o sbalzarti lontano ben oltre lo spazio pedonale, addirittura sul marciapiede, la precauzione suggerita da Luciano poteva dirsi ormai amaramente sorpassata. L’unica possibile scelta, dovendo cambiare lato di strada, sarebbe stata quella di una sottile preghiera prima di rientrare a casa, magari dopo una giornata di lavoro, ritrovando con gioia e per fortuna una moglie e due figli con cui giocare e poi andare a dormire aspettando che arrivi il sonno, e almeno per sei ore non esserci più.

venerdì 10 luglio 2015

Errori giovanili di Anselmo Secòs


Facebook e l’enigma del consenso, kershawanamente parlando; ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi, tornando a una certa giovinezza trascorsa ascoltando anche Vasco Rossi, perché dovrei vergognarmi. Abbandonarti è comunque un piacere da gustare piano. Bravi scrittori che non legge nessuno, prima puntata. Non ve ne saranno altre, conosco la mia abilità nel programmare, affermazione poi non del tutto vera. Ma passando a fianco della solita edicola verso le sette del mattino, prima di entrare in libreria, non ho problemi a pensare che Gli errori giovanili di Anselmo Secòs sia il miglior romanzo italiano uscito in questo primo semestre del 2015, non ve l’ha detto D’Orrico? Ve lo dico io. Nemmeno su Il Venerdì di Repubblica c’era? Da Fazio figuriamoci. Il macellaio del mercato comunale mi ha detto che Roberto Saviano voleva spezzare l’egemonia di Segrate al Premio Strega e per questo in qualità di lettore della domenica ha sponsorizzato Daniele Gorret e il suo ultimo romanzo pubblicato da Italic, piccolo editore di Ancona; io ho detto al macellaio: “Davvero?”
Alle sei e quarantacinque, nel bar-torrefazione aperto prima che Milano eserciti il suo risveglio, ci sono figure professionali discrete, quello che vende i formaggi e il pescivendolo sempre abitanti al mercato comunale, i predatori del precipitoso giornale rosa non lavorativamente definiti, forse pensionati e per questo ancora più temibili, talvolta i vigili del fuoco in tenuta ufficiale. Io recito la parte del libraio, destinato con ogni probabilità all’estinzione o forse già estinto seppur fiero, se volessimo approfondire il concetto; dopo l’espresso giro l’angolo e sono in piazza Piemonte, mi aspettano ceste di libri appoggiate su carrelli quattro rotelle, lente o veloci, narrativa o saggistica.
Scrivo all’editore per avere chiarimenti, risposta:
Daniele Gorret è uno dei grandi dimenticati/emarginati della letteratura italiana. E sì che Gianni Celati l’aveva inserito nei suoi “narratori delle riserve”, ma poi è sceso l’oblio...quante volte succede!”
Già, non c’è molto da fare, un sollevamento popolare che dovrebbe tuttavia acquisire manodopera intellettuale mercenaria da altre nazioni, Daniele Gorret è finora vissuto tra Torino e la Valle d’Aosta dove è nato nel 1951. Seguito ideale di Malattie infantili di Anselmo Secòs (Bologna, 2011), questi Errori giovanili rincorrono la vita del protagonista dai sedici ai quarant’anni, e se il primo libro aveva disegnato l’indole di un bambino strambo e di un adolescente inetto alla vita, il nuovo romanzo racconta la giovinezza di un uomo cui riesce impossibile adeguarsi ai tratti e alle abilità di un individuo del nostro tempo. “Uomo senza qualità” o meglio “senza le qualità degli altri” (gli “adatti”), Anselmo affronta gli studi, il lavoro, le relazioni umane riuscendo sempre a distinguersi per una sua costitutiva insufficienza o radicale diversità. Insufficienza o diversità che sono però costantemente compensate dal dono di un amore per il Tutto, da una sorta di “perfetta letizia” che lo coglie e l’accoglie se solo gli è concessa la compagnia dei nonumani (animali, vegetali, semplici oggetti d’uso) o degli umani sconfitti ed umiliati. Se quindi la sua infanzia non poteva essere letta dai “grandi” che come malattia, la sua vita di uomo è interpretata dai coetanei e dai compaesani come seguito di errori, esistenza d’un incapace, privo della virilità e del realismo propri dell’individuo adulto. Metafora, forse, questa, della condizione insieme sub e super-umana che tocca al poeta nel "Regno della quantità", nel mondo omologato del pensiero unico della Borghesia Universale.
Non vi sarà sfuggito questa essere la quarta di copertina. Ma tornando alla manodopera intellettuale mercenaria da importare e a che prezzo, è passato pure il tempo della speranza non pensate che non ne sia consapevole, chiedo solo agli amici di diffondere il testo in questione che si distingue per stile e utilizzo originale della lingua italiana, delle sue musicali frammentazioni che nonostante io abbia quarant’anni e due figli sono riuscito addirittura a notare. Con i due figli quando posso, cioè spesso, gioco tutto il giorno e questa in fondo mi pare la forma più gioiosa e nobile di abdicare. Giocare.

martedì 26 maggio 2015

Un ricordo dell'Heysel



(da Mio padre era bellissimo, Italic, 2009)


I pomeriggi ospedalieri erano nettamente diversi da quelli a cui ero abituato, a causa dell’assenza della bicicletta e del calcio, del gelato e della salamina, dei documentari e delle fotografie. La cosa che li accomunava era invece la biligornia, uguale nella stanza dell’ospedale come a casa. Per ingannare il tempo aprivo, sopra il tavolino per mangiare a letto, un quadernone a quadretti che conteneva le principali manifestazioni calcistiche d’Europa, tutte svolte da me. I vari campionati venivano disputati con il tiro dei dadi che io stesso eseguivo, forte di una quasi totale imparzialità. Solo un paio di volte, quando la squadra per cui tifavo nella realtà così in prossimità del successo da non poter lasciarselo sfuggire, avevo barato. Prendendo come scusa un improbabile bilico di dado, avevo rilanciato. Prima di farlo avevo osservato il mio vicino di letto, un povero bambino al quale dovevano allungare una gamba. Non capivo. Come si poteva nascere con una gamba più corta dell’altra? Eppure fin da quando era venuto al mondo il bambino vicino era nato con una gamba più corta dell’altra e periodicamente doveva ricoverarsi in ospedale per fare operazioni, fisioterapia, tutto per arrivare un giorno, forse, ad avere due gambe lunghe uguali. Ora dormiva. Nessuno avrebbe testimoniato, nessuno avrebbe saputo come erano andate le cose, di questa piccola correzione in semifinale. Alla fine la Juventus aveva vinto la Coppa dei Campioni, ma avevo in lieve senso di colpa. Era giusta questa vittoria?
Ogni tanto le infermiere passavano e controllavano cosa stavo facendo, poi mi chiedevano di illuminarle sulla possibilità di recupero in campionato della Juventus, del Milan e dell’Inter. Non gli rispondevo, ma le speranze erano poche. La Juventus sembrava avere la testa altrove, le due milanesi facevano fatica quell’anno e anche il Napoli di Maradona non brillava. Lo scudetto pareva essere una faccenda tra Verona e Torino. Comunque, si sarebbe visto alla fine.

Una sera da ingessato all’ospedale era la sera della finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool, 29 maggio 1985. La partita si giocava allo stadio “Heysel” di Bruxelles. Non avevo la televisione ma, grazie a Dio, il bambino “allungabile” vicino di letto, abituato a lunghi soggiorni ospedalieri, sì. Però, la teneva girata quasi totalmente dalla sua parte. Sosteneva che io ero fortunato perché il mio braccio sarebbe tornato normale mentre lui con le sue gambe avrebbe sofferto per tutta la vita. Questa sua affermazione mi aveva fatto venire immediatamente la biligornia. Era l’undicesima operazione di allungamento che faceva. Mi ero addormentato per non pensarci. Poi mi ero risvegliato di soprassalto. Il bambino allungabile mi aveva chiamato per dirmi che era successo qualcosa di veramente brutto. La partita non cominciava più. Sullo schermo scorrevano immagini orribili. Uomini schiacciati da altri uomini tendevano le braccia disperatamente da una delle curve di pietra dello stadio, verso qualcuno che potesse aiutarli. Sembravano intrappolati con le gambe. Io non capivo cosa stava succedendo e con il bambino allungabile osservavamo il capitano del Liverpool, Phil Neal, dire qualcosa in inglese dalla cabina dello speaker. Non avevamo capito. Poi era toccato al capitano della Juventus, Gaetano Scirea, annunciare: “Giocheremo questa partita solo per permettere alle Forze dell’ordine di riorganizzarsi. Non rispondete alle provocazioni. State calmi, giocheremo”. Il telecronista Bruno Pizzul alternava lunghi silenzi a frasi sconcertanti:
“L’evento agonistico non ha più importanza…”
“Sono morte trentanove persone…”

Giunta per la terza volta in finale, ancora una volta la Juventus sembrava non riuscire a vincere la Coppa dei Campioni, l’unica che le mancava per diventare la prima squadra in Europa a trionfare nelle tre manifestazioni calcistiche più importanti del continente. I miei compagni di gioco, pensavo, avrebbero tirato fuori la stessa storia all’oratorio, che l’avvocato Agnelli pagava gli arbitri ma riusciva a farlo solo in Italia, e per questo la Juve non vinceva mai la Coppa più prestigiosa. Poi la partita era iniziata, ma era così brutta che mi ero di nuovo addormentato. Perfino Platini giocava male.

“Ehi sveglia! Sveglia! Rigore per la Juve!
Il bambino vicino di letto mi aveva chiamato apposta e appena in tempo per il rigore di Platini.
Michel si era asciugato la fronte dal sudore, passandosi una mano tra i capelli. Aveva posizionato il pallone sul dischetto curvandosi con la schiena, era indietreggiato di un paio di passi fermandosi ancora dentro l’area di rigore. Aveva appoggiato le mani sui fianchi. Si era piegato con il corpo in avanti per iniziare una breve rincorsa. Aveva spiazzato il portiere con il solito colpo di piatto.
Gol.
Platini aveva cominciato a correre per esultare, schivando l’arbitro e anche un compagno che voleva abbracciarlo. Ridendo aveva alzato il braccio destro verso una delle tribune dello stadio. Poi aveva rilanciato di nuovo lo stesso braccio verso il cielo dopo averlo apparentemente “ricaricato” preparandone lo slancio con l’altro. Aveva ripetuto il gesto una terza volta, senza più sorridere, con un’espressione più rabbiosa, prima che i compagni lo sommergessero.
“Ma non è una partita vera…” aveva sentenziato il bambino con una gamba più corta.
Platini aveva esultato  in un modo che la consapevolezza di ciò che era accaduto, nei giorni seguenti, avrebbe reso agghiacciante e tetro.
Il sorriso di gioia atletica, il suo braccio lanciato verso l’alto. La Juventus era campione d’Europa.

La tragedia in cui persero la vita trentanove persone, provocata dal crollo del muretto sotto la spinta animalesca dei tifosi inglesi, passò alla storia come la “strage dell’Heysel”. La maggior parte delle vittime perse la vita per fenomeni legati alla compressione degli organi vitali. La partita ebbe inizio con qualche ritardo. Nei giorni successivi i giornali mischiarono notizie sportive e cronaca nera, e io all’ospedale leggevo commenti e articoli che facevano prevalere l’orrore a danno della gioia. La Juventus era così la prima società a iscrivere il proprio nome nell’albo d’oro di tutte le competizioni organizzate dall’UEFA, ma il rigore sembrò quasi una riparazione per quello che gli italiani presenti allo stadio avevano subito. Era punizione. La cavalcata dell’attaccante polacco Zibignew Boniek, raggiunto da un lungo lancio millimetrico di Michel Platini, era stata sì interrotta con un fallo da parte di un difensore del Liverpool, ma prima che il rapido numero undici dai capelli rossi e con il bottone della maglietta allacciato entrasse nell’area di rigore. L’arbitro aveva ugualmente concesso il penalty e la Juventus aveva vinto per uno a zero. Era il caso di restituire la coppa? Le autorità belghe chiesero l’estradizione di ventisei teppisti inglesi ritenuti responsabili della strage. Capocannonieri del torneo furono Michel Platini della Juventus e Nilsson del Goteborg con sette reti.



(da Mio padre era bellissimo, Italic, 2009)

lunedì 4 maggio 2015

A passeggio con il campionato (33)


da Chiavari

“L’Italia è un Paese di barbagianni, tendenzialmente mafiosi!”
sbraitava quel tale in piedi su una sedia nel centro di Chiavari vicino alla fontana.
Io arrivavo da Milano dopo aver spento internet, la Rete non cambierà le cose, internet non salverà il mondo; e mi chiedevo come mai, tutta questa ostilità nei confronti dei barbagianni. Poi correvo dietro a Pietro in bicicletta coi pedali da due settimane, mettendo in scena la teatrale sacralità del ruolo di padre, avvertendo e rassicurando il piccolo già sfrecciante con caschetto sotto portici e carruggi in merito a gambe di passeggianti da evitare, attraversamenti zebrati di strade da rispettare. Nel giorno del primo maggio, scorgevo bagliori di civiltà nel centro di Chiavari con i negozi tutti chiusi, come vent’anni fa, mi veniva in mente quel povero editorialista del Quotidiano numero 2 che di recente, in uno chic-radicale corsivo, aveva lamentato la tristezza dei centri storici nei giorni di festa con le attività commerciali chiuse, le cartacce sporche negli angoli (?): ma vai a lavorare te il venticinque aprile o la domenica, figlio di giornalista benestante che fa il mestiere del padre. Quindi tornavo dal tale, felice che le ruote della Puky gialla e rossa di Pietro non avessero inferto ferite o prodotto cadute ad anziane e secche gambette di villeggianti, di conseguenza riversi al suolo doloranti e forse senza alito di vita:
“Chi è il papà di questo bambino? Chi è il papà di questo bambino!”
“Sono io, buongiorno, Bianca invece è a casa con la mamma perché piove.”
Il tale continuava:
“Ma se Maria Elena Boschi fosse una cicciona di duecento chili, pensate davvero che, mentre vengono approvate volutamente oscure leggi, ce la ritroveremmo tutti i giorni ritratta sulle prime pagine dei giornali cartacei e online, intenta a guardare pensosa e corteggiata nel vuoto, a scartare stanca ma educata cioccolatini? Questa ossessione dei fotografi parlamentari per Maria Elena, in un certo qual modo Cicciolina democratica dei nostri tempi…”
Dopo il comizio accompagnavo il tale all’Angolo del Tè, lui diceva aspetta che la sedia me la porto dietro non si sa mai, rispondevo certo, del resto io ho il bambino; entravamo nella sala accogliente e nonostante le cinquanta miscele di infusi o decotti disponibili optavamo per due caffè. Vicino al bancone alcuni avventori del locale (si diceva raffinata intuizione di due russe) avvicinavano l’uomo della sedia per dirgli Mi piace! quello che hai detto, Anche a me piace! aggiungeva un altro. Qualcuno commentava e diceva la sua, sui social iniziava a spopolare l’hashtag #luomoinpiedisullasedia.
“Allora se vi è piaciuto cliccate sulla mia pagina, per favore!”
mi sorprendeva l’urlatore brandendo la sedia e facendola vorticare nel vuoto. Poi mi confidava di aver cercato assenso e popolarità anche a Lavagna nel corso del mattino, ma di aver abbandonato la confinante località per via dei pochi passanti, delle troppe cacche e pipì sparse lungo il territorio da quadrupedi orrendamente gestiti e coccolati da padroni misantropi alla buona privi di sacchetto raccogli-merda, e di essere quindi approdato a Chiavari alla ricerca di una maggiore visibilità. Io invece mi trovavo in Riviera per caso, ma baciato dalla fortuna di non essere a Milano il giorno dell’inaugurazione di Expo 2015, con allegati scontri di piazza prevedibili e programmati, in parte probabilmente escogitati o poco controllati per non parlare di e far blaterare i più, con successive reazioni popolane alla #nessunotocchimilano espresse talvolta da individui, politici o imprenditori arricchiti usando magari mezzi illegali, che nella vita erano quotidianamente raffinati e autorizzati black bloc. Da segnalare nella circostanza, la commossa gratitudine degli abitanti della Milano bene nei confronti degli spazzini capaci di ripulire certe strade nobili in tempi da record dopo la guerriglia:
“di solito puzzano un po’ questi spazzini quando gli passi vicino con la colf che spinge il passeggino al posto di noi ricche madri, però stavolta bravi dai.”
Molto meglio allora Chiavari anche se poi l’illusione dei negozi chiusi era soltanto dovuta alla pausa pranzo, alle ore 16 gli italiani tornavano a brulicare sotto i portici confortati dalla intermittente e colorata luminosità delle vetrine, dalla rassicurante possibilità si spendere e comprare, invece che pregare o suicidarsi. Le campane suonavano a festa, io leggevo su facebook qualche limpido ragionamento di Francesco Pecoraro.

sabato 25 aprile 2015

A passeggio con il campionato (32)


Milano – Sarà che ho sempre preferito andare al parco o in collina piuttosto che in piazza, niente di personale, anche se devo ammettere che da ragazzo qualche volta, insieme agli altri dell’istituto tecnico per geometri partecipavamo agli scioperi pur non con la medesima consapevolezza e preparazione degli studenti dei licei. Loro ci aspettavano in via Trento, eravamo sempre a noi a doverli raggiungere partendo a piedi da via Oberdan, e quando ci accoglievano i liceali lo facevano con una forma di pietà raffinata: ecco sono arrivati i geometri, i ragionieri. Mi chiedevo se la divisione urbanistica della città, che separava in due distinti poli scuole umanistiche e tecniche, fosse una precisa scelta del non sempre rispettato piano regolatore. Poi si partiva tutti insieme preferibilmente verso piazza della Loggia, ma dopo pochi metri la ragione della manifestazione veniva sovente dimenticata; i rappresentanti d’istituto di scientifico e classico, muniti nella circostanza di megafoni e hashish per fare colpo sulle studentesse più affascinanti, si facevano ancora più belli e carismatici. Io mi annoiavo anche di certi cori da stadio con la rima baciata e prendevo per le vie laterali, la rima baciata no.

Nascosto nel quartiere vecchio mi veniva in mente il giovane Johnny partire in corteo, preceduto da marmocchi caracollanti e affiancato da carabinieri legnosi e sudati pronti a difendere i manifestanti da eventuali provocazioni di passanti non amanti del fascismo. Quindi tutti ammassati sotto il balcone, in attesa che apparisse il Segretario Politico immerso nel profumo della sua colonia al tabacco, deciso a gonfiare il suo infelice torace da riformato.
“Cosa faceva Eden?” “Schifo!” “Il Negus?” “Schifo!” “Cosa facevano i francesi?” “Schifo!” “Morte al Negus, morte a Eden!”
Ma il ragazzino Johnny e i suoi amici gridavano invece:
“England forever! England forever!” “Down with the Duce!” “The Duce is a pig!” “The Duce is a rascal!” Qualcuno intonava la Marsigliese.
Il Segretario Politico assentiva e sorrideva.

Così anche questa volta purtroppo venti anni dopo, sorretto dal lieto vantaggio di lavorare in libreria, nel sistemare sopra i tavoli e gli scaffali le novità settimanali (annunciatrici di grandi scrittori italiani contemporanei, quasi tutti redattori o collaboratori di riviste che nessuno legge parenti esclusi, o tradotti all’estero in varie lingue o usciti dalla certificata scuola di scrittura o vincitori e/o almeno candidati al premio), mi sono ritrovato tra le mani Il libro di Johnny curato da Gabriele Pedullà e ho lasciato cadere un sospiro, più involontariamente un paio di alterate fascette editoriali per bisonti. Quanto mancava alla fine del turno? E uscito dalla libreria, non prima di essere passato alla cassa con il mio badge aziendale per fortuna scontante le ventotto euro, dove e a che ora l’appuntamento sotto il balcone per gridare qualcosa di ironicamente contrario presumibilmente a Matteo Salvini, sconfortante e comico personaggio letterario che Beppe Fenoglio avrebbe magistralmente descritto come fatto ad esempio con Juancito, pardon, con il caposquadra Rabino; o come con lo stesso Segretario Politico affacciato al balcone, proteso in saluto romano per versare benzina sul fuoco vociferante dei manifestanti?

Verso il parco, verso la collina più vicina.

domenica 19 aprile 2015

A passeggio con il campionato (31)


Milano - Me ne stavo in libreria in attesa che arrivasse Aldo Cazzullo a firmare le copie del suo nuovo libro, Possa il mio sangue servire (Rizzoli, 403 p., 19 euro); ma anche a lavorare, con i clienti che giustamente interrompevano la mia sospensione temporale con richieste non sempre precise del tipo:
“Mi consiglia un romanzo che possa piacere alla mia amica? Ma che sia per favore almeno candidato al Premio Strega.”
“Ecco signora questa è la lista degli undici, può scegliere tra Capossela, Covacich, Ferrante, Genovesi, Lagioia, Marasco, Mizzau, Santagata, Sereni, Vins Gallico, Zardi, Zerocalcare. Come vede una formazione di calcio bella e buona con tanto di trequartista in apparenza straniero e terzino sinistro misterioso e sessualmente incerto, più il portiere di riserva pseudonimo di Michele Rech. In questo caso io comunque le suggerisco di evitare il polpettone e di virare sul cantautore, per questioni non strettamente romanzesche ma di emozionante poesia, ha mai ascoltato Pena de l’alma?”
“Non saprei, anche se non è lo Strega fa niente, basta che abbia vinto qualcosa.”
Allora io indico alla signora I miei premi di Thomas Bernhard, ella tentenna, quale premio ha vinto Thomas Bernhard?, io le dico il Gran Premio di Hockenheim e la cosa soddisfa entrambi, andata per Thomas Bernhard.

Me ne stavo al Punto Informazioni a riflettere sui trionfi automobilistici dello scrittore austriaco, al perché Aldo Busi avesse scritto, mi pare e spero di non sbagliarmi in E io, che ho le rose fiorite anche in inverno?, che Thomas Bernhard tanto criticava ma poi alla fine i premi li ritirava mentre lui (Busi) era l’unico che no. Prendevo da parte l’amato autore con domicilio fiscale a Montichiari e mi permettevo di implorarlo:
“Per favore, almeno tu e Bernhard non litigate.”
Quindi Cazzullo giungeva e il suo libro parlava di uomini e donne della Resistenza che non era patrimonio di una fazione ma della nazione, seduto al tavolo firmava le copie e io pensavo: ecco appena ho un attimo mi sgancio dal Punto Informazioni per regalargli una copia del mio Fuorigioco che sta antipatico ai bambini, anche per riparare con il sincero bel gesto a una lontana incomprensione; ma impiegato a fornire risposte agli avventori della libreria l’attimo non arrivava, l’idea di peccare di vanità cominciava a farsi strada, per carattere e figlia di tante letture giovanili, al momento mi veniva in mente Thomas Merton. Il solito problema della vanità. Poi si è fatta strada, nei corridoi delimitati dai libri, una ragazzina splendida nella sua curiosità adolescenziale riguardante Julio Cortazar, Ernesto Sabato, addirittura Bioy Casares; e nello stupore per certi confortanti miracoli ho smesso di capire e pensare, Aldo Cazzullo è uscito dalle porte trasparenti sotto il sole provvisorio sostituito da un ragazzo molto alto che mi ha costretto ad affrontarlo in punta di piedi, pur senza darlo troppo a vedere. Non mi sfuggiva l’eventualità che potesse trattarsi di un giocatore di pallacanestro. Gentile, educato, drammaticamente alto, ci siamo messi a discutere di narrativa e io ho pensato che diamine, con quanti calciatori di oggi potrei fare altrettanto? Non mi venivano i nomi dei pedatori, e dopo che il cestista se n’è andato ho scoperto grazie a un collega esperto di musica e basket che l’ala-centro in questione era certamente Nicolò Melli, dell’Olimpia Milano. Mi è sembrata l’occasione ideale per iniziare a parteggiare per l’Emporio Armani, al netto della non entusiasmante sponsorizzazione, e senza negare a me stesso che da ragazzo avevo invece tifato (volendo esagerare) per la Fortitudo Bologna, in seguito atrocemente radiata e nel presente militante in Divizione Nazionale B, il quarto campionato nazionale. In fondo se ne sarebbe accorto qualcuno? Avrei rischiato scomodi paragoni con Zlatan Ibrahimovic oppure Emilio Fede, il primo improvviso interista fin da bambino nella confusa e frettolosa estate del 2006 e il secondo juventino ma poi milanista per amore di Silvio Berlusconi?

La Resistenza del resto non si trova solamente nei libri, ma dentro case che si aprono nella notte, nella sofferenza dei feriti curati nei pagliai, nei ricercati nascosti in cantina, in quelle madri trasformate in scudi per proteggere i propri figli. La Resistenza raccontata dalle storie delle suore di Firenze, Giuste tra le Nazioni per aver salvato centinaia di ebrei; dai sacerdoti come don Ferrante Bagiardi, che sceglie di morire con i suoi parrocchiani dicendo "vi accompagno io davanti al Signore"; dagli alpini della Val Chisone che rifiutano di arrendersi ai nazisti perché "le nostre montagne sono nostre"; dai tre carabinieri di Fiesole che si fanno uccidere per salvare gli ostaggi; dai 600 mila internati in Germania che come Giovanni Guareschi restano nei lager a patire la fame e le botte, pur di non andare a Salò a combattere altri italiani. Partigiani comunisti, cattolici, monarchici. O autonomi, come Beppe Fenoglio.

giovedì 22 gennaio 2015

Houellebecq o Welbeck su BibliObs, Le Nouvel Observateur

Houellebecq, Welbeck, una libreria in Italia e Alessandro Baricco.
A grande richiesta in lingua italiana ecco il testo che ho scritto per BibliObs, le pagine letterarie di Le Nouvel Observateur. Cliccando sull'immagine sotto invece la versione in francese. 


Milano – Pensavo agli italiani con meno tecnologia, l’errore più grave era stata distribuirla loro senza precauzioni, senza la dovuta programmazione temporale. Così potevi osservarli chiacchierare da soli ad alta voce sul marciapiede, non erano matti ma utilizzavano l’auricolare per poter gesticolare meglio. Oppure stare con la testa china sul display a bordo della metropolitana, del tram, accecati da Facebook, Twitter, WhatsApp, tutti a discutere di cose essenziali che solo dieci anni fa sarebbero apparse trascurabili e non soggette a urgente comunicazione:
“Sto arrivando a casa, Sono sul treno, Sono dal panettiere, Non mi sento bene, Sto meglio oggi, Sono al cimitero.”
Così potevi osservarli entrare in libreria come adesso, gli occhi abbassati sul telefonino o sull’iPad quando non direttamente in conversazione con altri mediante orecchio, alzando il capo senza interrompere l’ipnosi connettiva e collettiva solo per chiedere:
“L’ultimo di Welbeck?”
Si riferivano probabilmente a Sottomissione di Michel Houellebecq, ma perché contraddirli, compito del bravo libraio è accogliere, percepire, assecondare. O forse era uscita davvero una biografia di Danny Welbeck e a sbagliarmi allora ero io, del resto il recente passaggio dell’attaccante inglese dal Manchester United all’Arsenal francese di Arsene Wenger poteva indurre a confusione. Ma cosa mai poteva aver scritto nella sua biografia Danny Welbeck a soli ventiquattro anni? E che ne pensava di Huysmans, e del romanzo di Houellebecq? Il drammatico attentato del 7 gennaio alla sede di Charlie Hebdo si era trasformato in casuale e ulteriore trampolino di lancio per l’uscita di Soumission, atteso in Italia per il 15. Sottomissione, citato conseguentemente a proposito e a sproposito dalla televisione (dovete sapere che la maggioranza dei miei compatrioti, a partire da metà degli anni ottanta, fa quello che sostiene la televisione) aveva portato nelle librerie clienti che non si sarebbero mai interessati a Houellebecq, che non avrebbero mai letto Houellebecq, ma che per sicurezza dovevano comprare Houellebecq. Poco male, avrei pensato il lunedì mattina seguente preparando come al solito a negozio chiuso la classifica dei dieci libri più venduti. Primo: Michel Houellebecq. L’inutile lezione del professore Houellebecq, secondo Alessandro Baricco che tuttavia sosteneva il privilegio di chinarsi su ogni libro dello scrittore francese, anche a costo di uscirne delusi. In fondo questa la cosa più importante e utile, da consigliare agli italiani, chinati invece sui display. Non avrebbero avuto niente da rimpiangere.