sabato 9 gennaio 2010

“Mio padre era bellissimo” Libro del giorno Fahrenheit. (2) (ovvero La morte come una forma di sgranocchiamento triste)

Via Asiago si trova nella parte mazziniana di Prati, un quartiere che non potremmo mai permetterci, dico a M., abituata ormai ad affiancarmi nelle lunghe passeggiate che amiamo fare dentro le città che ci capitano, osservando terrazze che non saranno mai nostre. Al numero 10 c’è la sede RAI, dove una guardia gentile e laziale per indicarci la retta via ci accompagna per qualche metro con il sorriso a tutta faccia che sanno fare certi romani, in particolare quando la squadra per la quale tifano ha vinto 4-1, mentre i cugini sono stati raggiunti sul 2-2 al minuto 93.
“Per lo studio di Fahrenheit dovete andare dritti, scendere la prima rampa di scale, dopo l’angolo altra rampa di scale, c’è un androne. In fondo a sinistra, imbucate il tunnel (quello che passa sotto la strada) e seguite la pavimentazione grigia di plastica fino all’ascensore. Schiacciate piano 0 e aperte le porte vi trovate davanti a Fahrenheit…”
Io e M. ci guardiamo attoniti, ma diciamo sì, capito.

Sono abbastanza calmo, riesco a scorgere con esattezza il sesso delle persone presenti nello studio: ci sono due maschi, e tre femmine. Ne sono praticamente certo. Un maschio diviso da un vetro dal resto del gruppo. La prima ragazza mi stringe la mano, sono così concentrato nel dire “piacere Francesco” che non afferro subito il suo nome, e mi dispiace, perché il suo modo di fare è accogliente e mi fa sentire subito a mio agio. La seconda e la terza ragazza mi offrono dei pasticcini, ma sono a posto così, con le mie visioni mistiche.

Poi la diretta. Indossate le cuffie mi guardo attorno e dappertutto vedo scritto RAI. RAI. Radio Rai. Radio Tre. Fahrenheit. RAI. RAI. Sono alla RAI, non c’è dubbio. Avevo elaborato un piano per stare più tranquillo, convincermi di essere a Radio Gabbiano Morto ad esempio. Ma no, sono davvero in RAI, e fuori i gabbiani vivi volano spericolati nel cielo con le nuvole di Roma.

Giuseppe Antonelli avanza le sue richieste, intelligenti e sottili, cogliendomi impreparato sul fronte “dualismi”. Bugno o Chiappucci? Indosso le cuffie, ah no le ho già. Chiappucci. Sbagliato! Ma in quel tempo Chiappucci mi emozionava di più, certe sue azioni senza senso figlie di troppa generosità e poco cervello, in fondo erano poetiche. Solo razionalizzando la classe superiore di Gianni Bugno risultava evidente. Domanda di riparazione: Saronni o Moser? Saronni. Sbagliato amici ascoltatori! La risposta di Giuseppe è Moser. Cambiamo repentinamente argomento.
Avevo nascosto un biglietto con qualche schema di risposta nel libro in caso di panico, ma non mi serve. Ad alcune domande rispondo meglio di altre, ma è giusto così, e la bellezza del “Libro del giorno” è che non c’è nulla di preparato. Riesco a citare scrittori che amo e che in un modo o nell’altro hanno influenzato la stesura di “Mio padre era bellissimo”. Penna, Magrelli, Bianciardi…Non capita lo stesso con Erri De Luca, Prevert, Berto e Philip Roth, ma pazienza. Poi alla fine Antonelli tira fuori dal cilindro “Tu, sanguinosa infanzia” di Michele Mari. Me lo dice 4 secondi prima di rientrare a sorpresa in onda dopo l’ultima Tombola di Fahre, perché abbiamo ancora un po’ di tempo. Come fa a saperlo? Che ho letto quel libro (eccolo qui nella mia biblioteca datato 14/9/99), come ho letto “Rondini sul filo”, altro che gabbiani. Che quel titolo e quel libro sono anche per me bellissimi. Ne parliamo gli ultimi minuti, che resteranno ignoti a chi ascolterà solo il podcast. E’ in quel buco di registrazione che azzardo un parallelo tra la “Vita agra” di Bianciardi e l’infanzia agra di Nicola, il protagonista di “Mio padre era bellissimo”. E’ sempre lì che, dovendo citare un momento del romanzo capace di far sorridere, prima clamorosamente non me ne viene in mente nessuno, poi mi salvo ricordando la sensazione del bambino al funerale che, sentendo i sassolini dei viali di ghiaia del cimitero calpestati dai partecipanti, ha la sensazione che quel suono sia simile a quello delle patatine sgranocchiate, ma con molta più tristezza.

E’ finita, me ne vado concludendo con un “Grazie a voi” che suona come vorrei, finalmente, e con il rammarico di non essere a Radio Tre anche il giorno dopo, e poi quello dopo ancora. Lavorare a Radio Tre, ecco quello che vorrei.