mercoledì 20 gennaio 2010

Juventus Club Travagliato

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
Avrei tanti motivi per essere grato a mia madre, ma in questo momento me ne viene in mente uno di natura spaziale. Dopo sei giorni di lavoro per un totale di 44 ore settimanali circa, Leonilde metteva la sveglia alle 7 anche la domenica mattina per accompagnarmi in automobile a Travagliato. Nella piazza principale di questo paese sorgeva il Club Juventus che mi avrebbe permesso di seguire la mia squadra del cuore per un anno intero. Stagione 1991/92. Allenatore Giovanni Trapattoni. Prima non avevo mai osato, ma a diciassette anni mi pareva di essere giunto al momento giusto per chiedere a mia madre l’autorizzazione che, dopo qualche dubbio di natura apprensiva ed economica, mi era stata accordata, con l’obbligatoria contropartita di andare bene a scuola. Ultimi disperati tentativi di farmi cambiare idea:
“Ma perché invece non ti fai un bell’abbonamento al Brescia?”
“Ma perché mamma, il Brescia lo vedo da quando ho sei anni, e in tutto questo tempo solo per una volta è stato in serie A. Meglio di niente certo, ma vuoi mettere guardare Roberto Baggio una domenica sì e una no?”
“Ma sì, però anche Giunta e Ganz sono una bella coppia…” (si era documentata Leonilde)
“D’accordo, ma nella Juve c’è anche Di Canio, sai che mi piace…”
“E va bene Nicola, ma prometti di…”

Per due domeniche al mese Leonilde puntava la sveglia e mi lasciava nella piazza a Travagliato, in inverno ancora divorata dal buio. Eravamo solitamente in una decina, fatta eccezione per le partite più importanti in occasione delle quali il Club noleggiava un autobus da sessanta posti. Un’ora per arrivare a Milano, altre due scarse per ritrovarci fuori dal nuovo Stadio delle Alpi. Dentro stavamo al primo anello, e i cartelloni pubblicitari impedivano la visuale della parte bassa della porta, per cui, specie sui calci di rigore o in generale sui tiri rasoterra, diciamo che c’era un certa incertezza. Parato? Palo? No, gol. Se tutti gli altri erano esplosi c’era sicuramente un motivo.
Il mio primo idolo era Roberto Baggio, ma il secondo era Paolo di Canio, che ammiravo incondizionatamente per la sua indisciplina tattica che mandava invece su tutte le furie Giovanni Trapattoni. Con l’amico Omar aspettavamo ansiosi l’annuncio delle formazioni per sapere se Paolo faceva parte degli undici. Ma dopo il consueto precampionato da titolare fisso con la maglia numero 7 sulle spalle in una formazione che oltre all’ala romana comprendeva di solito due punte e una mezza punta, con il passare delle giornate Di Canio poi tendeva progressivamente ad accomodarsi in panchina, sostituito nello scacchiere tattico del Trap dal più razionale Galia. Imprecavamo per la scelta poco coraggiosa del Mister, ma il Giuàn ne sapeva più di noi. Solo verso il sessantesimo, se la partita non si era ancora sbloccata, Trapattoni mandava a scaldarsi l’ex laziale che iniziava a fare avanti e indietro in tuta vicino alla riga del fallo laterale, consapevole che la faccenda sarebbe durata per un bel po’. Lo 0-0 resisteva, ma il Trap aspettava il più possibile prima di giocarsi l’ultima carta. Poi, di solito a quindici minuti dalla fine, lo buttava dentro dopo averlo catechizzato per diversi secondi. Anche da lontano si capiva quello che diceva:
“Paolo, so che hai il dribbling. Salta l’uomo, e poi mettila in mezzo per la testa di Casiraghi. Punta l’uomo, saltalo, ne sei capace, ma poi crossa per Casiraghi. Ok?”

Il boato dei tifosi, unito a qualche inopportuno fischio al magro Galia, faceva da colonna sonora all’entrata in campo dell’idolo della curva. Il pubblico spingeva la Juventus a cercarlo e la palla rotolava fino al numero 7, largo sulla destra. Di Canio su di giri dribblava il primo avversario, talvolta pure il secondo, ma poi, quando avrebbe avuto lo spazio per crossare faceva invece un’altra finta, e poi un’altra ancora. Arrivava il raddoppio, e Paolo si trovava chiuso vicino alla bandierina del calcio d’angolo. Passarla? Mai. Il suo testardo talento non avrebbe ceduto così in fretta, e il Trap così avrebbe imparato a farlo giocare solo un quarto d’ora. Attraversare i corpi dei difensori non era possibile, ma un altro modo ci doveva pur essere prima di abdicare in favore di un banale tocco all’indietro…

Il ritorno in autostrada era meno gioioso dell’andata. Incombevano i pensieri, la scuola. Eppure, indipendentemente dal risultato, sul pulmino con Omar non smettevamo di ridere per le prodezze di Zani (da tutti chiamato Zsani) che ogni volta ci sorprendeva con qualche invenzione. Come quando, tra lo stupore generale, si era portato una mozzarella come pranzo al sacco. Dopo averla aperta lacerando la plastica con i denti, aveva chiesto all’autista di rallentare. Stava poco bene? No, voleva disperdere l’acquosa placenta della bufala dal finestrino, per poi cibarsi del latticino a morsi. O come quando, per la prima volta a diciotto anni d’età, aveva fatto la schedina, azzeccando un dodici. Ma gli altri del pulmino non ci credevano, e volevano controllare di persona. Atalanta-Fiorentina 1. Bari-Lazio 2. Cremonese-Foggia 2. Aveva vinto davvero Zsani, ma…

“Ma Zsani! Ta ghe scriit el nom de drè? I te maia fo tot co le tasse! Ta se ruinat! El nom de drè el va mai scriit! La va a finì che i te maia fò la baita…”
(Ma come Zani, hai scritto il nome dietro? Ti mangiano fuori tutto con le tasse! Sei rovinato! Il nome dietro non va mai scritto! Va a finire che ti mangiano fuori la casa!)

Prima uno, poi cinque, poi tutti i passeggeri avevano cominciato a stringere alle corde il povero Zsani, che alla fine aveva ceduto. Per 120 mila lire valeva la pena essere massacrati dalle tasse, rischiare che lo Stato con il suo inesorabile braccio fiscale ti portasse via l’appartamento e magari, pure la famiglia? No, non ne valeva la pena. E il foglietto rettangolare del Totocalcio, appallottolato, era volato anch’esso fuori dal finestrino, seguendo la scia bagnata della mozzarella.