Belfast - Oggi non sono riuscito a vedere
la tappa. Avevo promesso a me stesso di guardarla, anche per rimediare alla
prima puntata che avevo bucato, ma poi c’era il sole, era una giornata di fine
primavera con il cielo prevalentemente azzurro, temperature tra 14 e 25 gradi,
aggiungiamo il fatto che Marta iniziava a lavorare alle 15 e dovevo badare a
Pietro, come da accordi la televisione non è prevista almeno fino ai quattro o
cinque anni, forse di più, la radio disturba i nostri giochi e non rende come
la televisione, una volta tanto, il bello del Giro d’Italia è guardare,
lasciarsi addormentare sul divano dai paesaggi e dalla facce diverse degli
italiani, dappertutto, questo vale anche per il Giro d’Irlanda. Ci troviamo ancora
a Belfast, ieri è stato un grande successo dicono i giornali, con oltre
duecentomila persone lungo il percorso, il Giro d’Italia alla radio lo
ascoltavo solo da mio zio quando facevo i materassi, per la precisione lui
faceva i materassi, io i cuscini e già mi sembrava di andare storto con ago e
filo, i materassi erano addirittura un’altra dimensione, prima era necessario
imparare a fare bene i cuscini, comunque ascoltavamo il Giro alla radio, si
parla ormai di vent’anni fa adesso che ci penso, usavo ago e filo e pensavo che
avrei preferito guardare la tappa in Tv, alla radio non si capiva niente. Ecco
allora che appena dopo le quindici siamo partiti in direzione parco di Pagano
con Pietro, lui con la sua bicicletta arancione e nera senza pedali, lui sì immerso
completamente nell’atmosfera del Giro, pronto a scattare lasciandomi sul posto
appena fuori dal portone di casa, un’accelerazione per far capire subito come
sarebbero andate le cose, lo sguardo del padre che controlla la distanza
massima che il bambino può raggiungere dal genitore senza che ci sia pericolo,
che una delle automobili parcheggiate sul marciapiede ad esempio faccia marcia
indietro, ci vuole una visione periferica per fare il papà, supervisionare senza
ansia apparente, mantenendo il controllo. Il parco come quasi sempre era
strapieno, il parco di Pagano intitolato a Guido Vergani, scrittore e
giornalista, i figli di ricchi del mio quartiere, roteavano griffati da un
gioco all’altro: altalena, gallo o cane con sotto la molla che fa avanti e
indietro cavalcato dal bambino di turno, pallina o scivolata. La tappa prevedeva
un percorso per velocisti, con particolare attenzione alle insidie del vento,
visto che si costeggia il mare, ma sono cose che si dicono, e si scrivono talvolta
esclusivamente per esigenze di spettacolo, mai sentito nessuno affermare la
tappa di domani sarà una palla mortale, guardatevi un dvd di Marco Pantani, mi
gioco due euro che il gruppo arriverà in volata, i gran premi della montagna
sono due di quarta categoria, gli ultimi tre chilometri sono in discesa. E
infatti vengo a sapere che dopo qualche tentativo di fuga, l’ultimo dell’olandese
Tjallingii arginato a quattro chilometri
dal traguardo, la curva prima del rettilineo finale vede sbucare il favorito
Kittel in decima posizione, apparentemente spacciato, e che invece sta
solamente supervisionando come faccio io con Pietro quando mi prende qualche
metro e trattengo il fiato, abbastanza serenamente, perché poi in linea di
massima lo riprendo, o alla peggio grido “Stop!”, e Pietro allora inchioda
anche esageratamente con le suole sul cemento tanto che gli dico con autorevole
calma “Ok, bravissimo, tranquillo, ci sono le macchine.” Kittel dopo la curva
recupera, recupera fino a vincere quasi per distacco davanti a Bouhanni,
Nizzolo, Viviani, Ferrari. La maglia rosa invece passa dalle spalle di Svein Tuft
a quelle del compagno di squadra Michael Matthews nonostante il tempo identico,
per via delle posizioni d’arrivo, e questo mi spiace, perché leggendo i
giornali questa mattina avevo appreso la curiosa storia del ciclista canadese
vincitore della prima tappa, strana specie di vagabondo delle stelle, scappato
da scuola a quindici anni in compagnia del fedele cane Bear prima a piedi e poi
in bici, con episodi alla Into the Wild
come un viaggio in Alaska dormendo per quattro giorni in una baracca disabitata,
Svein e il suo cane, che chissà come sarebbero stati etichettati questi episodi
prima del successo del film di Sean Penn, ma sì un tipo alla Jack London si
sarebbe detto, tutto sommato un perdente salvato e non sommerso, ultimo al Tour
de France dello scorso anno, e ieri a sorpresa premiato con la maglia più bella
a trentasettenne anni. Michael Matthews al contrario sembra già progettato per
vincere, campione del mondo under 23, un paio di tappe già vinte alla Vuelta.
Il nuovo leader della corsa è lui, e adesso che ci penso prima di uscire in
bicicletta con Pietro, mentre lui ancora dormiva, aspettando il Giro avevo
sbirciato un paio di interviste ai corridori rilasciate dopo la firma del
registro di partenza, e Tuft alla consueta domanda “Pensi di conservare la
maglia rosa?” aveva risposto con l’aria persa, non abituato ai clamori, che a
lui bastava esser stato felice almeno un giorno come il suo cane, e che per le
volate tipo oggi la Orica-GreenEdge aveva uno bravo come Michael Matthews,
capace di resistere al vento e alle responsabilità.