giovedì 16 aprile 2020

La Fine di Karl Ove Knausgård, segnale di vita


Quando all’inizio di marzo è uscito l’ultimo volume del Min kamp di Karl Ove Knausgård, mai avrei immaginato che la settimana seguente, mi sarei ritrovato chiuso in casa con il tempo necessario per leggerne in media cinquanta pagine al giorno, fino a giungere alla conclusione del romanzo, venticinque pomeriggi dopo. Sì, perché la Fine, sesto e ultimo volume della stupefacente battaglia autobiografica di Karl Ove Knausgård, dura 1270 pagine, che vanno ad aggiungersi alle 2845 precedenti formando così un totale di 4115, suddivise nei sei tomi: La morte del padre, Un uomo innamorato, L’isola dell’infanzia, Ballando al buio, La pioggia deve cadere, Fine. Ero scivolato nel vortice del Min kamp quasi per caso, alla fine del 2014, stregato dall’incipit del primo romanzo: “Per il cuore la vita è semplice: batte finché può. Poi smette”, e per via del titolo, che toccava un tema nei confronti del quale sono particolarmente sensibile. La morte del padre. Così, ero caduto nel vortice. Imitatore scontato dell’uomo e della donna disegnati sulla locandina arancione del film Vertigo, di Alfred Hitchcok, avevo scoperto la limpida capacità di Karl Ove di dilatare gli spazi mentali e i ricordi, facendo sprofondare il lettore in un non-tempo glaciale e intimo. Avevo imparato i periodi dell’attesa (quando sarebbe uscito il volume successivo? A che punto della lotta intrapresa con il “mostro” era, la coraggiosa traduttrice?). Divenuto da poco padre, avevo traslocato la probabile disgrazia del non possederlo in una zona nuova, abitata dal privilegio di esserlo diventato. Poi, con Un uomo innamorato, la battaglia di Knausgård era proseguita in parallelo alla mia: quando trovare il tempo di scrivere, tra il lavoro quotidiano e il mestiere di genitore? Con immensa fatica, frenando a pochi centimetri dal recinto della sconfitta, dalla voglia confortante ma vuota del rinunciare a tutto, avevo riconquistato quel tempo individuale, fatto di minuti strappati a un costante e all’apparenza invincibile rumore di sottofondo. Avevo inventato la mia sottovita, fingendo di scrivere un saggio sull’opera di Karl Ove Knausgård. Perché, lontano da ogni forma di vanità e di arrivismo, scrivere per me rappresentava una forma di preghiera, perlomeno autentica perché non razionale, non programmata per ottenere il successo, ma per esistere in modo più reale. Attraverso L’isola dell’infanzia, avevo abbandonato il bosco del ribelle di Ernst Jünger per ricongiungermi alla famiglia: cosa guardavano gli occhi dei miei bambini? Sarebbero diventati ciò che desideravano? In un villaggio di pescatori all’estremo Nord della Norvegia, avevo sperimentato di nuovo l’ebbrezza e l’insicurezza di avere diciotto anni, Ballando al buio, prima di procedere in lento e instabile equilibro tra il disperato desiderio di essere buono e il terribile potere della trasgressione, bagnato da La Pioggia che deve cadere.
Alla fine di marzo, ho letto le ultime righe del Min kamp. La famiglia Knausgård che prende il treno per Malmö, si mette in auto per tornare a casa. E durante il tragitto, Karl Ove che si gode, davvero, il pensiero di non essere più uno scrittore. E’ la Fine. Mi è venuto in mente il fratello di Marcel Proust, che considerava la frattura di una gamba come condizione ideale per poter leggere la Recherche. E poi Sandro Penna, abituato a consigliare la creazione artistica in forma breve, più adatta a questi tempi, fatti sempre di velocità. Erano le 13.57 di un’altra domenica senza poter uscire, ma inondata di sole. Allora ho chiuso il libro e mi sono staccato da questa preziosa vertigine letteraria, ringraziando Karl Ove Knausgård per avermi imbarcato sulla nave incantata della sua memoria.

Karl Ove Knausgård, Fine, Feltrinelli 2020

sabato 11 aprile 2020

Sulla follia del riaprire le librerie


Se l’aggettivo in questione non fosse abusato, potremmo definire kafkiana l’idea del Governo di prorogare le restrizioni in atto fino al 3 maggio, concedendo tuttavia alle librerie, inspiegabilmente, la possibilità di riaprire. Ma Franz Kafka è stato un grande scrittore, il contrario insomma del gruppo di autori contemporanei privilegiati e lontani dal mondo reale che, la scorsa settimana, ha promosso una petizione per riaprire le librerie, “bisognosi di conforto spirituale”, convinti che “le librerie italiane, grandi o piccole, siano facilmente gestibili da ogni punto di vista, abituate a frequentatori lenti e assorti”, insomma affamati di “pane per i loro denti spirituali”. Ah, che avrebbe detto Franz Kafka dell’espressione “denti spirituali”. Evidentemente, pensavo la scorsa settimana mentre gli ospedali lombardi erano al collasso, questi presunti scrittori non hanno un numero sufficiente di libri in casa, vivono altrove, in una bolla protetta che spesso pregiudica anche la qualità delle loro opere, ovviamente ben recensite e talvolta ottimamente vendute. E chissà cosa avrebbe detto, il buon Franz Kafka, di quel politico vanitoso, così simile al personaggio di Fonzie nella nota serie TV, che già a fine marzo aveva a sua volta e per primo chiesto la riapertura delle librerie, in quanto luoghi che “curano l’anima”. Ah, quanto sono importanti le parole.
Da martedì riapriranno le librerie. Le persone che giustamente non devono uscire di casa quindi, potranno recarsi invece in libreria, magari durante la lunga passeggiata col cane, certificazione pronta in tasca, per acquistare i volumi preferiti, mettendo così a repentaglio la salute dei librai, dei loro famigliari e più in generale della collettività. Avremo così  una massa di individui-lavoratori non essenziali che, dopo un mese di faticosa clausura violata solo per buttare l’immondizia o fare la spesa, sarà costretta a uscire e prendere mezzi pubblici, sostare 8 ore in luoghi commerciali, equipaggiata frettolosamente con mascherine e guanti, in spazi grandi e piccoli, difendendosi magari con il braccio-metro da chi, involontariamente, non rispetterà le distanze. E tutto questo per non aspettare altri quindici giorni. Mentre i morti in Lombardia sono più di 10.000. Mentre la Cina, ha dimostrato come solo restando a casa sia stato possibile uscire da questo incubo collettivo. Conosco un libraio-pendolare che, a partire dalla prossima settimana, forse dovrà prendere due metropolitane e due treni al giorno per raggiungere il “luogo di lavoro dell’anima” a Milano. Facendo pure i conti con la soppressione del servizio di alta velocità ferroviario sulla tratta Brescia-Milano. Esposto al contagio, a una forma pesante di stress psicologico e al triste timore di stare troppo vicino a moglie e i figli, una volta rientrato a casa. Tutto questo, per non aspettare quindici giorni.
Io non so i nomi di chi ha spinto il Governo verso questa folle decisione, e posso solo pregare, come molti altri librai e lavoratori non privilegiati, di avere fortuna. Non dimenticherò però, la differenza che separa gli uomini saggi da quelli irresponsabili. La dignità dall’opportunismo. Sperando, dopo aver visto carovane di defunti parcheggiate in chiese o portate altrove da camion militari, di non dover ospitare le prossime bare nelle librerie.