Monte Zoncolan – Era nei momenti
più difficili che Juan Rodolfo Wilcock riusciva a farmi sorridere o addirittura
ridere, quando ad esempio mi trovavo da solo a dover mettere insieme la
penultima cronaca dal Giro d’Italia avendo visto solo pochi minuti di tappa, in
cima al Monte Zoncolan a 1730 metri, riflettendo sul fatto che ero un
lavoratore in contratto di solidarietà che si sarebbe potuto trasformare nel
breve volgere di qualche mese in un lavoratore in cassa integrazione, con molto
tempo a disposizione quindi per scrivere ma pochi soldi a disposizione per
mangiare, in cima al Monte Zoncolan a 1730 metri, sorpreso non più di tanto nel
riscontrare comiche analogie tra la mia situazione e quella di Alfred Attendu,
il dottor Alfred Attendu che dirigeva il suo panoramico Sanatorio di Rieducazione
ossia ospizio per cretini a Haut-les-Aigues, vicino alla frontiera svizzera. Io
non ero certo direttore, anzi il mio direttore di giornale quando gli avevo
parlato di Juan Rodolfo Wilcock mi aveva detto “Ma in che squadra corre questo
ciclista? Non mi starai nuovamente parlando di uno dei tuoi scrittori
preferiti? Quante volte te lo devo dire che io non leggo libri?” Ecco il
direttore di giornale mi fregava sempre con la sua sconfortante stupidità,
peggio di un direttore di giornale che non legge libri doveva esserci solamente
un direttore di libreria che non legge libri, chi non legge libri era in ogni
caso sempre una persona pericolosa. Il dottor Alfred Attendu aveva compiuto
indisturbato i suoi studi tra il 1940 e il 1944, erano stati quelli i suoi anni
d’oro in cui aveva osservato ciò che lo circondava soprattutto tanti cretini,
ed era giunto poi al punto più alto del suo studio che aveva sintetizzato nella
sua opera più ambiziosa e di successo, Il
fastidio dell’intelligenza, del 1945. Attendu era con me sul Monte
Zoncolan, unica salvezza in una giornata di lavoro duro, per fortuna la
penultima prima delle meritate vacanze al mare, e aspettavamo insieme che
arrivassero i ciclisti in vetta a questa montagna considerata la più dura d’Europa
da salire in bicicletta, con pendenza massima del 22%. Alfred insomma mi parlava
del suo libro invece che del Giro, la condizione di cretino era per l’uomo
normale la condizione ideale, cosa stavamo ad aspettare questi pedalatori che
tanto non sarebbe arrivato vivo mai nessuno. E invece aspetta aspetta e
resuscitavano per primi Michael Rogers, Franco Pellizotti e Francesco Bongiorno
purtroppo penalizzato da uno spettatore idiota in maglia da campione del mondo
lungo il percorso che credendo di aiutarlo spingendolo, lo obbligava invece a
mettere il piede a terra perdendo fatalmente il ritmo della salita al massimo
dello sforzo. L’autorevole dottore al mio fianco vedeva confortate le sue tesi,
così ben espresse nel suo testo ormai diventato un classico, io mi limitavo ad
osservare con attenzione il pur falsato finale di corsa e i successivi calcoli
matematici che sancivano il podio del novantasettesimo Giro d’Italia: primo
classificato e maglia rosa Nairo Quintana, secondo Rigoberto Uran Uran, terzo Fabio
Aru. Quindi salutavo Alfred Attendu e tornavo esausto in albergo. Non era stata
una passeggiata seguire queste venti tappe, ma come un libro di Juan Rodolfo
Wilcock questa specie di faticosa terapia mi aveva restituito almeno una certa
forma di allegria. Se avessi voluto continuare a ridere, a migliorare la mia
salute, mi sarebbe bastato, prima di crollare dal sonno, leggere ancora una
volta e a perdifiato tutti i personaggi della Sinagoga degli iconoclasti.
sabato 31 maggio 2014
venerdì 30 maggio 2014
Il diario del Giro. Diciannovesima tappa: Bassano del Grappa-Cima Grappa (26,8 Km). Il caffè della Peppina con Quintana alla mattina
Cima Grappa – Il caffè della Peppina non si beve alla
mattina né col latte, né col tè, ma perché, perché, perché? Ero lì con
Pietro che cantavo Il caffè della Peppina,
con Pietro, Nicola e Giovanni a dire il vero, i nostri due amici immaginari, magari
ipotesi di fratelli futuri oppure no, eppure cantavamo al parco e dopo a casa,
il caffè della Peppina che metteva nella caffettiera cioccolata e marmellata, “Ma
no!” interrompeva Pietro, della Peppina che metteva nella caffettiera mezzo
chilo di cipolle e quattro o cinque caramelle, sette ali di frittelle, “Ma no!”
interrompeva Pietro, fino a quando la Peppina nella caffettiera ci metteva il
tritolo e faceva Boooom!, saltando in
aria col caffè, povera Peppina. “Oggi non te le fanno più scrivere canzoni così”,
dicevo a Pietro, “o meglio puoi anche scriverle ma non te le pubblicano, si sa
mai che il bambino s’impressioni ascoltando e leggendo la Peppina che fa Booom!” “Perché?” mi rispondeva Pietro, “Ma
perché, perché, perché?”, tagliavo corto riprendendo il ritornello. Nicola e
Giovanni invece non aggiungevano nulla, erano bambini immaginari, al massimo mi
chiedevano “Papino, quali libri belli sono usciti questa settimana?” e io soddisfacevo
la loro acerba curiosità intellettuale rispondendo “Oltre a Savio e a Gurrado
io direi Giancarlo Liviano D’Arcangelo e la sua Gloria agli eroi del mondo di sogni e poi Antoine Compagnon che
passa l’estate con Montaigne, è tornato di moda il buon vecchio Montaigne, mi
sa che sono questi i due libri che mi porto al mare”. Silenzio sul fronte
infantile. A Bassano del Grappa invece, i corridori si guardavano negli occhi “Ma
davvero ci tocca fare quella salita lì tutta da soli? Sono solamente 27
chilometri è vero, ma intensi”. E non era possibile dargli torto, l’altimetria
non lasciava spazio ad alcuna idea di scampagnata, la pendenza massima era del
14% e si partiva da metri 132 per arrivare a metri 1712, Cima Grappa, roba da
alpini o quantomeno da Grappa dell’Alpino,
dicevo a Pietro, il brutto di cronoscalare da solo è che non hai punti di
riferimento, nonostante tutte le informazioni che ti arrivano, sei solo di una
solitudine spettrale, se le cose cominciano ad andare male, non hai gregari che
ti vengono ad aiutare, tocca pedalare e sperare che finisca al più presto, se
sei colombiano e quindi cafetero
canticchiando per tirarti su Il caffè
della Peppina, che nella caffettiera mette il rosmarino e qualche
formaggino, una zampa di tacchino, una penna di pulcino, cinque sacchi di
farina e poi dice: “Che caffè!” Nairo Quintana da buon cafetero si può permettere di cantarle tutta, Il caffè della Peppina, ascende la salita della cronometro in un’ora,
cinque minuti, trentasette secondi davanti a uno splendido Fabio Aru (ormai
dicono tutti così) che c’impiega solo diciassette secondi di più. Terzo un
altro colombiano, il solito Uran Uran, che di ritardo prende un minuto e
ventisei. E la classifica generale? Quintana sempre più leader, con tre minuti
e sette secondi su Uran Uran e tre e quarantotto su uno splendido Fabio Aru.
Altro da sottolineare? Nulla, il cronista del Giro d’Italia questa sera è
stanco per i tanti scontrini battuti in libreria alla cassa numero 7, salta in
aria col caffè, Boooom!
giovedì 29 maggio 2014
Il diario del Giro. Diciottesima tappa: Belluno-Rifugio Panarotta (171 Km). Leggo, prego, pago le tasse
Rifugio di Panarotta – Oggi non sono
riuscito a vedere la tappa. Peccato, perché credo sia stata una buona tappa.
Avevo appuntamento con Gerardo, responsabile zonale del Caf, che vuol dire
centro assistenza fiscale. Insomma, dovevo ritirare il 730, questo pazzo pazzo
paese di tasse. Gerardo è un uomo gentile, si trasferirà di zona (è un
responsabile zonale come dicevo) perché l’affitto che deve pagare è troppo
elevato rispetto al numero dei clienti che ha, è un periodo che va così, non
dirlo a me, il mondo reale è questo, uno più che lavorare cosa deve fare? Ho
chiamato il direttore del giornale e gli ho detto “Guarda oggi non riesco a
vedere la tappa, ho appuntamento con il responsabile zonale del Caf”, lui mi ha
detto “E’ l’ultima volta che ti mando a fare l’inviato al Giro d’Italia”. Tra
di noi non c’è mai stato feeling, del resto lui non legge libri, un direttore
di giornale che non legge libri pensate un po’, una volta ho conosciuto anche
un direttore di libreria che non leggeva libri, e si vantava “Io non leggo
libri” mi diceva “so che tu invece oltre a leggere provi anche a scriverli,
perché?” io gli avevo risposto “Se non avessi la passione di leggere mi sarei
già sparato un colpo in testa, non so se mi spiego, leggere è la mia religione,
da ragazzo addirittura ho passato pomeriggi a spiare oltre le inferriate di certi
conventi sulle colline di Brescia, cercavo Dio suppongo, comunque spiavo dopo
aver appoggiato la bicicletta al primo muro, stavo a guardare il cortile del
convento ma tutto era fermo, le sbarre alle finestre, le tapparelle abbassate,
qualcosa non mi convinceva. Avevo scelto allora la lettura come forma unica di
preghiera”. Il direttore (della libreria) aveva smesso di ascoltarmi quando
avevo pronunciato le parole passione e religione, quindi mi aveva detto “Sai
cosa penso? Che saresti un buon cassiere”. Allora mi aveva trasformato da
libraio in cassiere, la meritocrazia avanzava e la libreria colava a picco, ma
le due faccende non erano certamente collegate, si trattava certamente della
crisi. Uscito dall’ufficio del Caf non prima di aver augurato in bocca al lupo
al gentile Gerardo, ero andato in automobile a far controllare le gomme e mi
avevano detto “Guardi, i pneumatici sono fessurati, è necessario cambiarli,
costano 340 euro”. Avevo pensato, ma che bella giornata. Eppure ero il giorno
dell’uscita del mio nuovo romanzo, come essere infelici, Il fuorigioco sta antipatico ai bambini faceva capolino sugli
scaffali delle librerie migliori, ma anche di quelle così così, si trattava poi
davvero di un romanzo? E se no, di che cosa? Secondo l’amico Gino si trattava
di undici romanzi, dal portiere all’ala sinistra, il tutto al prezzo (modico)
di un solo romanzo. Poteva aver ragione, quindi tornavo a casa da Marta e
Pietro e dicevo loro “In alto i calici! Oggi esce il mio nuovo romanzo, che poi
non è un romanzo, e ho cambiato quattro gomme per 340 euro mila lire!”
Seguivano festeggiamenti e danze, in buona sostanza erano quattro bonus mensili
di Matteo Renzi che andavano in frantumi. E il Giro? Che tappa graziosa, pur
non avendola vista. Vinceva il colombiano Arredondo, maglia azzurra di leader
della montagna, che staccava il connazionale Duarte di diciassette secondi e il
francese Deignan di trentasette. In classifica generale Nairo Quintana restava
in rosa, per niente scalfito da quei corridori che gli avevano dichiarato
guerra, non gli avevano stretto la mano prima del via a causa di un suo poco
dimostrabile comportamento poco sportivo nella tappa dello Stelvio. Perdevano
loro, vinceva Quintana che si limitava a controllare sul Passo del Pellegrino,
sul Passo del Redebus, al Rifugio Panarotta dove se ci fossi stato avrei ordinato
probabilmente pane e salamella e polenta, o patate, e una birra sicuramente
weizen. Ma invece oggi avevo appuntamento con Gerardo, responsabile zonale del
Caf.
Oggi "Il fuorigioco sta antipatico ai bambini"
Da oggi in libreria Il fuorigioco sta antipatico ai bambini.
Il
calcio, la letteratura, la vita. Tre sono i sentieri
che
s’intrecciano e si biforcano in Il fuorigioco sta
antipatico
ai bambini, racconto e autobiografia,
lettura
di undici romanzi e rilettura di undici edizioni
della
Coppa del mondo di calcio: dal 1974,
qualche
mese prima della comparsa biografica di
chi
racconta, al 2014, anno in cui, sempre chi racconta,
si
appresta a spiegare il senso del football,
e
della vita, al figlio, «infaticabile compagno di
azioni
calcistiche in corridoio».
E
così in queste pagine l’interminabile,
apparentemente
inutile ragnatela di passaggi
disegnata
sul campo di Monaco di Baviera nel
primo
minuto della finale dei Mondiali del ’74
dall’Olanda
di Johan Cruijff assomiglia al monologo,
astratto
e acronico, di una pagina di Thomas
Bernhard.
Quattro anni dopo Mario Kempes avrà
i
capelli troppo lunghi per compiacere
il presidente
Videla
in tribuna, ma non abbastanza lunghi
per
convincere Julio Cortazar a far ritorno a Buenos
Aires.
Zinedine Zidane che segna due gol di
testa
nella finale del 1998 e Albert Camus si
incontrano
nella tasca del camice bianco di
un
venditore di lavatrici in un grande centro commerciale.
Per
arrivare alla fine ai prossimi Mondiali in Brasile
con
le parole di Turgenev che raccontano di vite
infinite
capaci di riunire, a distanza di anni, i padri ai figli.
mercoledì 28 maggio 2014
Il diario del Giro. Diciassettesima tappa: Sarnonico-Vittorio Veneto (208Km). Lavoratori del Giro, tiè!
Vittorio Veneto - E’ successo
ancora. Ma sì, mi riferisco a quel direttore di giornale (ma no, non il mio
direttore di giornale) che ogni volta che pubblica un volume passa in rassegna
le librerie di Milano e acquista tutte le copie presenti in negozio per andare
al primo posto nella classifica dei più venduti. L’anno scorso aveva fatto
tutto da solo. Quest’anno invece ha mandato due servitori che hanno recuperato
tutta la giacenza, l’hanno caricata in automobile dentro scatoloni, hanno detto
al libraio di turno “Cosa vuole che le dica, il mio capo è un…”, si sono recati
alla libreria successiva dove hanno ripetuto il folle gesto. Dopo due ore si è
presentato in libreria il direttore in carne e ossa con donna al seguito che ha
chiesto “Ecco, volevo sapere se avevate il libro…” Un sistema di controllo
efficiente. Ho telefonato al mio di direttore di giornale e gli ho raccontato scherzando
la faccenda ma lui mi ha detto “Non ci trovo niente di sbagliato”. In ogni caso,
i migliori giri in Italia sono stati quelli che non hanno avuto bisogno di ceri
sotterfugi, Guido Piovene o Guido Ceronetti ad esempio viaggiavano lungo la
penisola senza sbancare le librerie nazionali delle loro opere, cambiano i
tempi, passano gli anni e i topi per le fogne. Einaudi ha ristampato in questi
giorni l’occhio spietato di Ceronetti sull’Italia di oggi (1981-1983), ma
francamente alla nuova copertina gialla preferisco la prima edizione che ho
trovato qualche mese fa per caso appena fuori dalla stazione ferroviaria di
Genova Brignole, la bancarella è quella sotto i portici di fronte al negozio di
giocattoli. Ma cosa facevo a Genova? Gustavo i cannoncini di Panarello, anelavo
ad una vita almeno parziale in compagnia del mare, e poi non ricordo più. L’altro
Giro d’Italia prevedeva invece in data odierna l’ultima occasione per i
velocisti sopravvissuti, da Sarnonico a Vittorio Veneto, tappa di recupero energie
che vedeva sul traguardo addirittura due vincitori: il primo che per reagire
alle critiche ricevute in cinque anni di carriera da professionista faceva un
plateale e rabbioso gesto dell’ombrello, il secondo che pensando di essere
primo e non sesto staccato di ventotto secondi dal quinto e ultimo del gruppo
in fuga alzava le braccia in maniera più classica ancorché scatenata, ma che
purtroppo non vinceva un bel niente. Si trattava dell’italiano Stefano Pirazzi e
del finlandese Jussi Weikkanen. Poco male, le vittorie sono quelle che hai nel
cuore, diceva qualcuno di saggio. Gli storici del Giro e delle coincidenze
comunque sfogliavano gli almanacchi e si scopriva che per ritrovare un gesto
dell’ombrello alla corsa rosa bisognava andare dietro dieci anni fino al
medesimo movimento ad angolo retto compiuto da Tonkov in una tappa con arrivo
Sarnonico, partenza di oggi. Insomma, era successo ancora. Mi bastava così. Ignaro
di certe forme di pur umana maleducazione Quintana restava in rosa davanti a
Uran Uran, Evans, Rolland e Majka. Scrivevo una breve lista di persone alle
quali avrei fatto volentieri il gesto dell’ombrello, chiudevo il mio blocchetto
di cronista quasi quarantenne e mi preparavo alle prossime tre tappe
mortalmente montane prima della classica passerella finale stavolta triestina e
non milanese.
martedì 27 maggio 2014
Il diario del Giro. Sedicesima tappa: Ponte di Legno-Val Martello/Martelltal (139 Km). Parrucchiera e filosofia
Val Martello/Martelltal – Capita
sempre così, entro dalla mia parrucchiera che sono Andrea Pirlo ed esco fuori
che sono Massimo Cacciari. Da calciatore e filosofo in circa venticinque
minuti. Invecchio rapidamente ed acquisto saggezza, non tecnico-tattica ma in
attività di pensiero per lo più sistematica, vado dall’edicolante e dico
“Buongiorno, vorrei il quotidiano per favore”, la gentile signora chiusa fra i
giornali appare emozionata, ha di fronte a sé Massimo Cacciari, che solo poco
prima era Andrea Pirlo. Sfoglio velocemente, il partito sostenuto dal
quotidiano ha raggiunto il 40,8% di preferenze alle elezioni europee, si
respira euforia tra i caratteri, una nota critica letteraria si sforza di
recensire l’ultimo romanzo del famoso e ricco giovane scrittore che non avendo
problemi di vile pecunia si occupa della sua tata, una tematica avvincente e
regolata scientificamente, girano senza dire nulla le parole della nota critica
letteraria, l’importante è raggiungere il numero di righe richieste senza dire
fondamentale nulla, che il romanzo è brutto e scolasticamente noioso ad
esempio, l’importante è non sbilanciarsi mai per mantenere buoni rapporti con
tutti, potrebbero sempre tornare utili prima o poi. Per dimenticare in fretta
passo a prendere in automobile la mia famiglia e andiamo da Lanzani, bottega e bistrot dove il
bresciano può gustare aperitivi e specialità gastronomiche di alto livello, è
il caso di festeggiare cari miei Marta e Pietro, ero Andrea Pirlo e adesso sono
Massimo Cacciari, ho governato Venezia e pubblico con Adelphi, tempo di sederci
e al tavolo di fianco al nostro arriva il capitano del Brescia Calcio “Piacere,
Marco Zambelli”, “Piacere, Massimo Cacciari, ma se solo ci fossimo incontrati
questa mattina, credo avresti preferito”. Per romantica deduzione brindiamo
alla nostra salute con un pirlo (vino bianco frizzante, campari, seltz), Pietro
con un succo alla pera, mi rendo conto che il tempo è volato, oggi è la
giornata della grande tappa e sono seduto da Lanzani a filosofare di calcio e cultura, se lo scopre il direttore
del giornale questa volta mi ammazza, saluto rapidamente e corro in automobile
verso casa, ansia da tappone come scrive E.C. sul quotidiano, francamente no,
ma Passo Gavia, Stelvio, val Martello sì, ci sarà da divertirsi (non essendo
ciclista), sperando che non piova, e invece piove, le condizioni atmosferiche
sono proibitive, Nairo Quintana attacca sulla discesa dello Stelvio e non lo
prende più nessuno, i telecronisti parlano dei calciatori che si buttano per
terra dopo aver subito un buffetto, mentre i ciclisti salgono e scendono eroici
avvolti da pioggia e nevischio. La verità è che il calcio è un gioco, il
ciclismo uno sport, dicono i telecronisti con un certo rancore. Andiamo avanti,
Quintana attacca e non lo prende più nessuno, davanti a sé ha ancora la terribile
ascesa ventosa fino a Martelltal che arriva, è doveroso ricordarlo, dopo che i
corridori hanno già affrontato Gavia e Stelvio, 2618 e 2758 metri di altitudine.
Quintana va, l’avevo detto ieri che era il mio favorito, appena in tempo, il
mio buon nome d’inviato è conservato. Qualcuno mi rinfaccia di aver
pronosticato Cadel Evans solo una settimana fa, anche in virtù di una presunta
simpatia generazionale. Nego fermamente. L’unico che tiene il passo del
colombiano che vincerà il novantasettesimo Giro d’Italia è il canadese Hesjedal
che taglia il traguardo solamente otto secondi dopo la nuova maglia rosa,
quindi giunge il sempre battagliero Rolland a un minuto e tredici, via via gli
altri. La classifica generale vede Quintana nuovo leader, a un minuto e
quarantuno Uran Uran che viene da Urrao, a tre e ventuno Cadel Evans. Domani
ultima occasione per i velocisti, se sopravvissuti. Un saluto dal vostro
inviato ciclo-filosofico, Massimo Cacciari.
domenica 25 maggio 2014
Il diario del Giro. Quindicesima tappa: Valdengo-Plan di Montecampione. Dormi nell’ombra, incerto cuore
Plan di Montecampione – Buona domenica, Guardia Medica. Mi sono tolto gli occhiali da sole ma sotto non avevo niente,
sopra invece gli alberi di Bande Nere m’indicavano la strada verso la
continuità assistenziale, Bande Nere per chi non fosse di Milano è la fermata
della metropolitana linea rossa dove si trova il distretto 5 dell’Asl Regione
Lombardia, di riferimento per chi abita nella zona 6-7, spero di essere stato
sufficientemente chiaro. Sotto gli occhiali non avevo niente, ma sopra il verde
degli alberi mi dirigeva lungo i viali giusti, questa sede dell’Asl non ha
nulla da invidiare all’ambientazione ipotetica di un romanzo che abbia come
protagonista un malato, pensavo, si respira una certa e considerevole
tranquillità cromatica a dispetto delle previsioni, al distretto numero 5. Il
medico mi aspettava sulla soglia, erano le nove di mattina circa, mi ha detto “Cerca
il medico?” io che non avevo capito lui fosse il medico gli ho detto “Cerco il
medico”, lui mi ha detto “Sono io il medico”, io gli ho risposto “Allora buona
domenica, Guardia Medica”. Mi sono tolto gli occhiali (sotto non c’era niente),
mi ha controllato gli occhi, la gola e il respiro, respirare con la bocca
aperta, poi sdraiato sul lettino. “Lei è malato e deve riposare”, mi ha detto.
Io ho pensato alla quindicesima tappa del Giro d’Italia, come avrei fatto a non
guardarla. Del resto non ci vedevo, ma era un particolare. Ho salutato il
gentile dottore, invidiando la pace della sua ambientazione lavorativa che pure
percepivo essere per lui nel lungo periodo noiosa, e potevo comprendere anche
questo. Mi sono diretto verso casa lentamente a piedi, ero malato ma mi sarebbe
passata, non si trattava di nulla di grave. Qualcuno andava a votare, qualcuno
no, si recava in pasticceria, portava i figli nel passeggino, in bicicletta,
per mano camminando. Dopo pranzo mi sono tornati gli occhi per spiare almeno la
salita di Montecampione, da 200 a 1665 metri in una ventina di chilometri: i
capitani delle squadre abbandonati chi più chi meno dai loro gregari si
trovavano quasi da soli a sfidarsi e controllarsi, come in un Giro d’Italia
organizzato apposta per loro che entusiasma la folla ai bordi delle strade, me
stesso con gli occhiali da sole davanti alla televisione che a volte li toglievo,
per capirci qualcosa. Lo scatto vincente era quello del piccolo e sardo Fabio Aru
che si lasciava alle spalle maglia rosa, francesi e colombiani, omaggiando con
la sua ascensione a strappi e la sua esultanza rabbiosa sul traguardo questa
ulteriore tappa dedicata a Marco Pantani. Dietro di lui Duarte, Quintana e
Rolland. Nella classifica generale Uran Uran pur in sofferenza manteneva un
minuto di vantaggio su Evans, uno e cinquanta su Majka, due e venticinque su
Aru e Quintana. Uno di questi cinque corridori vincerà il novantasettesimo Giro
d’Italia, io dico Quintana, pur consapevole di aver detto Evans solo qualche
giorno fa, ma tanto chi va a controllare. Mi sono tolto gli occhiali da sole
per andare a dormire, arrivavano inquietanti segnali sul futuro dei lavoratori
Feltrinelli: rinnovo e aumento delle ore di solidarietà, ipotesi cassa
integrazione guardando più in là. Pensavo a chi ci aveva ridotto così, al Giro che
domani non ci sarebbe stato. Meglio andare a dormire, riposare gli occhi che
prima o poi questa assurda malattia del non vedere sarebbe passata, dormire il
giusto per risvegliarsi senza questo mal di testa. Non avrebbe funzionato. Aver
ragione, vincere, possedere l’amore, marcisce sul morto tronco dell’illusione. Sognare
è niente e non sapere è vano. Dormi nell’ombra, incerto cuore.
sabato 24 maggio 2014
Il diario del Giro. Quattordicesima tappa: Agliè-Oropa. Salvatore Satta con gli occhiali da sole
Oropa - Mi sono svegliato ad
Agliè con gli occhiali da sole, e ho camminato lungo i corridoi dell’albergo
per far finta di non essere malato. Ma come, giusto ieri avevo scritto del Giro
come malattia o come disoccupazione, dichiarando di preferire la disoccupazione
alla malattia, e questa mattina mi sono svegliato malato, non ancora
disoccupato. Non riuscire ad aprire gli occhi è una cattiva condizione se hai
come compito quello di guardare la tappa, così nell’albergo di Agliè camminavo
lungo i corridoi per far finta di non essere malato, ma non vedevo niente,
sotto gli occhiali lacrimavo e non era per via del ricordo di Marco Pantani,
del suo attacco dopo il salto della catena nel 1999. Ogni volta che sono malato
penso alla Veranda di Salvatore
Satta, romanzo considerato negli anni trenta improponibile al troppo delicato,
al troppo sensibile, al troppo spaurito pubblico italiano e riapparso
accidentalmente nel 1981 quando gli italiani sono cambiati, hanno imparato a
guardare con attenzione anche le inchieste di Giuseppe Marrazzo, ad esempio. La
“veranda”a cui accenna il titolo è quella di un sanatorio per tubercolosi nell’Italia
settentrionale, dov’è ospite il protagonista, e mi metto a cercarla anche in
questo albergo di Agliè, ma niente da fare. Bevo un cappuccino, mangio una
brioche alla marmellata, sarà dura arrivare in fondo alla tappa di oggi se non
smetto di lacrimare, con gli occhiali da sole va meglio ma devo tenerli anche
al chiuso, fuori il sole splende e scalda, esco a prendere il giornale e
ritrovo scritto, nelle pagine sportive, ciò che avevo spedito in redazione in
giorno prima. Il direttore non si fa più sentire, non mi dispiace, questo Giro
d’Italia potrebbe essere l’ultimo incarico che mi affida, cambierò giornale.
Nel pomeriggio mi addormento dopo la discesa sulla Panoramica Zegna, il bello
del Giro d’Italia è lasciarsi addormentare e svegliarsi appena in tempo per l’arrivo,
oppure addirittura dopo, sentendo arrivare da lontano i commenti dei
telecronisti, le interviste ai corridori. Pare sia stato un bel finale di tappa,
con tre corridori che scattano a vicenda sembrando a turno il potenziale
vincitore: prima il colombiano Pantano, che sarebbe stato senza dubbio il miglior
omaggio linguistico al Pirata di Cesenatico nella seconda delle frazioni che
gli rendono omaggio a dieci anni dalla morte, poi Cataldo, alla fine Enrico
Battaglin che pur non essendo parente di Giovanni Battaglin nonostante sia nato
nella medesimo comune, con un numero d’alta scuola recupera quando sembrava
spacciato e taglia il traguardo di Oropa con le braccia al cielo. Mi sveglio e
dicono tutto questo, rimetto immediatamente gli occhiali da sole, ascolto senza
guardare una parte del processo che sottolinea la probabile debolezza della
maglia rosa Uran Uran, la quasi completa guarigione (beato lui) di Quintana che
resta attaccato a Pozzovivo capace di spaventarlo ma non di staccarlo, l’enigmatica
tranquillità da ragioniere del polacco Rafal Majka, l’esserci sempre e comunque
di Cadel Evans. Deve essere bello essere baciati contemporaneamente da due Miss.
Sarà un’ultima settimana rosa da seguire, se possibile senza addormentarsi. Mi
alzo in piedi e torno in veranda. Si estende lungo tutta la facciata del
sanatorio. Qui non ci chiamiamo neppure per nome, ma con quello delle
rispettive città, come commilitoni della morte. Ma su con la vita, domani
Valdengo-Plan di Montecampione, arrivo in salita a 1665 metri, pendenza media
dell’8% e massima del 12. Farò in modo di togliere gli occhiali da sole.
venerdì 23 maggio 2014
Il diario del Giro. Tredicesima tappa: Fossano-Rivarolo Canavese (157 Km). Meringhe, materassi e Marcel Proust
Rivarolo Canavese - Oggi sono
riuscito a vedere la tappa. Lo so, questo sorprenderà i miei detrattori, ma
oggi sono riuscito a vedere la tappa. Una parte della tappa. Non una tappa
indimenticabile. Diciamo una frazione predisposta a smaltire la fatica fisica,
nervosa e vinicola della cronometro di ieri e funzionale a preparare i
corridori all’arrivo in salita di domani a Oropa, secondo omaggio di questo
Giro d’Italia numero novantasette alla sacra figura di Marco Pantani. Comunque
parliamoci chiaro, per vedere tutte le tappe bisogna essere malati o
disoccupati. Fra le due opzioni la seconda è preferibile alla prima, se dopo il
periodo di disoccupazione subentra un nuovo impiego o comunque una rendita che
permette al fu non occupato di mantenere se stesso e famiglia. Essere
disoccupati per un periodo limitato è probabilmente la condizione ideale. Si
può progettare di scomparire, rendersi conto della propria inutilità eppur così
fondamentale, andare in montagna o al mare o starsene a casa e magari buttare
giù quel romanzo che gira nella testa da un po’. Invece il Giro d’Italia
formato malattia preferirei evitarlo, ho già dato abbastanza fra i sei e gli
otto anni quando guardavo la corsa con mio padre che non stava bene e
aspettavamo, come oggi, gli ultimi chilometri di una tappa pianeggiante per
scoprire se ai fuggitivi sarebbero bastati i minuti o i secondi di vantaggio accumulati
sul gruppo. Un Giro come malattia, in tuta o in pigiama, come la Ricerca del tempo perduto che per
riuscire a leggerla, secondo il fratello di Marcel Proust, era obbligatorio
rompersi una gamba, o appunto trascorrere un lungo periodo di degenza in
ospedale. Ecco ho visto la tappa, gli ultimi trenta chilometri della tappa. Ma
sinceramente non è stata una tappa indimenticabile. Ho chiamato il direttore
del giornale per comunicargli che stavo seguendo la tappa, visto che non perde
occasione per ricordarmi che se mi ha inviato al Giro è per ricevere alla sera
una cronaca della corsa dettagliata adatta al nostro lettore tipo. Ne ho
approfittato per chiedergli se domani dopo la salita di Oropa posso prendere
l’aereo e andare a Lisbona per seguire da vicino la finale di Champions League
tra Real Madrid e Atletico Madrid. Come figlio di materassaio e superbo
materassaio mancato non posso che tifare per la squadra di Simeone.
Parcheggiamo il pullman davanti alla porta e stiamo a vedere: maledette
Merengues non passerete! Che a dire il vero trovo le meringhe adorabili. Con
panna montata, con cioccolato. Ma le meringhe intese come Real Madrid lasciano
il tempo che trovano. I materassi invece. Il direttore del giornale ha detto
che per Lisbona me lo posso scordare, è troppo tardi. E poi se domenica alle
dieci del mattino devo essere in libreria per lavorare otto ore la vede
difficile. Così, ho finito di seguire la tappa Fossano-Rivarolo Canavese che
tuttavia non è stata una tappa indimenticabile. Anche i ciclisti sembravano pensare
ad altro, alla frazione di domani. Sembravano avere in mente Marco Pantani che
nel 1999, in maglia rosa, è costretto a fermarsi a dieci chilometri dall’arrivo
al Santuario a causa del salto della catena. Marco che riesce a recuperare, da
solo, sugli avversari fino a vincere la tappa addirittura per distacco. Questa
digressione abbiamo deciso di metterla oggi così anticipiamo tutta la
concorrenza che penserà a un ricordo di Pantani negli articoli di domani sera. Comunque
non è stata una tappa indimenticabile. Tutti a credere che il gruppo prima o
poi avrebbe risucchiato nel suo avanzare ferroviario i fuggitivi (prima sei,
poi tre) ma poi niente di tutto questo. I vagoni del treno a pedali non si
decidevano, chi per paura di perdere ancora contro Bouhanni, chi per noia o
sazietà di aver già trionfato tre volte (sempre Bouhanni). Andava a finire che
i tre corridori rimasti soli senza quasi nemmeno esserne convinti si
ritrovavano a sprintare e vinceva l’italiano Marco Canola davanti a Rodriguez e
Tulik. Bouhanni per ripicca vinceva la volata del gruppo precedendo come da
tradizione Nizzolo e Viviani. La maglia rosa restava sulle spalle di Uran Uran
da Urrao. Non una tappa indimenticabile, ma almeno questa volta l’ho vista.
giovedì 22 maggio 2014
Il diario del Giro. Dodicesima tappa: Barbaresco-Barolo (41,9 Km). Beppe Fenoglio non è Uran Uran, che viene da Urrao
Barolo – Dormivo così bene che mi
sono svegliato alle due e quarantacinque del mattino con un ricordo non nuovo
nella testa. Quando da ragazzo ogni giorno libero disponibile partivo da
Brescia e solitario mi recavo in una città della penisola più o meno lontana
con l’idea di sprofondare in un’altra vita, senza le solite abitudini,
innamorandomi di certe ragazze incontrate per strada, a Piacenza, a Bologna, a
Firenze, sposandole addirittura in alcuni circostanze ma solo fino al termine
del giorno quando ero costretto a comunicare alle novelle mogli che il giorno
dopo purtroppo sarei dovuto partire da solo per Torino, Roma o Napoli. Una
specie di acerbo e furbo Giro d’Italia pensavo alle due e quarantacinque del
mattino, anche se in seguito mai mi sarei perdonato di non aver esteso queste
tappe all’estero per periodi più lunghi di una settimana, potendomi così
innamorare di nuove ragazze anche a Valencia, a Lisbona o a Berlino. In ogni
caso sarà colpa di questi alberghi, di questi alberghi e di questi letti che
cambiano ogni giorno, la dura vita notturna di noi inviati al Giro d’Italia, a
volte mi piacerebbe semplicemente alzarmi sempre nello stesso letto, sempre
nella stessa casa e andare a timbrare il cartellino in libreria, quando ancora
mi veniva permesso di fare il libraio. Invece eccomi qui tra Barbaresco e
Barolo, il direttore del giornale oggi mi ha consigliato di evitare paralleli
tra vini e ciclismo perché lo faranno tutti, meglio sarebbe immaginare i
corridori ubriachi e soli nella cronometro individuale, isolati a smaltire la
sbornia pesante avvolti dai loro problemi esistenziali, senza gregari a
consolare le loro incertezze, mi conviene partire subito a tutta o gestire per
non arrivare spremuto al traguardo di Barolo? Da Barbaresco a Barolo passiamo
anche per Alba, 168 metri di altitudine, Alba
la presero in duemila, il dieci ottobre, e la persero in duecento, il due
novembre, dell’anno 1944. Pochi dischi mi sono rimasti impressi nella
memoria come il concerto in onore e a memoria di Beppe Fenoglio del Consorzio
Suonatori Indipendenti, registrato ad Alba alla chiesa di San Domenico, il 5
ottobre 1996. Anche la disperazione
impone dei doveri, e l’infelicità può essere preziosa. Per questo i
ciclisti nella cronometro individuale passano leggeri e ubriachi lungo la
strada di Alba, almeno nelle mie intenzioni, e si fermano a fare il
rifornimento alla chiesa di San Domenico, pur consapevoli di danneggiare
sensibilmente la loro prestazione in termini di minutaggio, di poter magari mandare
all’aria l’intero Giro per fermarsi a leggere qualche frase di Beppe Fenoglio.
Ma Primavera di bellezza o La Malora? I ventitré giorni della città di Alba o Il Partigiano Johnny? Chiedetelo a Cadel Evans, non vi risponderà.
Impegnato nella crono-enologica sbaglia tutto, sia le salite che le discese,
perdendo lucidità anche dal punto di vista psicologico. L’ubriaco del giorno è
lui, che perde la maglia rosa canticchiando dopo il traguardo Occorre essere attenti per essere padroni di
se stessi occorre essere attenti. Meno poetici e più razionali risultano Ulissi
e Uran Uran, il colombiano peraltro nato a Urrao. Da non credere. Mi chiamo
Uran Uran e vengo da Urrao. Serioso e meccanico nel suo completino nero si
prende tappa e maglia rifilando un minuto e sedici a Ulissi e un minuto e
trentaquattro a Evans che comunque non si scompone, Non temere il proprio tempo è un problema di spazio. E la
classifica generale? Buona domanda. Allora Uran Uran, Evans a trentasette
secondi, Majka a uno e cinquantadue. Uran Uran insomma, Urrao.
mercoledì 21 maggio 2014
Il diario del Giro. Undicesima tappa: Collecchio-Savona (249 Km). I fratelli Dardenne non vinceranno il novantasettesimo Giro d’Italia
Savona – Discutevo animatamente
con il direttore del giornale su questioni che non riguardavano nello specifico
la tappa di oggi, Collecchio-Savona di 249 chilometri, ma più in generale il
nostro rapporto sofferto, e in particolare la mia difficoltà ad accettare che
lui non perdesse occasione per vantarsi di non leggere libri. “Ma lo capisci
che la faccenda non sta in piedi? Dirigi un giornale importante e non leggi mai
un libro, anzi ti vanti di non leggere libri, ma ti pare una cosa normale?” Lui
mi rispondeva di stare al mio posto, che il capo comunque aveva sempre ragione,
e poi che non era vero che non leggeva nessun libro, cioè adesso forse sì, ma
in passato aveva letto ad esempio Il
gabbiano di Jonathan Livingston che restava in assoluto il suo romanzo
prediletto. Avrei preferito di no. Allora mi era venuto in mente Paolo Nori,
Paolo Nori che dentro Mo mama
parlando del sindaco di Parma Federico Pizzarotti era rimasto scosso
nell’apprendere che il libro prediletto dal primo cittadino grillino fosse
proprio Il gabbiano. Ma come? Il gabbiano può essere il libro
preferito di un quattordicenne, ma di un quarantenne allora c’è qualcosa che
non va. Hai capito direttore? Tu peraltro di anni ne hai quarantacinque, cinque
in più di Pizzarotti, la mia preoccupazione aumenta, il tempo stringe. Lo so,
questa digressione sarebbe stata perfetta per una tappa con partenza oppure
arrivo a Parma, ma che vuoi farci oggi il Giro parte da Collecchio e arriva a
Savona, a proposito sto cercando anche qualcuno che presenti il mio romanzo e
quello di Antonio Gurrado a Genova nel mese di giugno, ti viene in mente
qualche nome? E a voi, amati lettori? Il problema di avere un direttore di
giornale che non legge libri è che quando ha scoperto che spesso non riesco a
guardare la tappa nonostante sia scrittore inviato al Giro e nel mio diario
rosa parlo d’altro, ha perso le staffe e mi ha spedito a fare le cronache
finanziare. Non ci capisco niente e per ripicca quindi parlo di ciclismo. Oppure
di cinema. A Concita De Gregorio invidio un poco lo stipendio ma soprattutto
l’essere inviata al festival di Cannes. Stai a vedere che io che non conosco
invidie, invidio bonariamente solo chi è inviato, pagato per viaggiare e
raccontare. Il nuovo film dei fratelli Dardenne, probabilmente splendido, parla
dell’orrendo mondo del lavoro odierno. “Allora, volete voi che Sandra resti al
lavoro o preferite eliminarla ed avere ciascuno un bonus da mille euro?” Un
referendum fra i dipendenti. Marion Cotillard è decisamente bella, francese
sintesi di grazia. Certo una protagonista brutta avrebbe reso meno. Secondo Repubblica, Marion “è veramente carina.
La star del cinema francese indossa un abito scultura incrostato di bottoni
stile che felicità indossare una merceria”.
Esiste qualcuno retribuito per scrivere cose così, per dire. Il direttore del
mio giornale invece sbuffa quando gli parlo dei fratelli Dardenne. “Quante
volte te lo devo dire Savio? Il Giro quest’anno non verrà certamente vinto da
un corridore belga”. Di passaggio a Genova i corridori hanno visto sfrecciare
immobili alla loro sinistra diversi gruppi di lavoratori in difficoltà muniti
di striscioni, fischietti e fumogeni. Sembrava la situazione ideale per una
vittoria in coppia dei cineasti già autori di Rosetta, ma qualcosa non ha funzionato. Dopo una prima fuga di
quattordici ciclisti e una caduta che ha coinvolto pure Diego Ulissi, il trionfo
di tappa è andato a Michael Rogers, scampato a inizio stagione a una squalifica
per doping in virtù dell’aver mangiato carne cinese invece che spagnola. Vi
giuro che è così. Per quanto mi riguarda invece adesso torno in albergo e
aspetto in stato di gioiosa ebbrezza la cronometro individuale di domani, da
Barbaresco a Barolo, 42 chilometri e quattro stelle su cinque di difficoltà, già
ammirevolmente soprannominata la “cronometro dei vini”. Del resto ieri in
Franciacorta dove vivono i miei suoceri ho scoperto che aggiungendo al Campari
la giusta dose di Müller
Thurgau si ottiene un pirlo quasi perfetto e di natura altoatesina
invece che bresciana. Ma cos’è il pirlo? E cosa c’entra con Barbaresco e
Barolo? E con la Franciacorta? E tutto questo con lo svolgimento del
novantasettesimo Giro d’Italia? Lo so caro direttore, niente.
martedì 20 maggio 2014
Il diario del Giro. Decima tappa: Modena-Salsomaggiore (173 Km). Cercando altri esseri umani in direzione opposta
Salsomaggiore - Neanche oggi sono riuscito a
vedere la tappa. Finito il turno in libreria ho preso l’automobile e sono
partito in direzione Brescia con un libro di Thomas Bernhard sul sedile del
passeggero, meglio che fare il viaggio completamente da solo. Era in programma
la Modena-Salsomaggiore a dire il vero, ma io viaggiavo sull’A4 in automobile
non in direzione di Modena, e nemmeno di Salsomaggiore, tanto era una frazione
estremamente pianeggiante mi dicevo, 173 chilometri con un’altitudine massima
di 168 metri, figuriamoci, il direttore del giornale sarà in grado di
comprendere la mia decisione di non scrivere la cronaca e di procedere verso
Brescia pensavo, nessun arrivo del Giro in programma nella mia città di nascita
ma solamente il figlioletto che mi aspetta al grido di “Papino!” In ogni caso
avanzavo lungo l’autostrada in compagnia di Thomas Bernhard e della sua Cantina. Una volta liberato dal giogo
del ginnasio catto-nazista, lo scrittore austriaco aveva pensato di andare a
cercare gli altri esseri umani in
direzione opposta, nel quartiere di Scherzauserfeld, alta scuola dei
reietti e dei poveri. Al mattino, mentre battevo a ripetizione e misteriosamente
scontrini alla cassa numero 7 mi ero scoperto a tifare abbastanza
spudoratamente per Cadel Evans, sarà per il nostro essere quasi coetanei,
dovendo ammettere a me stesso di essere giunto a quel tipo di non giovinezza in
cui si comincia a parteggiare per certi atleti non più di primo pelo che grazie
alle loro prestazioni confortano se stessi e i loro simili, nello specifico
anche il sottoscritto trentanovenne. E pure E.C. su Repubblica mi veniva incontro, riprendendo le parole di Evans che
invitava i giovani corridori ad attaccarlo, e lasciando trasparire una certa
predilezione giornalistica per la maglia rosa australiana, ovviamente anche
perché mai coinvolta in tredici anni di onorata carriera in alcun caso di vero
o presunto doping. Poi ero tornato indietro rispetto alle pagine sportive e
avevo letto di minacce e insulti tra politici, del nostro temibile bisogno di
vendetta, del Papa che spronava a non cedere al catastrofismo, ad essere
semplice nello stile di vita, distaccato, povero e misericordioso. L’ambizione
genera correnti e settarismi, mi diceva Francesco, e vuoto è il cielo di chi è
ossessionato da se stesso. Ben detto, ma nel mondo reale io mi trovavo già in
contratto di solidarietà, già mi ritenevo relativamente povero e misericordioso,
con la concreta possibilità di essere nel futuro sempre più povero e sempre più
misericordioso. E allora superata la curva di Bergamo ho aspettato il primo
autogrill disponibile per guardarmi in santa pace almeno la volata, vinta
nuovamente dal pugilatore Bouhanni (terzo successo al Giro) davanti all’italiano
Nizzolo (terzo secondo posto al Giro). Poi ho evitato il processo alla tappa, consapevole
che mai mi sarei imbattuto in Pier Paolo Pasolini in bianco e nero che
dialogava con i corridori all’inizio degli anni settanta del Novecento, ho
fatto rapidamente benzina e sono ripartito in direzione opposta fino a
raggiungere moglie e figlio per l’occasione malati del più consueto e
raffreddato fastidio stagionale. A Brescia i cicloamatori mi hanno accolto come
da tradizione uscendo reattivi dai garage dopo la conclusione della tappa.
Hanno l’abitudine di vestirsi in modo impeccabile i ciclisti bresciani, come
corridori professionisti che pedalano in gruppetti distinti dai completi delle
squadre più in voga del momento. Non mancano maglie rosa e della Lampre,
diversi campioni del mondo e qualche maglia gialla. A Milano non capita questa
cosa. I ciclisti escono dai portoni delle loro abitazioni ma spesso senza
bicicletta da corsa e senza essere professionisti. Finirebbero probabilmente impigliati
nelle rotaie del tram. L’essenziale a mio avviso è voler andare non soltanto in
una direzione diversa, ma in una direzione opposta. Un compromesso non è più
possibile.
domenica 18 maggio 2014
Il diario del Giro. Nona tappa: Lugo-Sestola (174 Km). Malacarne non è Malaparte, a volte i nomi dei ciclisti sembrano davvero inventati
Sestola - Oggi avevo pensato di non
scrivere la cronaca della tappa e di farla domani quando il Giro riposa, tanto
chi se ne accorge, del resto non sono nemmeno riuscito a vedere la corsa,
Lugo-Sestola di 174 Km, perché ho passato la domenica da solo con il buon
Pietro, diciamo dalle nove e trenta del mattino alle ventuno della sera. Ma poi
mi sono detto: e la mia credibilità d’inviato che fine fa? E se qualcuno va a
spifferare tutto al direttore del giornale? Quello si fida dei meno
intelligenti, degli scodinzolatori bugiardi e con poco talento che per
compensare l’assenza del medesimo vanno a riferirgli cose false o comunque non
determinanti, fatto sta che mi ero preparato tutto, avevo pensato domani quando
torno dal lavoro scrivo sul diario che questa volta avevo calcolato ogni cosa
per riuscire a vedere la tappa, ma che poi acceso il teleschermo avevo scoperto
che il Giro d’Italia riposava, il lunedì. Un buon inizio pensavo, non riesco
mai a vedere nulla e quando mi organizzo per guardare qualcosa non trasmettono
niente. Tanto la maggioranza aveva certamente già letto i quotidiani, spiato la
televisione, insomma appreso della vittoria in volata a 1538 metri di
altitudine dell’olandese Weening davanti al compagno di fuga Malacarne, e del
buon terzo posto di Pozzovivo capace anche di recuperare trenta secondi in
classifica dove adesso si trova quarto dietro a Majkan, Uran Uran e Cadel
Evans. A volte i nomi dei ciclisti sembrano davvero inventati bisogna dirlo.
Invece alle ventuno e quarantasette dopo aver scritto ad Antonio “Sai che
faccio? La cronaca della tappa di oggi io la scrivo domani, sai chi se ne
accorge” ho abbassato il volume del televisore che trasmetteva malinconico ciò
che restava dell’ultima giornata di Serie A, conclusa seriamente nel pomeriggio
con il raggiungimento dei 102 punti in classifica da parte della Juventus, e ho
accesso il computer, sono andato a vedere com’era andata la tappa del Giro di
oggi, ho scritto al direttore del giornale per dirgli “Qui a Sestola tutto
bene, ha vinto l’olandese Weening davanti a Malacarne”. Lui mi ha risposto “Ancora
con questi scrittori? Curzio Malaparte me lo ricordo pure io, guarda che non
sono stupido come credi…” Io gli ho detto “Guarda che ho detto Malacarne, non
era mia intenzione stavolta citare Malaparte”, lui mi ha detto “In ogni caso
stai attento, se mi gira ti mando a fare le cronache finanziarie”, io gli ho
detto “Stai tranquillo che fra trent’anni siamo tutti in una cassa di legno,
arrivederci”. Così, così ho dimenticato di dire che questa mattina alle otto,
quando mi sono svegliato, prima che Marta si alzasse per andare a lavorare di
domenica giorno del nostro, santo Gesù, sono scappato di casa per comprare e
leggere velocemente due giornali, il prima rosa il secondo con in prima pagina
la fotografia di una tettona avvolta in un bel vestito fucsia sul tappeto del
Festival di Cannes che mostrava un cartello con una scritta per chiedere la
liberazione delle nigeriane rapite. “#BRING BACK OUR GIRLS”. Ma soprattutto, a
sinistra della tettona, il consueto lenzuolo domenicale dell’anziano
giornalista che invitata i suoi poveri lettori a votare per Renzi e per Schulz,
il 25 maggio, ma più che un invito era un obbligo giacché l’anziano giornalista
scriveva “Il 25 maggio bisogna votare per Renzi e per Schulz”. Ho pensato alla
fortuna che avevo, non aver mai letto in trentanove anni di vita un articolo
dell’anziano giornalista per intero, poter tornare a casa e trovare mia moglie
e mio figlio svegli, pronta lei per andare al lavoro, lui per giocare una
decina di ore col papino. E domani? Il Giro riposa, io la cronaca della nona
tappa alla fine l’ho scritta, quindi mi sa che dopo il lavoro faccio una bella
e stancante passeggiata lungo la mia città verticale.
sabato 17 maggio 2014
Il diario del Giro. Ottava tappa: Foligno-Montecopiolo (179 Km). Secondo qualcuno Bukowski, secondo qualcuno Pantani
Montecopiolo - Secondo qualcuno il Giro
cominciava oggi, secondo altri il Giro tanto è morto da quando hanno fatto
fuori Pantani. Secondo Matteo Renzi chi vota Pd non vota Cgil, secondo Repubblica Biagio Antonacci si è
riscoperto contadino, tra ulivi da potare e vitigni da innestare. Ha imparato a
seguire il ritmo della natura Biagio, con le infradito nere e la chitarra
bianca rossa e verde guarda convinto nella macchina fotografica sullo sfondo
della sua casa di campagna. Ma chiuso il giornale mentre camminavo distratto
verso il lavoro ho intravisto da lontano un compagno di marciapiede puntarmi
con decisione, l’unico, erano le sette di un sabato nel mio quartiere come
sempre disabitato nei fine settimana: parcheggi liberi, automobili già partite
per case al mare o case in montagna, solamente qualcuno che sistema con cura le
mazze da golf nel baule, il sabato mattina nel mio quartiere mentre io vado a
lavorare gli altri sistemano con cura le mazze da golf nel baule, comunque ero
solo sul marciapiede fino a quando questo barbone non decide di puntarmi
continuando a gridare qualcosa che non capisco bene da lontano, starà dicendo a
me? Ma no, sembra più il dialogo urlato di un pazzo, si avvicina a pochi centimetri
e mi assicura “Io, sono un grande scrittore!” poi se ne va, io riapro il
giornale e arrivo alle pagine sportive, stai a vedere che ho incontrato Charles
Bukowski quando non se lo filava nessuno e la sua puzza era insopportabile e
poco di moda, una delle prime cose che mi viene in mente quando penso a Charles
Bukowski è lui che viene chiamato dal direttore della fabbrica di cetrioli per
la quale sgobba che vuole saperne di più del suo essere scrittore, una scena
decisamente comica che al momento non ricordo con precisione perché ho un po’ di coda in cassa.
In ogni caso finito il turno questo pomeriggio potrò perdermi tre eventi
sportivi di un certo rilievo: l’ottava tappa Foligno-Montecopiolo, lo spareggio
per la vittoria del campionato spagnolo Barcellona-Atletico Madrid, la finale
di F.A. Cup Arsenal-Hull City. Pazienza, chissà se Antonacci interromperà un
secondo le sue attività di contadino per seguire almeno uno di questi accadimenti,
secondo Biagio sarebbe bello se i ragazzi nelle scuole studiassero l’agricoltura.
Il Cippo di Carpegna è la montagna dove amava allenarsi Marco Pantani, una
salita aspra fino a 1358 metri e una discesa tecnica con strada stretta. E’ la
prima vera montagna del Giro che anticipa di qualche chilometro il finale di
frazione con ravvicinata doppia ascesa a Villaggio del Lago (1002) e Montecopiolo,
Eremo Madonna del Faggio (1235). I corridori come ogni anno faticavano
inseguiti e incitati da qualche amatore più o meno curiosamente vestito, sul
Carpegna è Arredondo il primo a passare ma poi viene raggiunto e sorpassato da
altri protagonisti che salgono e scendono fino a quando Diego Ulissi a trecento
metri dall’arrivo non trova l’attacco giusto trionfando così per la seconda
volta dopo Viggiano, davanti a Kiserlovski, Kelderman, Quintana ed Evans che
conquista la maglia rosa al posto di Matthews, da buon velocista crollato all’inizio
della prima salita. Io dopo non aver visto la tappa non guardo Barcellona-
Atletico Madrid, non guardo nemmeno Arsenal-Hull City, vengo a sapere al parco
che la squadra di Simenone pareggia 1-1 al Camp Nou portando così a casa la
Liga dopo diciotto stagioni, e che i Gunners di Arsene Wenger vincono finalmente un
trofeo a nove anni dall’ultima volta
grazie ad un sofferto 3-2 sancito a dieci minuti dalla fine del secondo tempo
supplementare dal centrocampista gallese Aaron Ramsey. Quindi ripiego verso
casa in compagnia di Pietro, questa volta i gnocchetti con olio e parmigiano
reggiano risultano graditi, alziamo i rispettivi calici brindando Cin e infine
indossiamo dei pantaloni comodi per tirare qualche bomba con la pallina di
spugna in corridoio. Domani nona tappa: Lugo-Sestola, 172 Km, tre stelle su
cinque di difficoltà secondo la mia guida, secondo me non riuscirò a vederla.
venerdì 16 maggio 2014
Il diario del Giro. Settima tappa: Frosinone-Foligno (211 Km). Il cappuccino e Richard Ford
Foligno - Oggi non sono riuscito
a vedere la tappa. Eppure mi ero svegliato presto, anche se meno di ieri, anche
se questa volta per andare a lavorare in libreria ma non come libraio. Addio
sogni di gloria, viaggi in prima classe tra Frosinone e Foligno per seguire in
prima linea il Giro d’Italia e scrivere il pezzo da spedire in redazione, a
lavorare, al massimo con la consolazione preventiva di cappuccino e brioche al
bar, non roba da tutti i giorni, mi è rimasta questa cosa relativa all’educazione
materna che non si può fare tutte le mattine colazione al bar, sommi cappuccino
e brioche e sono due euro e trenta, li moltiplichi per trentuno giorni del mese
e fa più di settanta euro, roba da matti, da ragazzino c’erano ancora le lire
ma quando raramente facevamo colazione al bar poi uscivamo e mia madre ancora
con il sapore del caffè sulla lingua sottolineava sistematicamente “Certo che
se uno facesse colazione al bar tutti i giorni, poi alla fine del mese…” Così
qualcosa nell’inconscio mi è rimasto e non faccio colazione al bar tutte le
mattine nemmeno adesso che sono un ben stipendiato cronista sportivo. Sportswriter, direbbe Richard Ford. Questa
cosa l’ho raccontata al direttore del giornale che però mi ha detto ti ho
mandato in giro per il Paese per riassumere le tappe della carovana rosa (lui
dice sempre la carovana rosa) e buttare dentro qualche spruzzatina di sospetto
doping, non parlarmi di brioche e di tua madre, che gliene importa ai nostri
lettori. Non è molto intelligente, il mio direttore, si vanta di non leggere
libri e quando gli ho detto Richard Ford mi ha detto cerca di parlare dei
ciclisti dei nostri tempi. Comunque, al bar prima di andare a lavorare c’èra il
solito idiota che monopolizzava La
Gazzetta dello Sport, osservato con odio puro e giustificato da tutti gli
altri. Perché si siede e monopolizza, per venti minuti, io capisco dieci minuti
ma venti, venti minuti al mattino sono un tempo importante, e poi spesso si
alza a lettura terminata e commenta ad alta voce con le sentenze tipiche dell’italiano
medio, quelli che rubano e quelli che no, quelli che si dopano e quelli che no.
Questa mattina mi è passato alle spalle mentre sorseggiavo il cappuccino
sbraitando al barista “Sono tutti drogati, state ancora a guardare il ciclismo,
sono tutti drogati…” Io ho pensato Dio mio, dammi la forza di non reagire,
appoggiare un secondo la tazza sul bancone e colpirlo accidentalmente con una
gomitata, che sublime forma di redenzione, poi riprendere con eleganza a
sorseggiare il cappuccino, non è successo niente, perché sei così stupido uomo
della Gazzetta? E che mi dici di Richard Ford? Frank Bascombe, il protagonista
di Sportswriter, è un uomo ancora giovane che ha rinunciato al
mestiere di scrittore per diventare giornalista sportivo. Ma il direttore del
quotidiano per cui scrivo non sa nemmeno chi sia Richard Ford, figuriamoci
Frank Bascombe, eppure dirige un quotidiano sportivo, almeno Sportswriter potrebbe leggerlo, ma lui
si vanta di non leggere libri. Hey ma non dovevamo parlare della tappa? Come
dicevo non l’ho vista, ma dai tanto adesso c’è internet. L’avevo pronosticato
ieri, arrivo in volata. Però una fuga di cinque corridori capita, resistono
resistono resistono mentre il gruppo aumenta il ritmo per risucchiarli,
resistono litigando fra loro per darsi il cambio a tirare ma poi cedono,
vengono risucchiati, e sul traguardo trionfa ancora il francesino Bouhanni
davanti al nostro Nizzoli, come direbbe un cronista più patriottico di me.
Invece no, vince il francesino mi dicono patito di boxe che infatti ha il
coraggio dei matti perché mentre Nizzoli parte pulito e centrale per la sua progressione, tecnicamente
perfetta, Bouhanni sbuca fuori dalle transenne negli ultimi metri, le sfiora le
transenne per poi accentrarsi lievemente ondeggiando grossolanamente, meno
bello a vedersi ma pugilatore arrabbiato che passa primo a Foligno, anticipando oltre all’italiano secondo come a
Bari lo sloveno Mezgec e il solito Matthews, che mantiene la maglia rosa per il
sesto giorno consecutivo. Allora fa sul serio? Tempo al tempo, io scommetto che
il Giro lo vince Cadel Evans, il direttore del giornale mi dice non dire prima
chi vince la carovana rosa. La tappa non l’ho vista perché uscito dalla
libreria ho pranzato e poi quando il collegamento Rai stava per iniziare Pietro
si è svegliato dal suo riposo pomeridiano dicendo inequivocabilmente “Bici dai”.
L’ho accompagnato quindi il mio amico
lungo le strade e i parchi del mio quartiere stando dietro alla sua
mini-bicicletta con l’ammiraglia delle mie gambe fino a quando non sono
arrivate le sette di sera e lui ha detto “Gelato”, io gli ho detto “Gnocchetti”,
lui ha detto “Gelato”, io “Gnocchetti dai sono le sette”, lui “Ge-la-to!”.
Abbiamo preso un Mottarello. Che cosa fosse esattamente quella vita piacevole
che si aspettava, Frank Bascombe non lo sapeva proprio. Comunque, non poteva
dire non ci fosse stata. Erano solamente successe tante cose, da allora.
giovedì 15 maggio 2014
Il diario del Giro. Sesta tappa: Sassano-Montecassino (247 km). Andreotti o Ceronetti, in due per una maglia rosa.
Montecassino - Ormai dormo quanto
Andreotti. Sarà per via della vita da inviato, il continuo cambiare letto e
albergo, per fortuna pagato da qualcun altro. Ieri mi svegliavo a Taranto e
discutevo con E.C. di doping e ciclismo, oggi da solo a Sassano che mi fa
venire in mente Sassari e Salsano, città ed ex-calciatore piccolo della
Sampdoria. Dormo quanto Andreotti e mi sveglio con una bugiarda freschezza che
pagherò nel pomeriggio quando dovrò raccogliere le forze per scrivere questo
diario, ogni giorno rubo un’ora alla notte e mi sveglio pensando ad Andreotti,
è morto Andreotti? Sono stanco e mi capita di non ricordarmi immediatamente se
Giulio sia morto, per diversi minuti, è morto oppure no? Forse l’anno scorso,
ma sono realmente dubbioso, così controllo sul telefonino e Andreotti è morto,
il 6 maggio 2013, è stato un politico, scrittore e giornalista italiano.
Andreotti è stato uno scrittore ma non l’hanno mai inviato al Giro D’Italia,
comunque è morto un anno fa, mi è tornato in mente come una forma di anniversario
a trecentosessantacinque giorni circa dal suo decesso, capita talvolta di non
avere certezze sull’eventuale morte di un personaggio, Andreotti in maglia rosa
che tipo di corridore sarebbe stato, molto probabilmente uno scalatore curvo
sul manubrio, più ragionatore che spettacolare, nemmeno “Il Divo” mi pare
chiarisca questo aspetto ciclistico e politico, Giulio camminava avanti e
indietro nel lungo corridoio della sua casa romana. Ti accorgi che l’insonnia
ha vinto quando ti sorprendi all’alba a controllare su Wikipedia le statistiche
di un centravanti bosniaco per cercare di comprendere se possa essere un buon
investimento per la tua squadra di calcio del cuore, ma torniamo al Giro
d’Italia. L’idea di seguire ogni tappa viaggiando in treno dalla partenza al
traguardo mentre la corsa avviene altrove eppure vicina, mi era parsa subito
intrigante ma non mi aspettavo fosse sufficiente a convincere il direttore del
giornale a pagarmi per seguire la corsa rosa. E’ stato più facile del previsto.
Guido Ceronetti dal 1981 al 1983 girava l’Italia in compagnia esclusiva della
sua raffinata intelligenza e del suo stile sperimentale per dare forma al suo
viaggio in Italia. Anni prima l’aveva fatto Guido Piovene. La settimana scorsa
è arrivato invece in libreria il viaggio in Italia di Napoletano. Cambiano i
tempi. Ma Guido Ceronetti anche lui quando fuori da una stazione ferroviaria di
una città col mare avevo trovato una prima edizione Einaudi del suo viaggio mi
era capitato di pensare: ma è morto Guido Ceronetti? Avevo subito controllato
sul telefonino. No ringraziando il Signore, Guido Ceronetti è vivo. Guido
Ceronetti è vivo, cammina col bastone lungo i marciapiedi di Torino. A
Montecassino si è svolto l’arrivo della sesta tappa del Giro d’Italia. La
maglia rosa ha vinto a sorpresa la gara, non si trattava di Andreotti ma di
Michael Matthews, bravo a battere in salita Wellens e Evans. Ma anche quest’ultimo
può dirsi felice perché capace di guadagnare quasi un minuto sui diretti
avversari in classifica generale: Uran, Morabito, Santaromita, Aru. E due su
Basso e Quintana. Cercando il nuovo albergo di Montecassino ho sperato che la
camera fosse silenziosa e il materasso comodo. Domani si parte da Frosinone per
arrivare a Foligno. Un gran premio della montagna a 1007 metri di altitudine
dopo 28 chilometri, poi qualche saliscendi mai oltre i 650 che potrebbero far
ipotizzare qualche tentativo di fuga, ma pronostico con abbastanza decisione il
gruppo che arriva in volata considerati gli ultimi 25 chilometri completamente
pianeggianti. Per quanto mi riguarda spero di dormire, che Pietro non si svegli
tante volte questa notte, domani torno in libreria e mi aspettano tre o quattro
ore nel mio nuovo ruolo di cassiere. Nei rari tempi morti rifletterò sulla rivalità
Andreotti-Ceronetti, cercherò di comprendere come mai gli italiani coltivino da
sempre l’abitudine di dividersi in fazioni. Questo Giro numero 97 che si
concluderà a Trieste vedrà gioire solamente una delle due parti, mi auguro di
cuore che tocchi allo scrittore torinese mettere in bacheca questo rosa viaggio
in Italia.
mercoledì 14 maggio 2014
Il diario del Giro. Quinta tappa: Taranto-Viggiano (203 Km). Vasco Pratolini alle cinque del mattino
Viggiano - Mi sono svegliato alle cinque del
mattino, non che fossi in apprensione per la quinta tappa, a dire il vero la
prima con arrivo in salita ma niente di trascendentale, altitudine massima 948
metri, mi sono svegliato alle cinque del mattino e ho fatto barba, doccia,
colazione in albergo, caffè in un bar di Taranto con lettura rapida della Gazzetta dello Sport, non ero fra i
trenta + uno dei pre-convocati di Cesare Prandelli per i Mondiali brasiliani ma
non mi ero fatto illusioni, eppure c’erano Mirante e Darmian, a trentanove anni
però ci sarebbe voluto in miracolo, bene avevo fatto ad accettare la proposta
del quotidiano allora di seguire da vicino il Giro d’Italia numero 97 come
scrittore non inviato, oggi da Taranto a Viggiano, mi ero sempre lamentato di
non aver mai goduto di questa possibilità e adesso toccava a me. Al bancone il
giornalista E.C. non aveva dubbi, la febbre di Marcel Kittel nascondeva doping,
a questo ero riconducibile il suo
ritiro, io dopo il caffè gli avevo detto “Il tuo problema E.C. è che sei
ossessionato dal doping, il doping è certamente una parte del ciclismo ma non
tutto il ciclismo, nel tuo articolo relativo alla tappa di ieri non hai scritto
nemmeno due righe sull’andamento della gara, c’è qualcosa che non va, guarda i
colori e le strade, scrivi di quello, collegali a musica cinema o letteratura, ma
li vedi i colori e le strade?” Il percorso prevedeva un arrivo in salita, un
finale a circuito come ieri a Bari ma con ascesa a novecento metri di
altitudine, quindi discesa tecnica e rettilineo conclusivo di 100 mt al 6% di
pendenza. Ma non è per questo che mi ero svegliato alle cinque, saranno stati
altri motivi, dopo il caffè mi sono ritrovato in libreria, come al solito avevo
timbrato in orario, di conseguenza non ero per niente inviato alla corsa rosa
cosa mi era saltato in mente, non ero Vasco Pratolini al trentottesimo Giro d’Italia
(14 maggio-5 giugno 1955), reduce da una cura di sei mesi per disturbi leggeri
ma noiosi, non relativi al cuore, alla pressione, non relativi a nulla. Fino a
quando la diagnosi non era balzata agli occhi con l’evidenza delle cose di
natura. Vasco era ammalato di sedia e di scrittoio, e andar dietro al Giro gli
era parsa la medicina più sicura. Già al solo pensiero, gli era passato il mal
di capo. Non ero Vasco Pratolini allora, nemmeno un suo vicino di osservazione
ciclistica terapeutica, non eravamo nel 1955, al termine del turno sarei corso
a casa per mangiare un panino, prendere l’automobile e correre a Brescia dalla
mia famiglia, niente tappa anche oggi, come giustificarmi agli occhi del
direttore del quotidiano, gli avrei mandato la consueta cronaca di tappa
fasulla, una vittoria italiana finalmente, quella di Diego Ulissi abile a
sfruttare il traino della maglia rosa Matthews fino a tagliare il traguardo
prima di Cadel Evans e Moreno Arredondo. In autostrada mezz’ora di coda per
incidente, Vasco Pratolini, oggi avevo un mal di petto simile al tuo mal di
capo, per questo mi sono svegliato alle ore cinque, mi sono fatto barba e
doccia, colazione in albergo, caffè in un bar di Taranto prima di ritrovarmi a
sorpresa di nuovo in libreria, non inviato ma premiato nel ricevere in dono da un
barbuto e gentile rappresentante una copia del nuovo libro di Marino Sinibaldi,
Un millimetro in là-Intervista sulla
cultura. E la tappa di domani? Sassano-Montecassino, la guida dice media
montagna, 247 Km. Al termine della coda sull’A4 sono uscito a Ospitaletto, ho
proseguito verso Gussago e giunto nel cortile alberato prospiciente la casa dei
nonni mi aspettava Pietro con sua mamma. “Papino!” ha gridato, con la bocca
allungata a sorpresa, gioia definitiva. Abbiamo parcheggiato la macchina
insieme, due tre quattro cinque volte, prima marcia retromarcia, quest’aggressiva
passione per l’automobilismo, non saprei davvero dire da chi l’ha presa.
martedì 13 maggio 2014
Il diario del Giro. Quarta tappa: Giovinazzo-Bari (112 Km). La velocista Valduga, il beato Maggiani
Bari - E’ andata che il famoso velocista
tedesco, descritto solamente l’altro
ieri da un noto quotidiano italiano come un dio della potenza e della forza dal
volto squadrato, dai lineamenti duri, gli occhi azzurrissimi, un po’ Rocky IV
un po’ Arnold Schwarzenegger, ma che a essere precisi assomiglia piuttosto a
Ivan Drago di Rocky IV e non a Rocky IV medesimo come ha scritto il
giornalista; è andata che Marcel Kittel si è ritirato dal Giro d’Italia a causa
della febbre e alla partenza di Giovinazzo questa mattina non c’era. Io invece
ero a Milano in libreria, alla cassa numero 7 dalle 9.30 alle 14, guarito dalla
febbre e dopo essere stato in ferie, e mi ripetevo che ero beato, beato me,
beato me, leggendo ad alta voce ai clienti dei passi dall’ultimo libro di
Maurizio Maggiani, sottile e nero, un’invettiva narrata oralmente che mi
sforzavo di riprodurre pur non amando generalmente i reading, mentre dall’altra
parte della cassa le persone volevano il sacchetto oppure il pacchetto, avevano
oppure non avevano la tessera fedeltà, sceglievano bancomat oppure carta di
credito, dalle 9.30 alle 14, la questione linguistica dello stare in cassa per
un tempo prolungato, è quello che mi preme. Oltre ad immaginare Maggiani, i suoi
figli della Repubblica, alternavo le
soluzioni datemi in dotazione dal buon Dio e dalla mia formazione autodidatta
per stupire i clienti con la mia presunta proprietà di linguaggio,
sorprendente per un cassiere, desidera un sacchetto oppure un pacchetto, spesso
nascono secondi di silenzio, ci guardiamo negli occhi, guardali negli occhi, ci
osserviamo in attesa di una risposta, io, loro no, ci pensano, un reading non
se l’aspettavano, si tratta di un’invettiva di Maurizio Maggiani, non è roba
mia. A Giovinazzo invece piove, viste dall’alto ogni città e paese d’Italia
regalano espressioni di meraviglia, certi documentari degli anni sessanta di
Folco Quilici ritrasmessi di recente su Rai Storia, ma anche qui l’elicottero del
Giro accompagna i ciclisti dall’alto e sorvola la bellezza di Bari, siamo
arrivati al circuito finale di otto giri di 8,3 Km ciascuno dentro la città e
il maltempo è arrivato puntuale, la direzione della corsa ha deciso di non
assegnare abbuoni e i tempi per la classifica generale verranno presi alla
campana dell’ultimo giro. I ciclisti scivolano, Maurizio Maggiani l’ho
incontrato solamente una volta, in libreria, sarà stato il 2002 o il 2003, lui
usciva dal bagno io entravo in bagno per lavarmi le mani, la porta era bianca, era
venuto a presentare un suo romanzo (La
regina disadorna? Il coraggio del
pettirosso?), indossava le bretelle, risultava trasparente. I suoi figli della Repubblica sono entrati
nella gioventù osservati ma non pedinati, controllati ma non compressi,
repressi ma non asserviti. La mia gentilezza di cassiere è un petardo che
spaventa perfino me stesso, fino a quando non scoppia, ieri sera in pizzeria
con Antonio abbiamo parlato del Giro e del nostro futuro tour italiano per
presentare i nostri due imminenti romanzi sportivi che hanno solo qualcosa di
sportivo, una volta fuori abbiamo deciso per una passeggiata lungo corso Buenos
Aires e stavamo discutendo di una poesia di Patrizia Valduga quando abbiamo
incontrato Patrizia Valduga. Abita da quelle parti. Con la velocità di una
ragazzina ci ha presentato la sua compagna di camminata. “Avete davanti a voi
due vedove di un certo livello: la vedova Raboni e la vedova Zanzotto”. Poi
sono scomparse rapide, e Antonio è andato a prendere il treno. Il ritiro di
Marcel Kittel ha spianato la strada al francesino Nacer Bouhanni, sempre
piazzato nelle volate dei giorni scorsi, più veloce nella circostanza di
Nizzolo, Veelers, Ferrari e Viviani. Intervistato sotto il caschetto il
vincitore aveva la faccia rosa e marrone per via degli schizzi di pioggia e
fango, non ha recitato una poesia di Patrizia Valduga, spero gli abbiano almeno
dato un po’ d’acqua e un asciugamano pulito per lavarsi le guance e godere al
meglio dei baci delle due Miss sul palco. L’invettiva di Maggiani si legge in
meno di un’ora, dopo il lavoro ammetto di aver continuato la lettura a casa,
azzerando il volume della televisione, tenendo la tappa in sottofondo e
sperando che non terminasse prima della fine del libro. Michael Matthews ha
conservato la maglia rosa per il terzo giorno consecutivo, record eguagliato
per un australiano. Domani partenza da Taranto e primo arrivo in salita, a
Viggiano. 203 Km. E da qui in poi, da qui in poi, basta.
lunedì 12 maggio 2014
domenica 11 maggio 2014
Il diario del Giro. Terza tappa: Armagh-Dublino (187 Km). I compleanni sospetti, Bobby Sands e Gianni Clerici
Dublino - Dev’essere una faccenda
di compleanni che potrebbe anche gettare un’ombra sull’effettiva regolarità
della manifestazione perché la tappa del Giro d’Italia di oggi, che purtroppo
non sono riuscito a vedere, ha sancito la seconda vittoria consecutiva di
Marcel Kittel, come del resto ieri, con la differenza però che oggi il
velocista tedesco, descritto da un noto quotidiano italiano come un dio della
potenza e della forza dal volto squadrato, dai lineamenti duri, gli occhi
azzurrissimi, un po’ Rocky IV un po’ Arnold Schwarzenegger; ecco oggi Marcel
Kittel ha vinto proprio nel giorno del compimento del suo ventiseiesimo anno di
vita, com’era accaduto al canadese Svein Tuft nella prima tappa, che tuttavia di
anni ne ha undici di più. A parte questo, sabato sera mi ero ritrovato sul
divano a guardare Hunger, film di Steve
McQueen che ricostruisce il trattamento riservato ai prigionieri politici nel
carcere di Long Kesh in Irlanda del Nord. In buona sostanza soprattutto la storia di Bobby Sands, appartenente
alla Provisional
IRA, che per ottenere il riconoscimento di
prigionieri politici per i membri dell'IRA, organizza uno sciopero
della fame in cui
perderà la vita. Ero sul divano e mentre i piani sequenza si ripetevano
con una certa insistenza pensavo alla casualità che mi aveva fatto capitare sull’emittente
che aveva pensato di trasmettere questo film irlandese durante la gita in terra
verde della carovana rosa, forse non per caso. E cioè m’immaginavo i dirigenti
dell’emittente che avevano fatto riunioni e riunioni fino a decidere di
proiettare lungometraggi irlandesi in coincidenza delle prime tre tappe
straniere del Giro, oppure niente di questo, ma soprattutto perché. In ogni
caso, al venticinquesimo minuto del film, all’incirca quando Gerry, il compagno
di cella di Bobby Sands, stava spalmando per protesta le sue feci dal pavimento
fino al soffitto della cella, Pietro nell’altra stanza da addormentato era
esploso in un fragoroso pianto e allora io e Marta avevamo abbandonato le
rispettive postazioni di relax con un colpo di reni per raggiungere il letto
del bambino, dimenticando d’un tratto l’orrore della violenza e delle torture
delle guardie carcerarie nei confronti dei detenuti io, lei non lo so, e per
quanto mi riguarda passando in un pochi secondi dal pubblico al privato, dallo
sdegno per certi avvenimenti della storia sempre sconfortanti all’immediato
tentativo di capire come mai il mio bambino preferito piangesse disperato. Spenta
definitivamente la televisione, ci saremmo addormentati per svegliarci poi
ripetutamente nel corso della notte ad ogni sobbalzo lacrimoso di Pietro,
preoccupati a vicenda, facendo sembrare di no. Il mattino seguente, abbastanza
assente per la stanchezza accumulata, sapevo già che non sarei riuscito a
vedere la terza puntata del Giro d’Irlanda, Armagh-Dublino, percorso comunque
pianeggiante che si sarebbe concluso al 100% in volata. I ciclisti avrebbero
ricordato Bobby Sands? Lo escludevo, di certo non avevano guardato Hunger come me la sera prima e non erano
rimasti quindi con la questione irlandese in testa, ma con l’altimetria della
tappa sì, che prevedeva un inizio collinare, due gran premi della montagna ma
banali, un finale cittadino dopo aver oltrepassato il fiume Liffrey, dall’Irlanda
del Nord alla Repubblica d’Irlanda. A un chilometro dall’arrivo Marcel Kittel
era molto indietro, ma ha pensato di stare attaccato al francesino Bouhanni,
che non compiva gli anni, e di usarlo come scia per arrivare ancora una volta
primo davanti a Swift, Viviani, Appollonio. Io ho avuto da fare per tutta la
giornata di domenica, arrivato a casa ho guardato parzialmente Roma-Juventus di
nascosto mentre giocavo a nascondino con Pietro, ho pensato devi scrivere il
diario del Giro e ti metti invece a spiare una partita di pallone, sei davvero
inguaribile. L’articolo più bello della settimana però l’ha scritto Gianni
Clerici, prendendo spunto dalla penosa vicenda della trattativa
Stato-Hamsik-Ultras di un sabato fa. Il 7 giugno del 1963, il suo capo e amico
Gianni Brera l’aveva assegnato alla cronaca dell’incontro Atalanta-Roma, a
Bergamo. Ad un certo punto dell’incontro il comportamento di un vecchio tifoso
della Dea era stato così furibondo da procurargli un malore. Clerici aveva
sbagliato commentando ad alta voce che un tifo simile produceva squilibri, ma
non avrebbe mai pensato, dopo il match, di trovarsi di fronte ad un gruppo di
quelli che ancora non si chiamavano ultras, pronti ad aggredirlo al grido di “Dagli
al romano!” Per sua fortuna, uno studio sul poeta Carlo Porta aveva aiutato
Clerici a perfezionarsi nel dialetto milanese, il necessario per convincere gli
ultras della sua non romanità. Da quell’episodio comunque Gianni Clerici decise
di non scrivere più di calcio, si licenziò, venne riassunto quarantotto ore
dopo con l’incarico di occuparsi di sci, basket e dell’amato tennis. Così anche
questa tappa è andata, la maglia rosa è rimasta sulle spalle di Michael
Matthews, domani il Giro riposa e anche io, ci sentiamo martedì per la Giovinazzo-Bari.
sabato 10 maggio 2014
Il diario del Giro. Seconda tappa: Belfast-Belfast (219 Km). Il bello del Giro d'Italia è lasciarsi addormentare
Belfast - Oggi non sono riuscito a vedere
la tappa. Avevo promesso a me stesso di guardarla, anche per rimediare alla
prima puntata che avevo bucato, ma poi c’era il sole, era una giornata di fine
primavera con il cielo prevalentemente azzurro, temperature tra 14 e 25 gradi,
aggiungiamo il fatto che Marta iniziava a lavorare alle 15 e dovevo badare a
Pietro, come da accordi la televisione non è prevista almeno fino ai quattro o
cinque anni, forse di più, la radio disturba i nostri giochi e non rende come
la televisione, una volta tanto, il bello del Giro d’Italia è guardare,
lasciarsi addormentare sul divano dai paesaggi e dalla facce diverse degli
italiani, dappertutto, questo vale anche per il Giro d’Irlanda. Ci troviamo ancora
a Belfast, ieri è stato un grande successo dicono i giornali, con oltre
duecentomila persone lungo il percorso, il Giro d’Italia alla radio lo
ascoltavo solo da mio zio quando facevo i materassi, per la precisione lui
faceva i materassi, io i cuscini e già mi sembrava di andare storto con ago e
filo, i materassi erano addirittura un’altra dimensione, prima era necessario
imparare a fare bene i cuscini, comunque ascoltavamo il Giro alla radio, si
parla ormai di vent’anni fa adesso che ci penso, usavo ago e filo e pensavo che
avrei preferito guardare la tappa in Tv, alla radio non si capiva niente. Ecco
allora che appena dopo le quindici siamo partiti in direzione parco di Pagano
con Pietro, lui con la sua bicicletta arancione e nera senza pedali, lui sì immerso
completamente nell’atmosfera del Giro, pronto a scattare lasciandomi sul posto
appena fuori dal portone di casa, un’accelerazione per far capire subito come
sarebbero andate le cose, lo sguardo del padre che controlla la distanza
massima che il bambino può raggiungere dal genitore senza che ci sia pericolo,
che una delle automobili parcheggiate sul marciapiede ad esempio faccia marcia
indietro, ci vuole una visione periferica per fare il papà, supervisionare senza
ansia apparente, mantenendo il controllo. Il parco come quasi sempre era
strapieno, il parco di Pagano intitolato a Guido Vergani, scrittore e
giornalista, i figli di ricchi del mio quartiere, roteavano griffati da un
gioco all’altro: altalena, gallo o cane con sotto la molla che fa avanti e
indietro cavalcato dal bambino di turno, pallina o scivolata. La tappa prevedeva
un percorso per velocisti, con particolare attenzione alle insidie del vento,
visto che si costeggia il mare, ma sono cose che si dicono, e si scrivono talvolta
esclusivamente per esigenze di spettacolo, mai sentito nessuno affermare la
tappa di domani sarà una palla mortale, guardatevi un dvd di Marco Pantani, mi
gioco due euro che il gruppo arriverà in volata, i gran premi della montagna
sono due di quarta categoria, gli ultimi tre chilometri sono in discesa. E
infatti vengo a sapere che dopo qualche tentativo di fuga, l’ultimo dell’olandese
Tjallingii arginato a quattro chilometri
dal traguardo, la curva prima del rettilineo finale vede sbucare il favorito
Kittel in decima posizione, apparentemente spacciato, e che invece sta
solamente supervisionando come faccio io con Pietro quando mi prende qualche
metro e trattengo il fiato, abbastanza serenamente, perché poi in linea di
massima lo riprendo, o alla peggio grido “Stop!”, e Pietro allora inchioda
anche esageratamente con le suole sul cemento tanto che gli dico con autorevole
calma “Ok, bravissimo, tranquillo, ci sono le macchine.” Kittel dopo la curva
recupera, recupera fino a vincere quasi per distacco davanti a Bouhanni,
Nizzolo, Viviani, Ferrari. La maglia rosa invece passa dalle spalle di Svein Tuft
a quelle del compagno di squadra Michael Matthews nonostante il tempo identico,
per via delle posizioni d’arrivo, e questo mi spiace, perché leggendo i
giornali questa mattina avevo appreso la curiosa storia del ciclista canadese
vincitore della prima tappa, strana specie di vagabondo delle stelle, scappato
da scuola a quindici anni in compagnia del fedele cane Bear prima a piedi e poi
in bici, con episodi alla Into the Wild
come un viaggio in Alaska dormendo per quattro giorni in una baracca disabitata,
Svein e il suo cane, che chissà come sarebbero stati etichettati questi episodi
prima del successo del film di Sean Penn, ma sì un tipo alla Jack London si
sarebbe detto, tutto sommato un perdente salvato e non sommerso, ultimo al Tour
de France dello scorso anno, e ieri a sorpresa premiato con la maglia più bella
a trentasettenne anni. Michael Matthews al contrario sembra già progettato per
vincere, campione del mondo under 23, un paio di tappe già vinte alla Vuelta.
Il nuovo leader della corsa è lui, e adesso che ci penso prima di uscire in
bicicletta con Pietro, mentre lui ancora dormiva, aspettando il Giro avevo
sbirciato un paio di interviste ai corridori rilasciate dopo la firma del
registro di partenza, e Tuft alla consueta domanda “Pensi di conservare la
maglia rosa?” aveva risposto con l’aria persa, non abituato ai clamori, che a
lui bastava esser stato felice almeno un giorno come il suo cane, e che per le
volate tipo oggi la Orica-GreenEdge aveva uno bravo come Michael Matthews,
capace di resistere al vento e alle responsabilità.
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