Oggi sul Quotidiano della Calabria è uscita una bella recensione di "Mio padre era bellissimo" scritta da Isabella Marchiolo.
NIENTE METAFORE PER SPIEGARE IL LUTTO
E' forse la cosa più difficile da spiegare a un figlio piccolo. Perché con la morte non esistono metafore di fiori e cicogne, non si può travestire la crudezza con la fiaba né trovare sinonimi esplicativi, applicare i diminutivi o vezzeggiativi che piacciono tanto ai bimbi. Ad aggravare la situazione - la lampante oggettività dei fatti - c'è che la morte giunge come un evento imprevedibile, lasciandoci doppiamente impreparati all'esame, ad ogni età. Soprattutto se riguarda un genitore: sappiamo che, almeno nell'ordine comune del tempo, sopravviveremo alla perdita di madre e padre, eppure la scomparsa rimane sempre uno choc, un'orfanità coatta e traumatica.
In “Mio padre era bellissimo”, romanzo d'esordio del bresciano Francesco Savio, un bambino di nove anni perde il papà. E proprio perché i giri di parole, gli schermi difensivi degli adulti, sarebbero banali e inutili, a raccontare questa storia è la voce, pura e disincantata, del figlio. Nove anni: ferrea logica, mista a paure e incertezze.
Il libro è il diario di quella che, con i paroloni del caso, si definirebbe “elaborazione del lutto”. Ma nel dolore essenziale e interrogativo (può essere “interrogativo” un dolore? Sì) di un bambino, di psicanalitico non c'è nulla. E' un dolore tutto intero, con la pelle fresca. Un dolore appuntito dall'infantile cinismo, che, ancora, riesce a pensare - appunto, nel modo dei bambini - al futuro. Pure senza padre, si potrà crescere. I ricordi, l'abbandono, inizieranno a far male più tardi, inclinati in una sofferenza diversa da questa dell'oggi, che è immediata e difficile da spiegare come tutte le cose degli adulti. La giovane voce narrante del romanzo ci parla di situazioni pragmatiche, evidenti. Il mestiere del papà Guerrino, che fa il materassaio e quando si ammala non ha più le forze per trasportare la pesante merce su per i palazzi dei clienti; ed è costretto ad affidare l'incombenza alla moglie Leonilde, donna di spalle larghe e grande cuore. Il figlio Nicola pensa una cosa materiale e spiazzante: se papà muore, lui dovrà fare materassi al posto suo e non potrà diventare, come invece sogna, un calciatore-mito, erede del venerato Platini. Però a nove anni Nicola non vuole fare materassi. Lui gioca a pallone e corre fulminee discese in bicicletta. La sua onestà di pensiero è spietata. Il figlio ha persino già la ferita di una colpa, immaginata o autoinflitta. Perché, dopo una lite, augura la morte a quel padre debilitato, costretto in casa dalla malattia. Capita quasi a tutti. Alziamo la voce con qualcuno che amiamo e poi a quello capita qualcosa di brutto. Allora pensiamo che siamo stati noi. Certe volte quello che capita è così brutto che non abbiamo neanche la possibilità di rimediare chiedendo scusa.
“Mio padre era bellissimo” è il racconto di un idillio interrotto. Un amato papà che non potrà più essere eroe, che non è invincibile, non è perfetto. Eppure, tra i sogni e la rabbia ribelle dei nove anni, il figlio capisce che, da adesso in poi, quell'assenza sarà un vuoto aperto lì, nell'infanzia, e mai rimarginabile. Lo capisce perché da adesso lui, “il ragazzino a cui è morto il padre”, viene affetto da un inspiegabile mutismo, e il calcio, forse, diventa un po' meno importante. La soluzione è un'utopia che ha bisogno di un piccolo aiuto pratico: prendere un treno e andare a cercarselo da solo, con segreti viaggi da detective, quel padre che in realtà è vivo, ma si è nascosto in qualche città lontana.
Nel romanzo di Savio, il dialogo muto del bambino con il padre consumato dalla malattia e poi sottratto dalla morte, ha un binario parallelo in certe oniriche riflessioni del genitore. Il cambio di linguaggio, di percezione, è palpabile. Bambini e adulti, due mondi opposti, di precise e rivendicate demarcazioni.
Una cosa accomuna i due personaggi: entrambi sono sinceri fino all'estremo limite della coscienza. Scopriamo che il padre si vergogna di aspettare sul furgone la moglie che s'inerpica su quattro piani di scale piegata in due sotto un materasso. Scopriamo le confidenze di vecchi amori, l'impossibile e accorata trasmissione dei desideri da un genitore morente a un figlio fiducioso e impaziente, come tutti i bambini.
Alla fine il figlio non avrà scelta e diventerà un uomo. Intuiremo se avrà infine realizzato i suoi sogni, sentiremo con lui la dolce malinconia della memoria di suo padre.
In “Mio padre era bellissimo”, romanzo d'esordio del bresciano Francesco Savio, un bambino di nove anni perde il papà. E proprio perché i giri di parole, gli schermi difensivi degli adulti, sarebbero banali e inutili, a raccontare questa storia è la voce, pura e disincantata, del figlio. Nove anni: ferrea logica, mista a paure e incertezze.
Il libro è il diario di quella che, con i paroloni del caso, si definirebbe “elaborazione del lutto”. Ma nel dolore essenziale e interrogativo (può essere “interrogativo” un dolore? Sì) di un bambino, di psicanalitico non c'è nulla. E' un dolore tutto intero, con la pelle fresca. Un dolore appuntito dall'infantile cinismo, che, ancora, riesce a pensare - appunto, nel modo dei bambini - al futuro. Pure senza padre, si potrà crescere. I ricordi, l'abbandono, inizieranno a far male più tardi, inclinati in una sofferenza diversa da questa dell'oggi, che è immediata e difficile da spiegare come tutte le cose degli adulti. La giovane voce narrante del romanzo ci parla di situazioni pragmatiche, evidenti. Il mestiere del papà Guerrino, che fa il materassaio e quando si ammala non ha più le forze per trasportare la pesante merce su per i palazzi dei clienti; ed è costretto ad affidare l'incombenza alla moglie Leonilde, donna di spalle larghe e grande cuore. Il figlio Nicola pensa una cosa materiale e spiazzante: se papà muore, lui dovrà fare materassi al posto suo e non potrà diventare, come invece sogna, un calciatore-mito, erede del venerato Platini. Però a nove anni Nicola non vuole fare materassi. Lui gioca a pallone e corre fulminee discese in bicicletta. La sua onestà di pensiero è spietata. Il figlio ha persino già la ferita di una colpa, immaginata o autoinflitta. Perché, dopo una lite, augura la morte a quel padre debilitato, costretto in casa dalla malattia. Capita quasi a tutti. Alziamo la voce con qualcuno che amiamo e poi a quello capita qualcosa di brutto. Allora pensiamo che siamo stati noi. Certe volte quello che capita è così brutto che non abbiamo neanche la possibilità di rimediare chiedendo scusa.
“Mio padre era bellissimo” è il racconto di un idillio interrotto. Un amato papà che non potrà più essere eroe, che non è invincibile, non è perfetto. Eppure, tra i sogni e la rabbia ribelle dei nove anni, il figlio capisce che, da adesso in poi, quell'assenza sarà un vuoto aperto lì, nell'infanzia, e mai rimarginabile. Lo capisce perché da adesso lui, “il ragazzino a cui è morto il padre”, viene affetto da un inspiegabile mutismo, e il calcio, forse, diventa un po' meno importante. La soluzione è un'utopia che ha bisogno di un piccolo aiuto pratico: prendere un treno e andare a cercarselo da solo, con segreti viaggi da detective, quel padre che in realtà è vivo, ma si è nascosto in qualche città lontana.
Nel romanzo di Savio, il dialogo muto del bambino con il padre consumato dalla malattia e poi sottratto dalla morte, ha un binario parallelo in certe oniriche riflessioni del genitore. Il cambio di linguaggio, di percezione, è palpabile. Bambini e adulti, due mondi opposti, di precise e rivendicate demarcazioni.
Una cosa accomuna i due personaggi: entrambi sono sinceri fino all'estremo limite della coscienza. Scopriamo che il padre si vergogna di aspettare sul furgone la moglie che s'inerpica su quattro piani di scale piegata in due sotto un materasso. Scopriamo le confidenze di vecchi amori, l'impossibile e accorata trasmissione dei desideri da un genitore morente a un figlio fiducioso e impaziente, come tutti i bambini.
Alla fine il figlio non avrà scelta e diventerà un uomo. Intuiremo se avrà infine realizzato i suoi sogni, sentiremo con lui la dolce malinconia della memoria di suo padre.