(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
Camminando verso la Sé, arriva un momento in cui, come del resto di fronte alla maggioranza degli edifici, bisogna decidere se entrarci dentro, oppure sfiorarlo solamente proseguendo a destra, o a sinistra. Mentre si avanza, in salita come spesso capita a Lisbona, ci si prepara alla scelta. Se costeggio la cattedrale a sinistra, scendo verso il quartiere dell’Alfama. Già vedo le bandierine rosse e verdi che attraversano i vicoli come panni stesi al sole, lungo fili che uniscono le pareti delle vecchie case. Se supero la cattedrale dall’altra parte, ancora salita, ma lungo una via bella, forse la mia preferita. Allora continuo l’ascesa, sul marciapiede parallelo al percorso del tram numero 28.
Terza volta che sono a Lisbona, e ogni volta la sensazione di essere a casa. Roma, Barcellona, Napoli sono già pronte ad accusarmi: opportunista! In passato avevi detto le stesse cose anche a noi, sei come Zelig di Woody Allen!
Potrebbero anche avere ragione, ma come Lisbona niente. Qui mi bastano un paio d’ore per diventare portoghese, per convincermi di aver visto Fernando Pessoa dietro una finestra, seduto alla scrivania dell’azienda commerciale dove lavora come traduttore di corrispondenze commerciali. Salgo, e l’unica taverna aperta è quella di Joaquim, che è sempre abbastanza brillo. Oggi forse ancora di più: il Portogallo affronta la Costa d’Avorio, e Joaquim ha già il televisore acceso, sopra una mensola ornata con antiche bottiglie di Porto. Nonostante il caldo, insiste per offrirmi un bicchierino di Ginjinha, un bicchiere che non è di vetro ma di cioccolato, perché questo liquore alla ciliegia si assapora meglio così, mangiando poi pure il bicchiere. “Cominciamo con questo…” mi fa, lasciando intendere che davvero, è solo l’inizio.
Seguono sapori diversi, colori di Porto che dipingono la bocca in modo differente. Joaquin è teso, ma niente rispetto a quella finale europea maledetta del 2004, quando tutto il Portogallo sperava di coronare un sogno che sarebbe stato meritato, e invece la Grecia, mi dice, la Grecia, ripete ancora incredulo, si trasformò nell’Uruguay del 1950 e loro nel Brasile sconfitto al Maracanà. Paragonata a quella delusione ogni altra è relativa, quindi aspettiamo la Costa d’Avorio, vediamo se Drogba gioca davvero con il braccio rotto come Beckenbauer. Vediamo se finisce anche oggi 4 a 3 come Italia-Germania del 1970. Se dal nulla dopo Eusebio salta fuori un centravanti portoghese capace di far tremare le difese avversarie. Perché in Lusitania crescono giocatori tecnici, fuoriclasse come Luis Figo e Cristiano Ronaldo, ma di numeri 9 dopo gli anni sessanta neanche l’ombra.
Joaquim è definitivamente ubriaco. Mima assoli con una chitarra elettrica immaginaria mentre mi fa ascoltare la sua musica preferita: Lou Reed, Pink Floyd, e Zucchero. Chissà perché, Zucchero. Da lisboneta non ama l’arroganza di Mourinho, ma pensa che abbia qualcosa in più, per essere precisi, che venga da un altro posto. Non capisce perché Cristiano Ronaldo prenda quel tipo di rincorsa così coreografica prima di calciare le punizioni. Appena prima degli inni nazionali gli chiedo se sia solo una coincidenza che Abilio Quaresma, l’ispettore inventato da Fernando Pessoa per le sue storie poliziesche, porti che lo stesso cognome del calciatore Ricardo, passato giusto l’altro giorno dall’Inter al Besiktas.