Nessuno può impedire a un uomo di scrivere tranne se stesso
Prendo in prestito questa frase che Cosimo Argentina ha preso in prestito da Charles Bukowski.
Perché si comincia a scrivere? Gli altri non so, ma io perché ho iniziato?
Ammesso che io sia uno scrittore, non sono stato uno di quelli che a otto anni già scriveva poesie, racconti o romanzi. A otto anni giocavo a calcio, con la suprema sensazione che l’avrei fatto per tutta la vita. Ciò che accadeva all’oratorio, si sarebbe ripetuto prima sui campi di Brescia e provincia, poi d’Italia ed Europa, e infine nel mondo. Era talmente evidente. Così pensavo mentre indossavo la maglietta in cotone e senza sponsor della mia squadra preferita. Poi mi fermai invece ai rettangoli verdi di città e provincia.
Non sono nemmeno stato uno di quelli che durante l’adolescenza già aveva in testa un progetto più o meno articolato di come si costruisce un romanzo. Ad essere onesti nemmeno oggi ho in testa la formula esatta per scrivere un romanzo, e ho ormai 35 anni. Tardi anche per tornare indietro e provare a ripercorrere la via del calcio.
Prima di scrivere bisogna leggere, ma ad essere sincero, non sono stato nemmeno uno di quelli che, già da bambini, leggeva ad esempio Calvino. Preferivo sfogliare il Guerin Sportivo. Anzi ricordo ancora il dispiacere quando, durante una festa di compleanno, un compagno di classe particolarmente istruito mi regalò il libro per ragazzi “Orlando a Roncisvalle”. Era rilegato, aveva la copertina in cartoncino viola e tanti disegni colorati all’interno, ma dovetti fingere non poco dopo avere scartato il pacchetto. Mi piaceva? Certo che mi piaceva, mica come gli altri invitati che mi avevano regalato giochi o baggianate simili. “Orlando a Roncisvalle”, proprio quello che volevo. Ogni tanto lo riprendevo tra le mani, per non “sprecare” il regalo che mi era stato fatto. Per educazione. Lo aprivo, sbirciavo, primo rettangolo con le pagine di tanti che mi avrebbero “salvato” la vita, sul serio.
Ho cominciato a leggere tardi, e tardi ho iniziato a scrivere, durante il servizio militare. Forse perché ero a Casarsa della Delizia, dove era vissuto il bambino Pier Paolo Pasolini. Il viale che conduceva alla caserma portava il suo nome, o forse immagino adesso che sia così. Ma la solitudine del servizio militare, quella mi ha portato a scrivere. Dopo le prime settimane all’insegna delle uscite di gruppo, delle birre, delle sigarette o di qualcos’altro ricordo che pensai: avanti così, e non arrivo alla fine dell’anno.
Così iniziai a leggere, osservando lo stupore sul volto dei commilitoni che uscivano per la serata di sbronze e marijuana. Cosa ci facevo sulla branda con un libro tra le mani invece che andare con loro? Perché leggevo invece di uscire? Ero matto? Ero gay?
M’immergevo nel mio periodo “orientale”. Hermann Hesse ovviamente, altri che non ricordo, e un bel tomo sostanzioso dal titolo perentorio: “Buddha: i quattro pilastri della saggezza”. Quando i soldati rientravano in caserma, cantando e ruttando, contavo i pilastri che mi mancavano per non ridurmi come loro.
Poi iniziai a scrivere delle pessime poesie, quelle assolutamente di nascosto, dedicandole prevalentemente ad amori del passato, quasi sempre mai consumati. Marciavo per ore nel piazzale della caserma sotto il sole di agosto e mi sforzavo di non dimenticare quei versi che mi arrivavano da chissà dove, trapassando l’elmetto. Passo, cadenza, dietro-front. Camminare per ore senza andare da nessuna parte. Gli scarponi sbriciolavano il pavimento del cortile.
Questa cosa del nascondiglio mi ha poi sempre accompagnato, portandomi ad associare lo scrivere ad una cosa da fare senza farsi scoprire. Anche di ritorno dalla naja, quando mi sono lanciato nello straordinario mondo del lavoro. Dentro ogni professione svolta, il mio scopo era trovare il posto giusto per nascondermi e scrivere qualcosa. Vendevo lavatrici e frigoriferi, e dopo aver esaudito i desideri investigativi dei clienti (A cosa serve questo pulsante? Che differenza c’è tra 400 e 800 giri di centrifuga? La classe A di questo elettrodomestico, allora, ci spieghi… ) Dopo aver risposto, ecco, aprivo un frigorifero tra quelli esposti e prendevo un appunto, o scrivevo una poesia, appoggiandomi su uno dei ripiani in plastica e sfruttando la lucina interna. Poi riponevo il mio bloc notes delle “vendite” nella tasca del camice bianco, con la scritta Candy, Ariston o Whirlpool bene in evidenza.
Ma scusatemi se divago. Era per dire che niente può impedire a un uomo di scrivere, tranne se stesso. In altre epoche, in altre situazioni ben meno fortunate della mia, grandi scrittori hanno scritto, mentre tutto gli remava contro. Mentre scontavano condanne in galere, mentre subivano vessazioni. Scrivevano in prigione, e quando non era davvero possibile farlo lo facevano nella testa, capitolo dopo capitolo, e magari la speranza di poter srotolare un giorno quelle parole sopra un foglio era l’unica cosa capace di farli resistere all’orrore.
Scrivere per me è questo, non è costruire in romanzo o “un prodotto” il più accattivante possibile per un target di pubblico, come pensa la maggioranza dei direttori editoriali delle case editrici. Per questo ammiro i poeti, non essendolo. Ho avuto la fortuna di credere di esserlo, e successivamente di cercare di esserlo senza scrivere poesie.
Cogliere la scintilla, sentire che arriva, resta per me la sensazione più bella.
Scrivere permette di reagire. Dopo otto ore di lavoro magari, circondato da capi bestiali, da esseri parzialmente umani, arroganti e maleducati.
Quindi scrivo per sopravvivere con la maggiore serenità possibile, scrivo come se pregassi, cercando la religione migliore per me e per chi mi sta vicino.
Non sono nemmeno abbastanza furbo, spregiudicato o forse fortunato per trasformare l’eventuale briciolo di talento che ho in qualcosa di retribuito. Scrivo gratis, leggo gratis. Non sono un bravo imprenditore di me stesso.
Con tutti i libri che ho comperato dai diciotto anni in poi mi sarei potuto prendere l’automobile, mi disse una volta un parente, ma francamente pur avendo la patente non amo guidare. Preferisco leggere. E camminare.
Ho fatto solo sei mesi di Università. Facoltà di Lettere. Soffocavo di fronte alle liste dei libri da studiare che comprendevano quasi sempre un titolo del professore che teneva il corso, o di un suo amico. Non mi andava giù che fossero altri a scegliere ciò che dovevo leggere.
Poi ho preso l’abitudine, quando non lavoravo, di camminare per chilometri con i miei libri nello zaino, fino a quando non trovavo un parco adeguato al mio desiderio di leggere. Ogni libro come una pietra preziosa sulla quale scrivevo il mio nome e la data. Pessoa, Fitzgerald, Thoreau, Salinger, Fante, Bukowski, Penna, Proust, Carver…Arrivavo a sera che non avevo parlato con nessuno. Mi chiedevo se era normale.
I libri mi hanno sempre regalato la possibilità di respirare, anche in metropolitana, schiacciato dagli altri passeggeri devoti ai giornaletti gratuiti, capaci di rivelare loro fondamentali notizie, riguardanti ad esempio la presunta, imminente maternità di Carla Bruni.
Ho buttato tanti di quei soldi in carta che sono proprio felice.
Ma forse le cose che ho detto non c’entrano nulla. Nessuno può impedire a un uomo di scrivere, tranne se stesso, mi ha suggerito Cosimo Argentina, e questo è quello che mi è venuto in mente.
Perché si comincia a scrivere? Gli altri non so, ma io perché ho iniziato?
Ammesso che io sia uno scrittore, non sono stato uno di quelli che a otto anni già scriveva poesie, racconti o romanzi. A otto anni giocavo a calcio, con la suprema sensazione che l’avrei fatto per tutta la vita. Ciò che accadeva all’oratorio, si sarebbe ripetuto prima sui campi di Brescia e provincia, poi d’Italia ed Europa, e infine nel mondo. Era talmente evidente. Così pensavo mentre indossavo la maglietta in cotone e senza sponsor della mia squadra preferita. Poi mi fermai invece ai rettangoli verdi di città e provincia.
Non sono nemmeno stato uno di quelli che durante l’adolescenza già aveva in testa un progetto più o meno articolato di come si costruisce un romanzo. Ad essere onesti nemmeno oggi ho in testa la formula esatta per scrivere un romanzo, e ho ormai 35 anni. Tardi anche per tornare indietro e provare a ripercorrere la via del calcio.
Prima di scrivere bisogna leggere, ma ad essere sincero, non sono stato nemmeno uno di quelli che, già da bambini, leggeva ad esempio Calvino. Preferivo sfogliare il Guerin Sportivo. Anzi ricordo ancora il dispiacere quando, durante una festa di compleanno, un compagno di classe particolarmente istruito mi regalò il libro per ragazzi “Orlando a Roncisvalle”. Era rilegato, aveva la copertina in cartoncino viola e tanti disegni colorati all’interno, ma dovetti fingere non poco dopo avere scartato il pacchetto. Mi piaceva? Certo che mi piaceva, mica come gli altri invitati che mi avevano regalato giochi o baggianate simili. “Orlando a Roncisvalle”, proprio quello che volevo. Ogni tanto lo riprendevo tra le mani, per non “sprecare” il regalo che mi era stato fatto. Per educazione. Lo aprivo, sbirciavo, primo rettangolo con le pagine di tanti che mi avrebbero “salvato” la vita, sul serio.
Ho cominciato a leggere tardi, e tardi ho iniziato a scrivere, durante il servizio militare. Forse perché ero a Casarsa della Delizia, dove era vissuto il bambino Pier Paolo Pasolini. Il viale che conduceva alla caserma portava il suo nome, o forse immagino adesso che sia così. Ma la solitudine del servizio militare, quella mi ha portato a scrivere. Dopo le prime settimane all’insegna delle uscite di gruppo, delle birre, delle sigarette o di qualcos’altro ricordo che pensai: avanti così, e non arrivo alla fine dell’anno.
Così iniziai a leggere, osservando lo stupore sul volto dei commilitoni che uscivano per la serata di sbronze e marijuana. Cosa ci facevo sulla branda con un libro tra le mani invece che andare con loro? Perché leggevo invece di uscire? Ero matto? Ero gay?
M’immergevo nel mio periodo “orientale”. Hermann Hesse ovviamente, altri che non ricordo, e un bel tomo sostanzioso dal titolo perentorio: “Buddha: i quattro pilastri della saggezza”. Quando i soldati rientravano in caserma, cantando e ruttando, contavo i pilastri che mi mancavano per non ridurmi come loro.
Poi iniziai a scrivere delle pessime poesie, quelle assolutamente di nascosto, dedicandole prevalentemente ad amori del passato, quasi sempre mai consumati. Marciavo per ore nel piazzale della caserma sotto il sole di agosto e mi sforzavo di non dimenticare quei versi che mi arrivavano da chissà dove, trapassando l’elmetto. Passo, cadenza, dietro-front. Camminare per ore senza andare da nessuna parte. Gli scarponi sbriciolavano il pavimento del cortile.
Questa cosa del nascondiglio mi ha poi sempre accompagnato, portandomi ad associare lo scrivere ad una cosa da fare senza farsi scoprire. Anche di ritorno dalla naja, quando mi sono lanciato nello straordinario mondo del lavoro. Dentro ogni professione svolta, il mio scopo era trovare il posto giusto per nascondermi e scrivere qualcosa. Vendevo lavatrici e frigoriferi, e dopo aver esaudito i desideri investigativi dei clienti (A cosa serve questo pulsante? Che differenza c’è tra 400 e 800 giri di centrifuga? La classe A di questo elettrodomestico, allora, ci spieghi… ) Dopo aver risposto, ecco, aprivo un frigorifero tra quelli esposti e prendevo un appunto, o scrivevo una poesia, appoggiandomi su uno dei ripiani in plastica e sfruttando la lucina interna. Poi riponevo il mio bloc notes delle “vendite” nella tasca del camice bianco, con la scritta Candy, Ariston o Whirlpool bene in evidenza.
Ma scusatemi se divago. Era per dire che niente può impedire a un uomo di scrivere, tranne se stesso. In altre epoche, in altre situazioni ben meno fortunate della mia, grandi scrittori hanno scritto, mentre tutto gli remava contro. Mentre scontavano condanne in galere, mentre subivano vessazioni. Scrivevano in prigione, e quando non era davvero possibile farlo lo facevano nella testa, capitolo dopo capitolo, e magari la speranza di poter srotolare un giorno quelle parole sopra un foglio era l’unica cosa capace di farli resistere all’orrore.
Scrivere per me è questo, non è costruire in romanzo o “un prodotto” il più accattivante possibile per un target di pubblico, come pensa la maggioranza dei direttori editoriali delle case editrici. Per questo ammiro i poeti, non essendolo. Ho avuto la fortuna di credere di esserlo, e successivamente di cercare di esserlo senza scrivere poesie.
Cogliere la scintilla, sentire che arriva, resta per me la sensazione più bella.
Scrivere permette di reagire. Dopo otto ore di lavoro magari, circondato da capi bestiali, da esseri parzialmente umani, arroganti e maleducati.
Quindi scrivo per sopravvivere con la maggiore serenità possibile, scrivo come se pregassi, cercando la religione migliore per me e per chi mi sta vicino.
Non sono nemmeno abbastanza furbo, spregiudicato o forse fortunato per trasformare l’eventuale briciolo di talento che ho in qualcosa di retribuito. Scrivo gratis, leggo gratis. Non sono un bravo imprenditore di me stesso.
Con tutti i libri che ho comperato dai diciotto anni in poi mi sarei potuto prendere l’automobile, mi disse una volta un parente, ma francamente pur avendo la patente non amo guidare. Preferisco leggere. E camminare.
Ho fatto solo sei mesi di Università. Facoltà di Lettere. Soffocavo di fronte alle liste dei libri da studiare che comprendevano quasi sempre un titolo del professore che teneva il corso, o di un suo amico. Non mi andava giù che fossero altri a scegliere ciò che dovevo leggere.
Poi ho preso l’abitudine, quando non lavoravo, di camminare per chilometri con i miei libri nello zaino, fino a quando non trovavo un parco adeguato al mio desiderio di leggere. Ogni libro come una pietra preziosa sulla quale scrivevo il mio nome e la data. Pessoa, Fitzgerald, Thoreau, Salinger, Fante, Bukowski, Penna, Proust, Carver…Arrivavo a sera che non avevo parlato con nessuno. Mi chiedevo se era normale.
I libri mi hanno sempre regalato la possibilità di respirare, anche in metropolitana, schiacciato dagli altri passeggeri devoti ai giornaletti gratuiti, capaci di rivelare loro fondamentali notizie, riguardanti ad esempio la presunta, imminente maternità di Carla Bruni.
Ho buttato tanti di quei soldi in carta che sono proprio felice.
Ma forse le cose che ho detto non c’entrano nulla. Nessuno può impedire a un uomo di scrivere, tranne se stesso, mi ha suggerito Cosimo Argentina, e questo è quello che mi è venuto in mente.