Il passaggio dall’oratorio alla squadra dell’Adrian Pam non era stato completamente indolore. All’oratorio tra noi bambini ci si conosceva bene, ogni giorno cambiavano le squadre ma se un pomeriggio ad esempio ti trovavi contro Matteo e Vincenzo, quello dopo sapevi che sarebbero invece stati con te. Di conseguenza le partite erano talvolta anche dure, ma mai cattive. E poi, sapendo di essere tra i tre più talentuosi del campetto, ben monitorato dal campanile e dalla croce luccicante, la sicurezza nei propri mezzi non mancava.
Scovato dalla squadra Pendolina, che aveva assunto negli anni Ottanta come nome quello dello sponsor, seguendo un’usanza ben più diffusa nella pallacanestro, la mia condizione era radicalmente mutata. Adesso avevo una divisa (maglietta blu con quattro strisce verticali sulla parte sinistra e logo centrale F.C. Adrian Pam, pantaloncini neri, calzettoni blu), facevo parte di un progetto.
L’allenatore Frizza, che m’aveva scoperto all’oratorio, avrebbe puntato su di me come centravanti della squadra esordienti. Il numero sarebbe stato il 9. Matteo e Vincenzo, rispettivamente difensore-centrocampista e portiere, avrebbero fatto parte anche loro della squadra, ma gli altri bambini no, erano tutti nuovi. Ci sarebbe voluto del tempo per formare il gruppo.
Non pensavo di essere un centravanti puro, mi vedevo più come seconda punta, o trequartista, influenzato in questa seconda convinzione dal ruolo del mio campione preferito, Michel Platini. Ma se mister Frizza mi vedeva col numero 9, aveva le sue buone ragioni, pensavo. In fondo aveva almeno cinquant’anni più di me, così a occhio e croce, e di bambini calciatori ne aveva pur visti.
Non eravamo una squadra formidabile. Dopo le prime giornate di campionato navigavamo tra la metà e la bassa classifica, ma avevamo ampi margini di miglioramento, sostenevano un po’ tutti. Se solo il centravanti avesse cominciato a segnare con maggiore frequenza…Ma ad essere onesti non si trattava di maggiore frequenza. La verità è che dovevo ancora mettere a segno il primo gol.
Durante gli allenamenti della settimana ero sempre tra i più bravi, ma la domenica mattina qualcosa mi bloccava senza rimedio. La paura di sbagliare, ecco. Leggevo sul Guerin Sportivo il mio idolo francese dichiarare che: “Michael Laudrup è il calciatore più forte del mondo, il giovedì” e quella frase sentivo che poteva riguardare anche me. Non sarei stato capace di spiegare con precisione il perché, ma forse ero più simile all’attaccante danese, che a Platini. Uno smacco, anche se Laudrup non era mica male. Cosa voleva dire di preciso Platini riferendosi al compagno? Era un complimento oppure no?
Pensavo anche a questo mentre mi nascondevo dietro i difensori della squadra avversaria. Mi era sembrata la soluzione più semplice. Meglio che avere la palla giusta, magari solo davanti al portiere, e tirargliela addosso oppure oltre la traversa. Mi era capitato, e il rammarico urlato del pubblico sulle tribune di ferro non mi era piaciuto per niente. Nooo! Avevano sospirato tutti insieme, come se si fossero messi d’accordo. Allora avevo deciso, meglio limitarsi a passaggi elementari, appoggiando spalle alla porta il pallone ai centrocampisti prima di correre verso l’area di rigore.
Mancavano poche giornate alla fine, e i gol segnati dal centravanti titolare dell’Adrian Pam erano…zero. Eppure Mister Frizza continuava a puntare su di me. Boh, forse nel mio nascondermi terrorizzato dietro lo stopper trovava qualcosa di speciale. O certo sperava che le mie prodezze del giovedì trovassero ripetizione nelle domeniche sui campi di Brescia e provincia.
Il fanalino di coda del nostro campionato era la squadra di Chiari. Il numero di gol subiti dallo Young Boys rasentava il record per la categoria esordienti in tutta la provincia. Avevano un campo bellissimo, un prato verde da sogno per noi che eravamo abituati a giocare su terra e sassi.Fabio, il numero 8 della Pendolina, aveva portato a spasso la difesa clarense per un paio di volte, consentendoci di terminare il primo tempo con un tranquillo 0-2. Nel secondo eravamo tutti più tranquilli, e perfino io tendevo a mimetizzarmi con meno ossessività dietro il numero 5.
Un cross da sinistra, una serie di rimpalli, il portiere del Chiari che non trattiene e la palla sui miei piedi a pochi metri dalla riga. Gol! Questo non potevo assolutamente sbagliarlo. Avevo fatto gol, e Frizza in panchina poteva finalmente esultare in un modo speciale, aveva vinto la sua scommessa. Avevo fatto gol. Il boato dei genitori in trasferta mi aveva galvanizzato al punto che pochi minuti dopo, seguendo un cross da destra, mi ero tuffato di testa centrando in pieno con la fronte il pallone che era andato nuovamente in rete. Questa volta avevano applaudito anche gli spettatori di casa. Poi un contropiede, un diagonale rasoterra appena sfiorato dal povero portiere dello Young Boys prima di infilarsi nell’angolino. Gol.Insomma era finita 0-5, e tre reti erano stato mie. Prima di entrare negli spogliatoi, Frizza da lontano mi aveva urlato: “Ma quanti ne hai fatti?”“Tre!” gli avevo risposto con la mano, attore protagonista di un sogno che pareva riguardarmi molto da vicino.
Nella stagione 1985-86 l’Adrian Pam si piazzò a metà classifica, un risultato niente male per una squadra non in grado di competere con le più forti del girone. Segnai altri gol, e la Pavoniana, tra le società più forti della città, mi convinse a passare a giocare per loro, indossando così una maglietta sempre blu, ma solo in centro perché le due maniche erano bianche. Ricordo Mister Frizza che ci rimase male. Mi aveva “creato” lui, e ora lo tradivo.
“Un altro anno qui non gli farebbe male…” l’avevo sentito dire a un collaboratore, e poi a mia madre.
Anni dopo, incontrandolo per caso non mi ricordo nemmeno dove, forse allo stadio a vedere il Brescia, si sorprese che avessi smesso di giocare. Mi disse che ero il ragazzo più forte che avesse mai allenato. Lo guardai, pensando stesse esagerando per l’emozione di rivedermi, e ci abbracciammo.