lunedì 26 aprile 2010

Quando Mario

(Savio per Bresciaingol)

Quando Mario indossò per la prima volta la maglia numero dieci con la V bianca sul petto, era l’inizio di settembre ma il sole picchiava ancora forte.

Salendo i gradini di pietra che portavano al rettangolo verde incorniciato da righe bianche, Mario ciondolava con i piedi a papera come suo solito, e guardava un po’ la tribuna dello stadio Rigamonti e un po’ avanti, evitando solamente quei riflessi di luce che dalla plastica delle panchine e dei cartelloni pubblicitari lo infastidivano, facendogli pensare per un attimo: dovrei giocare con gli occhiali da sole, come se mi trovassi in spiaggia, e non in serie A. Ma la gente penserebbe che non sono cambiato per niente.

In città aveva destato qualche perplessità la decisione di motivare ulteriormente Mario riesumando la casacca ritirata del campione più straordinario della storia del Brescia. Gli appassionati si erano divisi, ma poi, complice un’intervista di Roberto Baggio nella quale il trequartista di Caldogno aveva dichiarato che sì, a lui avrebbe fatto solamente piacere togliere dall’armadio la sua maglia per farla indossare al talento più limpido della nuova generazione di calciatori italiani, la maggioranza si era lasciata convincere. In fondo, quando era cominciata quella moda poco condivisibile di ritirare le maglie dei giocatori? Cosa c’entrava con il calcio? In fin dei conti non era la cosa più bella per un bambino sognare che un giorno, forse sarebbe toccato a lui mettersi addosso il numero che era stato di Roby Baggio?
Anzi, Roberto aveva fatto di più. Aveva aperto la scatola dei suoi ricordi di stoffa per prestare a Mario la fascia di capitano tricolore, ma di una bandiera diversa da quella nazionale, senza dubbio più religiosa.

Così Mario faceva senza dubbio una bella figura vestito d’azzurro, la prima domenica di settembre, mentre stringeva la mano al suo ex-compagno Javier Zanetti, sempre pettinato con la riga a sinistra, come un calciatore degli anni quaranta.

Caracciolo, Possanzini e Balotelli. Un azzardo per una squadra di provincia, o forse no. E poi eravamo all’inizio del campionato. Che senso aveva chiudersi a riccio per novanta minuti, pregando che Milito, Eto’o, Pandev, Snejder o Maicon non trovassero mai il varco giusto?
Il sole picchiava, illuminando il vecchio stadio che cadeva a pezzi.
Valeva la pena rischiare.