Nicola ha solo nove anni quando suo padre Guerrino, da tempo malato e costretto al letto, muore. Lui non è ancora che un bambino; passa le sue giornate a fantasticare di vincere il Giro d’Italia e a pedalare sulla sua bicicletta per il quartiere, a giocare a calcio con gli amici o dentro casa sognando un giorno di diventare più forte di Michel Platini, e di sfuggire al monotono destino di fare il materassaio, erede di suo padre e aiuto per la madre Leonilde e Camilla, la sorella.
Nasce così Mio padre era bellissimo, romanzo d’esordio di Francesco Savio, storia di una educazione domestica in piena regola che si fa ben presto un avvincente viaggio nell’amore di un figlio filtrato attraverso i ricordi. L’assenza, l’abisso della morte, la «biligornia» per un rapporto consumato in fretta e finito troppo presto, visti però con il candore e la lucidità spietata di un bambino che ancora non vuole rinunciare ai propri sogni.
I flashback familiari, le fughe e i saliscendi, le impressioni di vita in presa diretta, diventano dunque la voce di Nicola, le piastrelle di una vita per la quale le parole sono diventate troppo strette, ed escono con fatica come quelle a tratti balbuzienti del giovane protagonista: «Ma perché le persone morte restavano incastrate dentro le fotografie? Perché quando una persona non c’era più non se ne andavano via con lei? Sarebbe stato meglio. Ci volevano delle forbici per ritagliare via la persone morte dalle fotografie. Sarebbe stato tutto meno doloroso».
Tema dunque difficile quello con cui si confronta Savio, che però riesce nel proponimento di mostrarci l’irruzione della morte nella vita di chi ancora non ha avuto modo di chiedersi bene cosa sia. Lo fa servendosi di uno stile che in più di un tratto può ricordare quello di Cristiano Cavina, ma con una levità più letteraria e al tempo stesso un senso dolente dell’esistenza, perché, in fondo «[…]senza sacrifici non si realizzano i propri sogni».
Nasce così Mio padre era bellissimo, romanzo d’esordio di Francesco Savio, storia di una educazione domestica in piena regola che si fa ben presto un avvincente viaggio nell’amore di un figlio filtrato attraverso i ricordi. L’assenza, l’abisso della morte, la «biligornia» per un rapporto consumato in fretta e finito troppo presto, visti però con il candore e la lucidità spietata di un bambino che ancora non vuole rinunciare ai propri sogni.
I flashback familiari, le fughe e i saliscendi, le impressioni di vita in presa diretta, diventano dunque la voce di Nicola, le piastrelle di una vita per la quale le parole sono diventate troppo strette, ed escono con fatica come quelle a tratti balbuzienti del giovane protagonista: «Ma perché le persone morte restavano incastrate dentro le fotografie? Perché quando una persona non c’era più non se ne andavano via con lei? Sarebbe stato meglio. Ci volevano delle forbici per ritagliare via la persone morte dalle fotografie. Sarebbe stato tutto meno doloroso».
Tema dunque difficile quello con cui si confronta Savio, che però riesce nel proponimento di mostrarci l’irruzione della morte nella vita di chi ancora non ha avuto modo di chiedersi bene cosa sia. Lo fa servendosi di uno stile che in più di un tratto può ricordare quello di Cristiano Cavina, ma con una levità più letteraria e al tempo stesso un senso dolente dell’esistenza, perché, in fondo «[…]senza sacrifici non si realizzano i propri sogni».