Da bambino era uno che giocava in difesa, quindi quasi mai, all’oratorio, veniva scelto come primo quando si trattava di decidere chi voler essere durante la consueta partita pomeridiana.
“Io sono Platini!”
“Io Boniek!”
“Ma noo, volevo farlo io! Allora io Paolo Rossi!”
“Io Tardelli!”
“Io Cabrini!” (che era il più bello).
Da bambini si vede solo una dimensione delle cose, quella più appariscente, e talvolta gli eccessi sono più affascinanti di un’apparente, noiosa normalità. Gaetano Scirea diventava uno di noi sul campo dell’oratorio solo quando finivano gli attaccanti e i centrocampisti da interpretare. Scegliere Scirea inoltre voleva dire starsene in difesa, a protezione di Dino Zoff, anche se su questo punto perfino a nove anni capivamo che c’era qualcosa che non andava nel ragionamento più scontato.
“Perché pur essendo un difensore il numero 6 della Juventus segnava così spesso? Perché non si beccava mai un cartellino rosso?”
Chi faceva Scirea allora, era difensore, ma poteva sganciarsi in avanti, palla al piede, e tentare pure la via del gol. Se i compagni di squadra protestavano per l’abbandono della retroguardia, si poteva rispondere prontamente:
“Sono Scirea, posso”.
Immaginatevi una domenica degli anni ottanta. L’albergo era distante nemmeno duecento metri da casa mia. Lì dentro c’era la Juve, l’avevano capito tutti nel quartiere perché Bettega, la sera prima, si era intrufolato nella chiesa durante la messa delle diciotto. Tra i credenti si era alzato un sottile brusìo.
“Ma quello lì non è Bettega?”
“Ma certo, è Bettega! Domani c’è la Juve, è proprio lui”.
Gesù per un attimo aveva perso consensi, in chiesa c’era Roberto Bettega.
Immaginatevi una domenica mattina, la folla fuori dall’albergo, dopo un po’ ma che stiamo a farci, tanto non uscirà mai nessuno. Ma no, forse qualcuno sì. Dai, aspettiamo ancora dieci minuti.
Gaetano Scirea che firma autografi una domenica mattina degli anni ottanta. Un uomo timido, gentile, che pare serio, ma poi sorride appena e ci conquista tutti con uno sguardo. Come faccio a spiegarlo a un bambino di oggi. A descrivere un’eleganza sul campo fuori dal comune, una correttezza combattiva da campione del mondo. Mi viene in mente solo una cattiveria, che non vorrei dire, ma mi scappa. Ecco bambini, immaginatevi Marco Materazzi. Fatto? Ok, adesso pensate all’esatto contrario.