(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
Nel giugno del 2006, mi trovavo a Malaga in uno di quei ristoranti di pesce sul mare poco fuori la città che consiglio a chiunque passi da quelle parti mentre De Rossi colpiva con una gomitata lo statunitense Mc Bride. L’Italia restava in dieci, e la partita si faceva complicata. Mai avrei pensato che di lì a poco la Nazionale avrebbe vinto il suo quarto Mondiale. Un cameriere quasi grasso aveva la camicia bagnata di sudore sulla schiena e trottava come un ragazzino tra i tavoli, pur avendo circa cinquant’anni. Osservandolo, pensavo a come poteva essersi sviluppata la sua vita, se anche da giovane correva così schivando sedie e mangiatori. Se i ragazzi di Lippi avessero raggiunto la grinta e l’umiltà di quel cameriere, nessun avversario sarebbe stato imbattibile.
Più lontano, un ragazzo aveva parcheggiato la sua automobile a pochi centimetri dal mare. Aveva aperto le portiere per far uscire la musica che stava ascoltando e si era seduto sopra il cofano. Fumava una sigaretta guardando l’orizzonte. Avevo desiderato vivere in luogo dove si potesse arrivare in macchina sul mare per lavarsi via lo sporco di certe giornate.
Domenica sera invece ero a Milano. Dopo aver architettato un sistema di finestre spalancate in stanze contrapposte per creare la maggiore corrente d’aria possibile, l’inizio della Finale dei diciannovesimi Campionati del Mondo mi è bastato per intuire che tradire la propria storia calcistica non avrebbe portato l’Olanda di Van Marwijk a nessun risultato. Durante gli inni, la speranza di vedere la Spagna trionfare era stata messa leggermente in dubbio dal ricordo dei due Mondiali persi ingiustamente dagli Orange nel 1974 e nel 1978. Ma i falli a ripetizione degli Arancioni hanno fatto scivolare questa idea di compensazione da giacchetta nera di basso livello nella parte più remota del mio cervello. La Spagna macinava il suo solito gioco, i tre cervelli del centrocampo Xavi, Iniesta e Alonso provavano a venire a capo della difesa a oltranza di Heitinga e compagni che gareggiavano tra loro in tentativi di intimidazione dell’avversario mediante ripetute randellate e sorprendenti colpi di Kung-fu. Quando De Jong ha provato a uccidere Xabi Alonso con un calcio al petto ho cominciato a tifare spudoratamente per le Furie Rosse. Il pessimo Webb condensava nelle sue decisioni tutta la vigliacca incompetenza di un arbitro non all’altezza della situazione, a dire il vero non aiutato dal comportamento antisportivo di Van Bronckhorst eccetera. Van Bommel, favorito alla vigilia della manifestazione sudafricana per la conquista dell’ambito “Matrix d’oro” assegnato da questa edizione al calciatore dei Mondiali più sleale, schiumava rabbia per il tentativo di sorpasso del collega di centrocampo, messo in atto con l’audacia dello studente che voleva superare il maestro. La Spagna sprecava (e avrebbe continuato a farlo fino a quattro minuti dalla fine) e certi contropiedi Sneijder-Robben gelavano la mia ambizione di vedere premiato il gioco del calcio. Quando Fabregas nel primo tempo supplementare si è divorato l’ennesima occasione, ho pensato seriamente al peggio. Olanda Campione ai calci di rigore. Ma troppe cose combaciavano. Iker Casillas, oltre ad apparire insuperabile e ad avere una fidanzata molto bella pronto a baciarlo in caso di vittoria appena finita la partita, ogni minuto che passava assomigliava sempre più a Dino Zoff mentre la fascia di capitano gli scivolava verso il gomito. Avrebbe alzato la Coppa d’oro come SuperDino, ventotto anni dopo. Gli occhi di Jesus Navas erano azzurri come il ghiaccio, e raccontavano la storia di una debolezza vinta, di attacchi d’ansia superati una volta per tutte. Il volto sornione di Del Bosque e la sua impeccabile correttezza, contrapposta all’isterismo di certi allenatori di Setubal plurigettonati dai cantori del “conta solo vincere”, meritavano il premio più prezioso. Il diagonale del pallido Iniesta ha reso giustizia alla squadra che ha giocato a pallone, per vincere, e anche Johan Cruijff, nel seguire con gli occhi (arancio e catalani) la traiettoria tesa infilarsi nell’angolo alla destra del portiere, ha pensato che in fondo non gli dispiaceva poi tanto.
Più lontano, un ragazzo aveva parcheggiato la sua automobile a pochi centimetri dal mare. Aveva aperto le portiere per far uscire la musica che stava ascoltando e si era seduto sopra il cofano. Fumava una sigaretta guardando l’orizzonte. Avevo desiderato vivere in luogo dove si potesse arrivare in macchina sul mare per lavarsi via lo sporco di certe giornate.
Domenica sera invece ero a Milano. Dopo aver architettato un sistema di finestre spalancate in stanze contrapposte per creare la maggiore corrente d’aria possibile, l’inizio della Finale dei diciannovesimi Campionati del Mondo mi è bastato per intuire che tradire la propria storia calcistica non avrebbe portato l’Olanda di Van Marwijk a nessun risultato. Durante gli inni, la speranza di vedere la Spagna trionfare era stata messa leggermente in dubbio dal ricordo dei due Mondiali persi ingiustamente dagli Orange nel 1974 e nel 1978. Ma i falli a ripetizione degli Arancioni hanno fatto scivolare questa idea di compensazione da giacchetta nera di basso livello nella parte più remota del mio cervello. La Spagna macinava il suo solito gioco, i tre cervelli del centrocampo Xavi, Iniesta e Alonso provavano a venire a capo della difesa a oltranza di Heitinga e compagni che gareggiavano tra loro in tentativi di intimidazione dell’avversario mediante ripetute randellate e sorprendenti colpi di Kung-fu. Quando De Jong ha provato a uccidere Xabi Alonso con un calcio al petto ho cominciato a tifare spudoratamente per le Furie Rosse. Il pessimo Webb condensava nelle sue decisioni tutta la vigliacca incompetenza di un arbitro non all’altezza della situazione, a dire il vero non aiutato dal comportamento antisportivo di Van Bronckhorst eccetera. Van Bommel, favorito alla vigilia della manifestazione sudafricana per la conquista dell’ambito “Matrix d’oro” assegnato da questa edizione al calciatore dei Mondiali più sleale, schiumava rabbia per il tentativo di sorpasso del collega di centrocampo, messo in atto con l’audacia dello studente che voleva superare il maestro. La Spagna sprecava (e avrebbe continuato a farlo fino a quattro minuti dalla fine) e certi contropiedi Sneijder-Robben gelavano la mia ambizione di vedere premiato il gioco del calcio. Quando Fabregas nel primo tempo supplementare si è divorato l’ennesima occasione, ho pensato seriamente al peggio. Olanda Campione ai calci di rigore. Ma troppe cose combaciavano. Iker Casillas, oltre ad apparire insuperabile e ad avere una fidanzata molto bella pronto a baciarlo in caso di vittoria appena finita la partita, ogni minuto che passava assomigliava sempre più a Dino Zoff mentre la fascia di capitano gli scivolava verso il gomito. Avrebbe alzato la Coppa d’oro come SuperDino, ventotto anni dopo. Gli occhi di Jesus Navas erano azzurri come il ghiaccio, e raccontavano la storia di una debolezza vinta, di attacchi d’ansia superati una volta per tutte. Il volto sornione di Del Bosque e la sua impeccabile correttezza, contrapposta all’isterismo di certi allenatori di Setubal plurigettonati dai cantori del “conta solo vincere”, meritavano il premio più prezioso. Il diagonale del pallido Iniesta ha reso giustizia alla squadra che ha giocato a pallone, per vincere, e anche Johan Cruijff, nel seguire con gli occhi (arancio e catalani) la traiettoria tesa infilarsi nell’angolo alla destra del portiere, ha pensato che in fondo non gli dispiaceva poi tanto.