mercoledì 27 aprile 2011

Brescia-Milan 0-1 (Goffredo Robinho, padrone al Rigamonti)

Al termine del primo emozionante giorno di lavoro a Milano, il dipendente senza nome de Il padrone di Goffredo Parise, decise di acquistare a rate un impermeabile-paracadute e in contanti un biglietto di gradinata numerata per la partita che, il sabato successivo, avrebbe messo di fronte la squadra della città dov’era nato e quella della grande città dove si era appena trasferito.

Il pomeriggio di Brescia-Milan, dentro il Rigamonti, si ricordò di un altro tipo di emozione, infantile e non lavorativa: quando aveva scoperto per la prima volta a fianco del padre lo stadio che pareva prendere il nome dal disegno che le montagne sullo sfondo andavano a comporre con la riga di cemento delle tribune. Per questo, dovevano averlo chiamato Rigamonti.

Mentre il tempo indeciso tra sole e qualche goccia gli faceva mettere e togliere ripetutamente l’impermeabile, con la paura di sporcare ciò che doveva ancora pagare, il dipendente pensava al rapporto che si stava creando tra lui e il padrone, il dottor Max, al perché di quella secrezione bianca che talvolta si formava agli angoli della bocca del padrone: non era anche lui un uomo come gli altri? No, e forse proprio questa secrezione lo dimostrava, apparentandolo in qualche modo ad un’altra specie. Oppure chi aveva creato lui e tutti gli altri personaggi di quel romanzo del 1965, cioè lo scrittore vicentino Goffredo Parise, aveva solamente pensato di affibbiare ad ognuno dei segni distintivi e caratterizzanti personalità e comportamenti? La madre del dottor Max ad esempio, era in possesso di capelli magnetici e dotati di carica elettrica centrifuga che li sollevava lanciandoli verso lo spazio, e forse le secrezioni del padrone e figlio, erano la conseguenza di tutta l’immensa carica di sensibilità contenuta nei capelli di lei.

Fin dall’inizio dell’incontro, l’alternanza di dominio e difesa che Milan e Brescia praticavano sul terreno di gioco, impediva al dipendente di scollegarsi completamente da certi meccanismi della ditta che l’aveva appena assunto, peraltro assegnandogli come ufficio il bagno personale del padrone, a onor del vero privato di lavandino e water, sostituiti da tavolo e sedia. Come non riconoscere tuttavia nella partenza autorevole del Diavolo di Allegri (il dottor Max rossonero) il desiderio di far capire subito al sottomesso Brescia chi era che comandava? Per fortuna delle rondinelle, Robinho e Cassano sprecavano facili occasioni, e i primi quarantacinque minuti terminavano zero a zero.

Nel secondo tempo però, il dipendente Brescia osava trasformarsi in padrone, guidato senza dubbio dalla coraggiosa disperazione di trovarsi penultimo a cinque giornate dal termine del campionato.
Al punto massimo di questa rivolta, l’anarchico Diamanti colpiva la traversa con una magistrale punizione mancina calciata dal centrodestra. Era il minuto ottantatre. Solo due dopo, in modo oggettivamente incomprensibile, il parigino Jonathan Zebina si trovava solitario a fronteggiare il contropiede di Antonio da Bari vecchia e Robinho. Nel panico, aspettava un secondo di troppo per tentare un fuorigioco con poche chanche, Cassano la passava al brasiliano presunto mangiagol che dal limite infilava rasoterra un incolpevole Arcari. Era il goal scudetto.

Senza pioggia, con l’impermeabile acceso a paracadute pronto ad ascendere verso il cielo (o almeno verso il calcio inglese) il dipendente osservava sgomento sedicenti tifosi del Brescia minacciare di botte, morte o tagliamento gola padri e bambini rossoneri, colpevoli di aver esultato.