mercoledì 25 agosto 2010

Un'estate tra Martin Eden e Marco Pantani


Martin Eden non ha fatto in tempo a vedere Marco Pantani, e Marco Pantani non credo abbia letto Martin Eden.

Questa estate però li ho confusi spesso, per la leggera somiglianza dei nomi Marco e Martin, perché le avventure sublimi e disperate del protagonista del romanzo di Jack London mi hanno ricordato certi attacchi violenti e improvvisi del Pirata o Pantadattilo, come amava chiamarlo Gianni Mura nei suoi articoli, raccolti ne "La fiamma rossa", l'altro splendido libro che mi ha accompagnato quest'estate.

Ascendevo anch'io (un po' Martin, un po' Marco) verso la cima del monte di turno, aspettando lo stesso vento che soffiava sul Petrarca, ricordando l'inarrivabile bellezza di quell'invenzione alpinistica sul Mont Ventoux. Immaginavo il Poeta andare alla ricerca (come Eden) di un editore per la sua lettera "L'ascesa al Monte Ventoso" e scontrarsi sistematicamente con i rifiuti di chi trovava la sua opera inadatta al mercato ("Petrarca, lei lo sai meglio di me che il genere epistolare non tira").

Lasciavo i miei compagni di scalata ma senza togliermi cappellino, bandana e orecchino. Guadagnavo metri, girandomi a controllare se Ullrich o Riis ne avessero ancora. Ma no, non ne avevano più.
Poi mi accorgevo di non essere Pantani, e nemmeno Martin Eden.

Pensavo al peso di certe vittorie, sportive ed editoriali. Che i sette Tour vinti da Armstrong non valessero la metà di quello vinto da Marco Pantani. Questione di modi, di passione, di pazzia.
Che un libro come quello di Jack London, per chi sogna di fare lo scrittore, vale più di qualche corso di scrittura, e manuali di creatività.