Luciano giunto a Milano faticava a trovare il tempo giusto per attraversare. A Grosseto-Kansas City le strade erano più strette, talvolta ancora non asfaltate, il traffico inesistente. Si poteva passare da un marciapiede all’altro senza guardare. E non dovendosi particolarmente concentrare mentre i piedi pensavano a dove arrivare, la testa progettava articoli, racconti, romanzi.
A Milano niente di tutto questo. L’importante era raggiungere l’altra riva, salvi. Controllando a destra, poi a sinistra. E una volta scelto l’attimo propizio, percorrere le strisce pedonali lungo l’estremità più vicina alla macchina in arrivo, così che l’eventuale impatto con l’autovettura, consentisse al pedone di essere sì scaraventato a terra, ma con almeno una porzione di corpo sulle strisce bianche. Usando questo trucco l’automobilista milanese, autoctono o adottato, non avrebbe potuto fare nulla: quel polpaccio senza vita o ferito ancora adagiato su uno dei rettangoli bianchi rappresentava un ostacolo insuperabile per il desiderio di convincere l’assicurazione che Luciano aveva attraversato senza guardare, e nemmeno utilizzando le strisce pedonali.
Oggi la situazione del pedone a Milano è ulteriormente peggiorata. Bianciardi non può più attraversare. O può farlo solo correndo, un po’ frenato dal soprabito e dal fumo della sigaretta stretta tra le labbra come un penna che brucia. Un’ala destra coraggiosa e veloce, decisa a raggiungere ad ogni costo la riga di fondo, per crossare e mettere sulla testa del centravanti la palla giusta.
Ma il rischio è di essere travolti, anche sulle strisce pedonali o perfino sui marciapiedi, dove i pedoni camminano radenti alle pareti dei palazzi per salvare la pelle, mentre le macchine eseguono manovre sempre più complesse per incastonarsi tra alberi, cestini dello sporco, motorini, esseri umani e pali della luce.
L’automobilista milanese adesso non si ferma più. O lo fa solo nel caso d’immediato decesso dell’attraversante, interrompendo controvoglia la personale gara nel circuito meneghino per accostare insofferente, scendere dal cavallo di ferro e spostare il cadavere sbuffando, trascinandolo per i piedi, almeno fino al bordo della strada.
A Milano niente di tutto questo. L’importante era raggiungere l’altra riva, salvi. Controllando a destra, poi a sinistra. E una volta scelto l’attimo propizio, percorrere le strisce pedonali lungo l’estremità più vicina alla macchina in arrivo, così che l’eventuale impatto con l’autovettura, consentisse al pedone di essere sì scaraventato a terra, ma con almeno una porzione di corpo sulle strisce bianche. Usando questo trucco l’automobilista milanese, autoctono o adottato, non avrebbe potuto fare nulla: quel polpaccio senza vita o ferito ancora adagiato su uno dei rettangoli bianchi rappresentava un ostacolo insuperabile per il desiderio di convincere l’assicurazione che Luciano aveva attraversato senza guardare, e nemmeno utilizzando le strisce pedonali.
Oggi la situazione del pedone a Milano è ulteriormente peggiorata. Bianciardi non può più attraversare. O può farlo solo correndo, un po’ frenato dal soprabito e dal fumo della sigaretta stretta tra le labbra come un penna che brucia. Un’ala destra coraggiosa e veloce, decisa a raggiungere ad ogni costo la riga di fondo, per crossare e mettere sulla testa del centravanti la palla giusta.
Ma il rischio è di essere travolti, anche sulle strisce pedonali o perfino sui marciapiedi, dove i pedoni camminano radenti alle pareti dei palazzi per salvare la pelle, mentre le macchine eseguono manovre sempre più complesse per incastonarsi tra alberi, cestini dello sporco, motorini, esseri umani e pali della luce.
L’automobilista milanese adesso non si ferma più. O lo fa solo nel caso d’immediato decesso dell’attraversante, interrompendo controvoglia la personale gara nel circuito meneghino per accostare insofferente, scendere dal cavallo di ferro e spostare il cadavere sbuffando, trascinandolo per i piedi, almeno fino al bordo della strada.