Nella stagione in cui la vita, un giorno dopo l’altro, lasciava spazio alle richieste sempre più pressanti della morte, il vecchio scrittore trascorreva le sue ore accarezzando l’amato gatto nella casa-buen retiro di campagna. L’ispirazione se n’era andata da un bel po’, ma qualche ex collega dei giornali per cui aveva scritto lo chiamava ancora per dei pezzi facili: un commento sul gran caldo, il ricordo di una lontana vacanza, una rapida analisi della situazione politica ed economica del Paese (effettuata sempre dallo stesso lato della barricata, quello che per anni gli aveva fatto fare la bella vita). Ma le idee, quelle importanti, non gli venivano più, e con la maturità anagrafica il vecchio scrittore si era pure reso conto che forse lui il talento non l’aveva mai avuto, ed era stato solamente bravo a intrufolarsi nei salotti giusti al momento giusto, e a oliare a dovere le penne dei critici che avevano il compito di definire “grande” ogni suo nuovo libro. No, il talento lui non ce l’aveva mai avuto, ma questa spiacevole scoperta di fine corsa se la sarebbe tenuta per sé.
Così, tra una lisciata di pelo e l’altra al felino preferito, lo scrittore pensionato poteva soddisfare con il maggior tempo a disposizione certe sue passioni che, durante la vita lavorativa passata a scrivere o a far finta di farlo, non aveva mai potuto coltivare a fondo: rileggere le grandi opere che l’avevano emozionato, e picchiare la moglie. Da Proust a Kafka, passando per Musil e Joyce. Ma soprattutto Thomas Mann. I “Buddenbrook”. Quello voleva rileggere, tra una lisciata e l’altra. Sfogliare quel (lungo) capolavoro sulla terrazza della sua casa di campagna, confezionata nel verde. E poi c’era quell’altra cosa che ora poteva fare con più leggerezza. Una cosa che gli aveva dato sempre parecchie emozioni: picchiare la moglie.
Nella frenesia della sua vita di scrittore attivo aveva potuto farlo con poca sostanza e spesso aveva dovuto sostituire pestaggi completi con un semplice urlo o un solo schiaffo o una sola stortata di braccio. Ora finalmente aveva più tempo. Per lui era sempre stato un modo per sentirsi uomo, per dimostrare chi portava i pantaloni in famiglia, con o senza cintura.
Ma se da scrittore la ricercatezza di certe frasi o la raffinatezza di certe trame gli erano sempre state estranee, come picchiatore di donna invece sapeva essere creativo. Non colpiva mai con grossolanità. Pugni nell’addome o sberle perentorie non erano nel suo stile. Il vecchio scrittore prediligeva finezze di altro tipo, come aprire le ante dei mobiletti della cucina quando la moglie si abbassava per caricare la lavatrice, di modo che rialzandosi lei avesse il piacere di sbattere la testa contro lo spigolo affilato, magari in vetro. Poi l’aggrediva immediatamente, urlandole di stare attenta. Erano queste le sue soddisfazioni. Ma c’erano della volte in cui, tornando a casa stressato e abbattuto per un premio alla carriera assegnato al rivale più odiato, lasciava perdere lo stile e pestava la moglie come capitava, un colpo meschino dopo l’altro, tra grida animalesche e subumane.
Poi ritornava in sé, e si metteva sulla terrazza a rileggere la limpida prosa di Thomas Mann.
Così, tra una lisciata di pelo e l’altra al felino preferito, lo scrittore pensionato poteva soddisfare con il maggior tempo a disposizione certe sue passioni che, durante la vita lavorativa passata a scrivere o a far finta di farlo, non aveva mai potuto coltivare a fondo: rileggere le grandi opere che l’avevano emozionato, e picchiare la moglie. Da Proust a Kafka, passando per Musil e Joyce. Ma soprattutto Thomas Mann. I “Buddenbrook”. Quello voleva rileggere, tra una lisciata e l’altra. Sfogliare quel (lungo) capolavoro sulla terrazza della sua casa di campagna, confezionata nel verde. E poi c’era quell’altra cosa che ora poteva fare con più leggerezza. Una cosa che gli aveva dato sempre parecchie emozioni: picchiare la moglie.
Nella frenesia della sua vita di scrittore attivo aveva potuto farlo con poca sostanza e spesso aveva dovuto sostituire pestaggi completi con un semplice urlo o un solo schiaffo o una sola stortata di braccio. Ora finalmente aveva più tempo. Per lui era sempre stato un modo per sentirsi uomo, per dimostrare chi portava i pantaloni in famiglia, con o senza cintura.
Ma se da scrittore la ricercatezza di certe frasi o la raffinatezza di certe trame gli erano sempre state estranee, come picchiatore di donna invece sapeva essere creativo. Non colpiva mai con grossolanità. Pugni nell’addome o sberle perentorie non erano nel suo stile. Il vecchio scrittore prediligeva finezze di altro tipo, come aprire le ante dei mobiletti della cucina quando la moglie si abbassava per caricare la lavatrice, di modo che rialzandosi lei avesse il piacere di sbattere la testa contro lo spigolo affilato, magari in vetro. Poi l’aggrediva immediatamente, urlandole di stare attenta. Erano queste le sue soddisfazioni. Ma c’erano della volte in cui, tornando a casa stressato e abbattuto per un premio alla carriera assegnato al rivale più odiato, lasciava perdere lo stile e pestava la moglie come capitava, un colpo meschino dopo l’altro, tra grida animalesche e subumane.
Poi ritornava in sé, e si metteva sulla terrazza a rileggere la limpida prosa di Thomas Mann.