Il cameriere che leggeva La Capria, non lo faceva mai durante l’orario di lavoro. O meglio, lo faceva ma nella sua testa, ripassando velocemente i racconti che aveva studiato poco prima in metropolitana. C’era quello in cui…l’altro invece nel quale…Amava sottolineare le frasi che gli erano piaciute di più. Leggere così era più impegnativo (ad esempio doveva portarsi sempre dietro una matita) in particolare quando gli capitava fra le mani un libro come “Fiori giapponesi”. Avrebbe dovuto infatti sottolineare tutto. Aveva imparato allora a fare due segni, uno all’inizio e uno alla fine di ogni pagina. Non era stupido, pensava, anche se era solo un cameriere aveva pure lui le sue astuzie. Nascondeva la matita nel taschino della camicia bianca. Era la stessa con cui aveva evidenziato frasi, interi periodi. Il difficile in determinate occasioni era non confondere l’eleganza di un pensiero con un risotto, e tirare righe dritte. Non sopportava quando i segni sul libro non era sostanzialmente paralleli, quando il grigio-linea sotto le parole tremolava.
La Capria aveva esordito nel 1952 con “Un giorno d’impazienza”. Il secondo libro era uscito nel 1961, “Ferito a morte”. Cosa diavolo aveva fatto in quei nove anni? Erano altri tempi, pensava il cameriere. Erano fatti suoi. Pause così lunghe avrebbero spaventato scrittori e editori di oggi. Ma di più gli scrittori quantitativi. Quelli pronti ad elencare tronfi la loro produzione: “Ho 42 anni. Ho scritto 12 romanzi, 8 raccolte di racconti, 4236 poesie”. In fondo però queste erano cose che non lo riguardavano. Ci teneva di più a scomparire per un attimo nella cucina del ristorante, lontano almeno per qualche minuto dagli sguardi tristi del caposala, che non avrebbe mai letto La Capria in tutta la vita. Ci teneva di più a ricordarsi delle virgole, dei punti, a ripetersi nel cervello il ritmo di ogni fiore giapponese. Se fosse riuscito a farli sbocciare di nuovo nella sua testa, pensava, un giorno magari avrebbe scritto così bene anche lui.
La Capria aveva esordito nel 1952 con “Un giorno d’impazienza”. Il secondo libro era uscito nel 1961, “Ferito a morte”. Cosa diavolo aveva fatto in quei nove anni? Erano altri tempi, pensava il cameriere. Erano fatti suoi. Pause così lunghe avrebbero spaventato scrittori e editori di oggi. Ma di più gli scrittori quantitativi. Quelli pronti ad elencare tronfi la loro produzione: “Ho 42 anni. Ho scritto 12 romanzi, 8 raccolte di racconti, 4236 poesie”. In fondo però queste erano cose che non lo riguardavano. Ci teneva di più a scomparire per un attimo nella cucina del ristorante, lontano almeno per qualche minuto dagli sguardi tristi del caposala, che non avrebbe mai letto La Capria in tutta la vita. Ci teneva di più a ricordarsi delle virgole, dei punti, a ripetersi nel cervello il ritmo di ogni fiore giapponese. Se fosse riuscito a farli sbocciare di nuovo nella sua testa, pensava, un giorno magari avrebbe scritto così bene anche lui.