Milano – Ma quale Italia, oggi pomeriggio dalle 17.30 alle 19.15 sono
andato al parco di Pagano con Pietro a fare le scivolate e un po’ di altalena,
quindi abbiamo giocato a calcio con un bambino cinese che si chiamava Miao, e
cioè visto che i rispettivi eredi avevano iniziato a calciare l’uno in
direzione dell’altro e a ripetizione, mi era sembrato il caso di socializzare e avevo
detto:
“Ecco lui si chiama Pietro e invece tu…”
“Miao”
aveva risposto la mamma venendo in soccorso allo sguardo interrogativo
che mi lanciava il piccolo gatto, e io avevo risposto:
“Ah” e per il resto dei palleggi non avevo avuto il coraggio di chiamare
il bambino “Miao”, perché temevo di non aver capito bene, forse aveva detto “Ao”,
certo che anche “Ao”, e allora avevo continuato a chiamarlo “Bambino”,
supplendo a questa decisione linguistica interpretabile come freddezza con una
serie quasi eccessiva di complimenti riferiti a Miao (ma anche a Pietro) ogni
volta che questi due si passavano il pallone:
“Hai visto che bravo il bambino che te l’ha passata?” “Bravo Pietro!”
Poi Miao era caduto e si era sporcato le mani di sabbia, la madre
aveva detto Andiamo alla fontanella, Pietro aveva detto dispiaciuto Dove vanno?
Io gli avevo risposto Vanno alla fontanella.
Non erano più tornati, così Pietro aveva inforcato la bicicletta Strider e avevamo percorso la pista
ciclabile che dal parco portava più o meno a casa nostra, erano le 19 quindi
ora di cena, varcata la soglia avevo messo su l’acqua a scaldare, gettato gli spätzle nel trasparente bollente, grattato il
parmigiano sopra dopo aver scolato e acceso la radio, non prima di aver
soffiato sul piatto del figlio prima che si scottasse la lingua. Prima intorno,
poi in centro. A due anni e mezzo lo sapeva ormai anche Pietro come bisognava
comportarsi con le pappe che scottavano quindi tutto era andato per il verso
giusto, Miao, mentre il radiocronista diceva Buffon (e Pietro rideva) diceva
Pirlo (e Pietro rideva) diceva Balotelli (e Pietro rideva). Non rideva invece
quasi nessuno a Milano, perché la Nazionale perdeva uno a zero dal
quarantaquattresimo del primo tempo a causa della rete di testa subita da Bryan
Ruiz, e mostrava sul terreno di gioco la stessa reazione di una trota pescata e
lasciata a finir di vivere sul prato vicino a un lago di montagna, senza nessun
pescatore moderno ed ecologico che si decidesse a rigettarla in acqua per
provare a pareggiare. In tutto il secondo tempo infatti l’Italia riusciva ad
impensierire la Costa Rica solo con un tiro debole di Cassano, con una botta di
Darmian che Navas deviava sopra la traversa e con una punizione di Pirlo
respinta di pugni dall’estremo difensore costaricano. Fine della
programmazione, non prima di aver rischiato il secondo goal con un contropiede
del neo entrato Urena fermato casualmente da un non deambulante Chiellini, per
tutta la partita preoccupante sosia dell’attore statunitense Peter Boyle,
splendido interprete del Frankenstein
Junior di Mel Brooks. Pietro beveva l’ultimo sorso dalla borraccia del
papino e pensavamo di concludere il venerdì con una breve seduta defaticante in
corridoio: qualche azione dalla porta d’ingresso a quella dello sgabuzzino, un
paio di tuffi sul pavimento al grido di “Parata Buffon!” per abbrancare il
pallone. Poi scendeva il buio e Pietro s’addormentava, io leggevo altre pagine
del bello proprio perché inadeguato giro sentimentale in bicicletta di Antonio
Pascale e immaginavo Zdenek Zeman affermare che la Costa Rica doveva uscire
dalle farmacie, me stesso recriminare che giocando all’una a Recife si sarebbe
dovuta pretendere almeno l’aria condizionata in campo, Cavani e Suarez sfregarsi
le mani al pensiero di come avrebbero fatto a pezzi la difesa azzurra nella
partita decisiva di martedì prossimo a Natal, quando a noi sarà sufficiente non
perdere per passare il girone come seconda, mentre l’Uruguay invece sarà
costretto a vincere senza troppi ragionamenti, quindi.