Ecco il testo completo dell'intervista uscita oggi sul Giornale di Brescia. Contiene qualche spunto in più, rispetto alla versione cartacea. Le domande sono di Francesco Mannoni.
Perché ha definito “sottovita” una vita apparentemente
normale e sostanzialmente originale nella sua normalità? Che cosa,
principalmente declassa a sottovita l’esistenza del protagonista?
La definizione di sottovita riguarda un
segmento temporale dell’esistenza del protagonista, quello analizzato durante
lo scorrere del romanzo. Si tratta di una vita non credo normale, per quanto il
concetto di normalità sia giustamente soggetto a svariate interpretazioni. Il
nostro personaggio, un libraio-scrittore travolto dagli impegni lavorativi,
dalle questioni famigliari, non riesce più a scrivere, a godere del bello,
artistico e paesaggistico, che lo circonda. Potrebbe rinunciare e optare per
una non-esistenza, del resto abbastanza comune tra gli umani, ma perché
arrendersi? Allora si ritaglia spazi dove non ci sono. Lavora dal mattino
presto fino al primo pomeriggio, quindi trascorre diverse ore con i figli,
spesso da solo e senza aiuti a causa degli impegni lavorativi della moglie e
dell’assenza dei nonni nella città in cui vive. Arriva a sera con la casa
sottosopra da sistemare, con la lavatrice e la lavastoviglie da fare in
compagnia della moglie ritornata, ecc. Quando può scrivere? Di notte, con il
cervello sbriciolato? Molti conducono esistenze così, è vero, ma senza scrivere. Diversi scrittori anzi non
cucinano, non lavano e non stendono, lavorano poco o niente. Oppure hanno
persone che si occupano della gestione della casa e in parte dei figli, magari
mogli non lavoranti. Ho conosciuto scrittori così. Buon per loro, forse
(ma lo stile può risentirne, i loro libri spesso sono brutti e noiosi perché
non vivi, senza fuoco dentro). La loro vita è un altro sport rispetto a quella
del protagonista de La sottovita.
Il romanzo, in che misura è effettivamente
autobiografico? Il protagonista quanto le somiglia?
Una sera mi sono messo alla scrivania e ho fatto i conti: La sottovita è un romanzo autobiografico
al 73%. Il protagonista invece mi assomiglia non poco (qui la percentuale
onestamente potrebbe arrivare all'86%). Questi dati fanno de La sottovita un romanzo autobiografico?
Forse. Ma senza etichette di certezza. La scrittura, almeno la mia,
comporta deragliamenti non prevedibili. Così, mi è capitato di iniziare a
prendere appunti su un foglio per poi ritrovarmi a essere scritto dal foglio.
Realtà e finzione si mescolano, poi rileggo e non ricordo più quali siano,
delle cose scritte, quelle che davvero mi sono accadute.
Com'era vendere lavatrici a Desenzano?
Bisogna chiederlo al protagonista del romanzo. Eccolo. Lui mi
risponde: avevo poco più di vent’anni, quindi era bello. Le lavatrici erano un pretesto.
Partivo da Brescia e lavoravo nel fine settimana a Desenzano. Giravo tra le
carica dall’alto e quelle con l’oblò. Mi fermavo a scrivere sopra pezzetti di
carta quando non c’erano clienti. Li nascondevo nelle tasche quando arrivava
qualcuno. Lo ammetto, erano poesie. Non dati di vendite. In pausa pranzo
leggevo e guardavo il lago. Mi ripetevo di frequente: adesso vado in biblioteca
a conoscere Francesco Permunian. Così m’insegna il mestiere. Ma poi non ci andavo
mai. Anche perché spesso, sul lungolago, passavano alcune belle ragazze che mi
facevano dimenticare immediatamente Permunian.
Che cosa ne pensa sua moglie di ciò che scrive di lei
nel romanzo? Sempre che si tratti effettivamente di sua moglie…
Mia moglie non si è espressa in merito alla sua
presunta e parziale trasfigurazione letteraria. Attende un’intervista ufficiale
da parte del Giornale di Brescia. Mi
ha detto comunque che La sottovita è
il mio romanzo migliore. Ma bisogna considerare che sono quasi sempre io a
pagare l'affitto.
Il suo concetto di paternità come potremmo definirlo:
assoluto, responsabile, letterario? Come vorrebbe aggiustare il mondo per
renderlo più vivibile per i suoi figli?
Io non ho avuto un modello paterno, talvolta mi guardo in giro
e penso per fortuna. Pertanto mi sono affidato all'istinto. Penso di essere un
padre totale, nel senso che ci sono sempre, non solo nel fine settimana. Quando
non lavoro, sto con i figli. Scrivo sui treni o sulla metropolitana, in qualche
rara giornata libera oppure di sera, se il cervello creativo funziona. Vorrei
aggiustare il mondo distribuendo meglio le ricchezze e obbligando l’umanità a
leggere di più. So che non è possibile.
Il romanzo associa diversi registri linguistici e si
legge come una sorta di monologo vivo e fluente: voleva riprodurre tutti i toni
e i colori della vita o sottovita che dir si voglia?
Allo stile tengo in modo particolare. In molti pubblicano
libri, in pochi io riesco a scorgere la presenza di letteratura. La maggioranza
dei romanzi italiani pubblicati sembra scritta mediante quella neolingua
ipotizzata da Orwell in 1984. La
macchina “parla-scrivi”, mi pare si chiamasse così. Quella che generava
automaticamente le parole più semplici eliminando certe diversità linguistiche,
rendendo tutti i libri uguali. E spesso questi romanzi italiani scritti in
apparente neolingua sono i più venduti, i più premiati. Parlo da libraio e da
lettore. Da scrittore io non ho un metodo. Non ho frequentato scuole di
scrittura. Il mio metodo è non avere un metodo. Vado avanti e scrivo, senza
sapere dove vado a finire. Odio i romanzi scritti a tavolino, magari fintamente
impegnati. Per tornare alla domanda, La
sottovita sì, può essere letta come un monologo vivo e fluente. Come il
romanzo mentale di un giorno che cavalca, surfando, le diverse dune del tempo
vissuto dal protagonista e voce narrante.
Qual è il suo rapporto con Brescia, la città in cui è
tornato a vivere dopo Milano dove però ancora lavora? E che cosa significa per
lei fare il pendolare?
Mi sono allontanato da Brescia nel 2001, sono tornato da
pochi mesi e ho ritrovato una città più viva, meno provinciale. Ovviamente non
è Milano, ma a Milano non ci sono le colline, la cui assenza in questi diciotto
anni meneghini mi ha più volte turbato. Milano è troppo piatta. I seni verdi
che circondando Brescia invece mi emozionano. Provo quindi grande affetto per
la mia città, anche se vorrei avesse un numero doppio di abitanti, e un
sentimento culturale maggiore. Non dipende da chi la governa, che mi pare stia
facendo il possibile, ma è una questione di mentalità. O di qualità, per dirla
alla Giovanni Lindo Ferretti. Una formalità. Brescia è nota per la grande
cultura del lavoro che la caratterizza, vorrei che scalasse posizioni anche
nella classifica dei libri letti per persona. Si potrebbe pensare a una riduzione
dell’orario di lavoro giornaliero, facciamo di un’ora, da spendere invece nella
lettura. Leggere rappresenta il più grande atto rivoluzionario che un individuo
può compiere, per sé e per gli altri.
La vita da pendolare? Pensavo peggio. Mi alzo alle 4.53
per quattro giorni alla settimana, lavoro a Milano, ma alle 15.22 sono già in
Stazione FS, come mi ricorda la voce dell’indispensabile metropolitana. Alle
15.40 da sottoterra sbuco nella bella Mompiano, che adoro. Certo, a quel punto
dormo in piedi, ma sui treni almeno si può leggere.