martedì 15 maggio 2012

Il posticipo: Lazio-Inter (Un amaro con Franz Tunda, oppure Stramaccioni)


Per concludere in bellezza, avevo pensato di accettare l’invito di Tunda:
“Fatti trovare davanti alla Madeleine, il 27 agosto del 1926”.
Conquistato dalla proposta, mi ero recato con largo anticipo nella città dove il mattino era disegnato con una matita morbida. Nelle mie intenzioni, prima di stringergli la mano volevo spiare con attenzione quell’uomo giovane, vivace e forte che stava in una piazza, nel cuore della capitale della terra, superfluo a se stesso e al mondo, senza nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo.

In treno, avevo pensato a come Franz avesse qualche rotella fuori posto, a tanti anni trascorsi in un sospiro, a mio figlio, ai desideri impossibili molti dei quali avevo per fortuna realizzati, all’incapacità di goderne a pieno per qualche misterioso motivo, a come alcune grandi questioni filosofiche ed esistenziali potessero anche essere interrotte dal controllore che pretendeva con invasiva severità il biglietto.

Giunto a Parigi il 13 maggio, avevo visto sorgere il sole mentre le donne scendevano per strada avendo dimenticato la notte. Qualcuno intorno allo stadio parlava di Europa, e in campo Lazio e Inter facevano il possibile per raggiungerla dimostrando con evidenza che, come sosteneva Joseph Roth, nemmeno una crosta di pane secco si ricevesse in cambio di niente.
Così iniziava la partita e il depilato Mauri tirava una volta, l’ondeggiante Guarin due. Milito con la testa radeva il palo sfiorandolo senza sangue, poi realizzava il rigore assegnato per taglio scivolato di Ledesma ai danni della gola di Maicon. Nel secondo tempo, Kozak e Candreva facevano 2 a 1, Pazzini paleggiava, infine Mauri metteva in rete la crema dopo-barba del tris.

Al termine di tutto, la sera del 27 agosto 1926, sotto la tettoia di un baracchino lungo il fiume vendente hot-dog di dubbia qualità dove chiacchieravano sfaccendati, un uomo tranquillo mi aspettava educato, con un punto in mezzo al mento:
“Piacere, sono Andrea Stramaccioni. Mi permetta di offrirle un bicchierino dell’amaro che porta il mio nome: barman! Due Amari Stramaccioni, per favore”.
“Con ghiaccio?”
Il vento ci spingeva, e non avevamo paura di andare a fondo. In un certo qual modo, eravamo tutti Franz Tunda di noi stessi.