Milano - Ricordo che ero molto giovane e guardavo i film di Wim
Wenders chiuso in camera da solo, astioso nei confronti di chiunque avesse
l’idea di disturbarmi, mia madre un amico una corteggiatrice il telefono fisso,
non possedevo ancora il cellulare. Falso
movimento in particolare, il ragazzo biondo che procede lungo una stradina di
campagna così almeno mi pare, alla ricerca della sua vocazione artistica,
pellicola sceneggiata da Peter Handke liberamente tratta dal romanzo Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister di Johann
Wolfgang von Goethe, avevo scritto anche una poesia intitolandola con
influenze germaniche appunto Falsche Bewegung. Certe ragazze innamorate
suonavano il campanello, io rispondevo al citofono:
“Ma per favore, sto guardando i film di Wim Wenders chiuso in camera da
solo, passa più tardi o meglio non farti più vedere.”
Loro non se ne facevano una ragione e insistevano a suonare con il dito
appiccicato al pulsante. Del resto in quel tempo m’innamoravo di tutto,
m’innamorava di altre, di Nastassja Kinski incontrata sul treno con la frangia
quasi fino dentro agli occhi, leggeva un libro con il ragazzo biondo la figlia
dell’attore Klaus, non vorrei sbagliarmi ma si trattava della Vita di un
perdigiorno di Joseph Freiherr von
Eichendorff, anche tra i miei romanzi preferiti di allora, e non poteva certo trattarsi
di un caso Nastassja.
Invece
troppi anni dopo, una sera di metà luglio Germania contro Argentina per
diventare campioni del mondo in diretta da Rio de Janeiro, Wim Wenders aveva
imboccato da tempo la strada del declino creativo ma buon per lui viveva di
rendita tra Berlino e New York mentre io faticavo ad arrivare alla fine del
mese, inquadravano le tribune e l’infantile bellezza della Kinski era stata
sostituita dalla sgradevole e sgraziata Angela Merkel in giacchetta rossa con
le braccia corte, peccato, poi in campo la finale non era scontata come la
maggioranza dei pronostici aveva cercato di prevedere. Anzi Gonzalo Higuain al
ventunesimo, a causa dell’imprevisto e maldestro assist di testa dell’avversario
Kroos, si trovava al limite dell’area solo davanti a Neuer, ma calciava in modo
ignobile schiacciando il tiro d’interno destro con il pallone che rantolava
qualche metro distante dal palo. Dieci minuti dopo, ancora l’attaccante del
Napoli mostrava le stigmate dell’uomo non scelto dal destino, esultando incontenibile
per qualche secondo in seguito a una rete realizzata tuttavia in fuorigioco. I
tedeschi reagivano e concludevo la prima frazione con un paio di chance, la più
clamorosa un palo colpito di testa da Howedes sugli sviluppi di un calcio d’angolo.
Leo Messi intanto si metteva a vomitare, probabilmente stufo dei noiosi
commenti di chi non perdeva azione o movimento per confrontarlo con Maradona,
si andava al riposo e al risbucare delle squadre in campo il tranquillo ma sofferente
Sabella sostituiva Lavezzi con il baricentro basso Aguero. Messi sfiorava il
goal con un bel diagonale, Neuer cercava di decapitare Higuain con un’uscita
kamikaze non venendo sanzionato, si andava ai supplementari e Schurrle aveva
un’occasione, Palacio quella della vita ma stoppava male un pallone proveniente
dalla sinistra per poi stortare un tentativo di pallonetto. Calci di rigore?
No, perché a sette dalla fine il paffutello Mario Goetze, entrato da un quarto
d’ora al posto del buon vecchio Miro Klose, seguiva un’accelerazione del
butterato Schurrle sulla fascia facendosi trovare puntuale allo spiovente che
giungeva all’altezza del vertice dell’area di porta. Johann Wolfgang Goetze stoppava
geometricamente il pallone sul morbido petto prima di direzionarlo in girata al
volo nell’angolo opposto, con una linea collinare letale per tutta la nazione
argentina. La Germania era campione del mondo per la quarta volta nella sua
storia e mentre i commentatori impiegati nostrani si affrettavano a giudicare,
sentenziare, banalizzare, Leo Messi guardava il vuoto, non vomitava solo per
educazione, vinceva il premio come miglior giocatore del Mondiale brasiliano,
posava assente per le fotografie, aspettava i compagni distrutti per indossare
senza voglia la medaglia d’argento, si faceva abbracciare dal picchiato e
sanguinante sotto l’occhio Schweinsteiger. Io spegnevo il televisore con leggero
rammarico, altri quattro anni erano passati e ne avrei dovuti attendere altri
quattro, era la mezzanotte italiana del tredici luglio duemilaquattordici,
Nastassja Kinski non avrebbe suonato alla mia porta.