Così ho raggiunto Homer Macauley che
con la sua divisa da postino gigantesca affrontava in bicicletta la neve della
via di campagna. Aveva quattordici anni, e il chiaro intento di diventare il
più grande portalettere che la storia avesse mai visto. Non aveva padre, ma il
fratello Marcus in guerra, la sorella Bess studentessa universitaria, la madre
Kate che lavorava in uno scatolificio, e il fratellino più curioso del mondo:
Ulysses. Vivevano a Ithaca (Udine) dove Homer frequentava di giorno il liceo, la
sera l’ufficio del telegrafo.
Homer piangeva con gli occhi
spalancati e allora mi ero avvicinato, più vecchio e con la mia di bicicletta,
quella rossa poi rubata di quando ero giovane come lui:
“Perché piangi? Perché nel nostro
Paese il processo democratico è stato sospeso per permettere a un tecnocrate
non eletto di mettere in atto politiche che i politici eletti non riuscivano a
far passare?
Oppure perché il più forte
ciclista degli ultimi anni è stato condannato ingiustamente, vittima di
organizzazioni mondiali anti-doping che curano i propri interessi invece della
verità?”
“Anche amico, ma soprattutto per
certi telegrammi che devo consegnare, quelli che iniziano dicendo che il Ministero della Guerra, è spiacente
d’informarla che suo figlio…”
Dopo l’ultimo che aveva portato
ad una mamma che non aveva nemmeno avuto il coraggio di disperarsi, ma solo di
abbracciarlo, Homer si era messo a girare per le strade, guardando le case, i
luoghi e la gente che viveva a Ithaca: perché più si andava avanti nella vita
più sembravano esserci solo dolore e tristezza?
Terminate le lacrime, l’unica
soluzione era stata convincere il portalettere a continuare nella pedalata al
mio fianco, nonostante il dolore alla gamba che lo perseguitava in seguito a
una caduta. Lungo la tappa, altri ciclisti si erano uniti alla nostra fuga. Fra
questi Guidolin, che aveva deciso in vista della partita col Milan di
raggiungere per scaramanzia lo stadio sulle due ruote, facendosi sorprendere
come talvolta gli capitava durante i suoi giri da intuizioni tattiche che
avrebbe poi cercato di riprodurre sul prato del “Friuli”. In questo caso, il
posizionamento di Isla nel ruolo di rifinitore. Il trucco avrebbe funzionato
molto bene fino al grave infortunio del centrocampista cileno.
Lasciato l’allenatore
dell’Udinese alla sua panchina, o meglio accovacciato davanti ad essa in
osservazione degli sviluppi, con Homer avevamo trovato posto sui gelidi spalti,
confortati solo dall’omino delle bibite che passava puntuale rifornendoci di
grappa. In seguito a ciò, la visione della partita si era rivelata altalenante
e poco lucida. In ogni caso era la squadra di casa ad averla in pugno, passando
in vantaggio col solito Di Natale e sciupando altre buone occasioni. Il Diavolo
di Allegri barcollava, ma riusciva a concludere la prima frazione subendo una
sola rete. Nella seconda sarebbe rientrata in campo maggiormente convinta, e
pur non meritandola ai punti avrebbe ottenuto una vittoria fondamentale grazie alle
reti nell’ultimo quarto d’ora di Maxi Lopez e del faraone El Shaarawi.
Col fuoco delle vinacce dentro,
io e Homer avevamo abbandonato lo stadio delusi e slegate le nostre biciclette
eravamo partiti verso Ithaca, fermandoci solo all’ufficio postale perché il
giovane Macauley nel passare aveva scorto il vecchio telegrafista Grogan che
non si sentiva bene. Spento e immobile nel vuoto, se ne stava seduto senza
parlare, chino sul telegramma che stava battendo:
“Mrs Kate
Macauley
2226 Santa Clara
Avenue
Ithaca, California
Il Ministro della Guerra è spiacente d’informarla che suo figlio
Marcus…”