Nascosto tra le
frasche, Fabrizio era stato categorico:
“Adesso ci credi a
questa storia del giovane bruno e dell’asina che si amano?”
Non potevo contraddirlo.
Non potevo contraddirlo.
Mentre sui monti di pietra di macina l’uomo aitante stava tagliando rami, e l’animale stava
pascolando, i loro occhi si erano incontrati, cercando acqua. Poi lei era
diventata cuscino di lana, bianca fortuna. Lui carnevale di baci, cucitore di
cuore.
Nel cespuglio opposto al nostro, una brutta vecchia piangeva a spiava con la bava alla bocca:
”Beata l’asina, mamma mia che bell’uomo. Beata lei, giovane e moro. Beata lei, io muoio sola”.
Nel cespuglio opposto al nostro, una brutta vecchia piangeva a spiava con la bava alla bocca:
”Beata l’asina, mamma mia che bell’uomo. Beata lei, giovane e moro. Beata lei, io muoio sola”.
In Gallura tutto era
pronto per il matrimonio, ma l’innamorato non si trovava più, e il sacrestano
si faceva scappare che lo sapevano tutti, era partito la sera precedente per
Castéddu con il parroco, come era solito fare almeno una volta a settimana.
Delusi nell’ultimo, inginocchiatoio della chiesa, con Fabrizio abbiamo maledetto la cattiva sorte e per la rabbia in automobile siamo andati verso sud, seguendo un tragitto fatto a onda. Ho guidato io, perché lui non ha mai preso la patente. Il viaggio fino a Cagliari è durato circa tre ore e quaranta minuti, con un costo di carburante (grazie all’aumento del costo della benzina esercitato da un governo tecnico e vile) di 45 euro. Tra una cantata in coppia del suo disco “Le nuvole”, qualche bestemmia per la lunghezza dello spostamento, e almeno una decina di sigarette, De André ne ha approfittato per raccontarmi la sua passione per il Genoa, nata il pomeriggio del 5 gennaio del 1947, quando il padre Giuseppe l’aveva portato a Marassi per vedere il Grande Torino di cui era tifoso. Una partita a senso unico, con la squadra granata e meravigliosa sul 3-0 al settantesimo, e il padre di Fabrizio ad applaudire entusiasta. Ma poi il Genoa aveva reagito, costringendo Mazzola, Gabetto, Grezar, Loik a difendersi: uno a tre, due a tre, un palo. Dentro quella rimonta mancata, era nata la passione di De André figlio per il Genoa.
Delusi nell’ultimo, inginocchiatoio della chiesa, con Fabrizio abbiamo maledetto la cattiva sorte e per la rabbia in automobile siamo andati verso sud, seguendo un tragitto fatto a onda. Ho guidato io, perché lui non ha mai preso la patente. Il viaggio fino a Cagliari è durato circa tre ore e quaranta minuti, con un costo di carburante (grazie all’aumento del costo della benzina esercitato da un governo tecnico e vile) di 45 euro. Tra una cantata in coppia del suo disco “Le nuvole”, qualche bestemmia per la lunghezza dello spostamento, e almeno una decina di sigarette, De André ne ha approfittato per raccontarmi la sua passione per il Genoa, nata il pomeriggio del 5 gennaio del 1947, quando il padre Giuseppe l’aveva portato a Marassi per vedere il Grande Torino di cui era tifoso. Una partita a senso unico, con la squadra granata e meravigliosa sul 3-0 al settantesimo, e il padre di Fabrizio ad applaudire entusiasta. Ma poi il Genoa aveva reagito, costringendo Mazzola, Gabetto, Grezar, Loik a difendersi: uno a tre, due a tre, un palo. Dentro quella rimonta mancata, era nata la passione di De André figlio per il Genoa.
Consapevoli che non
avremmo osservato niente di simile ad aspettarci in uno stesso gennaio ma di
sessantacinque anni dopo, ci siamo introdotti comunque al Sant’Elia,
accomodandoci sulle tribune in tubi
Innocenti, cacciando con lo sguardo i fuggitivi: giovane moro Ibarbo e prete.
Eccoli là: il primo impegnato nel riscaldamento in allunghi che avrebbe
riproposto con ferocia cristallina durante l’incontro, il secondo intento a
benedire il terreno di gioco per consentire all’undici del sacchiano Ballardini
di dare ragione al presidente Cellino per il terzo cambio di panchina in
quattro mesi.
Le preghiere
funzionavano, se è vero che i sardi usufruivano di un rigore già all’undicesimo
del primo tempo. Larrivey trasformava. Fabrizio al mio fianco si lasciava
andare a qualche Madonna, ma il Cagliari benedetto giustificava il vantaggio
dominando. Se il Genoa non ne prendeva tre in quarantacinque minuti, era merito
di una traversa, dell’imprecisione sottoporta dell’indemoniato Ibarbo, di un
miracoloso Frey. Nella seconda frazione però era il giovane moro a raddoppiare
con una cavalcata asprilliana terminante in pallonetto, mentre lo zenese e
svedese Granqvist infilava nella sua porta il pallone che metteva fine alla
partita: Cagliari 3, Genoa 0.
A questo punto,
approfittando dell’eccitazione generale, De André mi costringeva a scavalcare
la parete in plexiglass che ci separava dal campo:
“Riportiamo in
Gallura il prete e il giovane moro, prima che sia troppo tardi!”
Il religioso, vicino
alla panchina, stava abbracciando paonazzo l’uomo del match: il colombiano
Segundo Victor Ibarbo Guerrero. Fabrizio era convincente nell’invitarli a
ripartire immediatamente per i Monti di Mola, senza nemmeno la doccia. Poi in
macchina costruiva la sua storia musicale in sardo, correggendo e cancellando
con la matita più volte il finale, alla faccia di ogni invenzione burocratica
capace di far saltare all’ultimo, la celebrazione:
“L’asina e questo
ragazzo si sposeranno, vero parroco? Ci penserai tu, a far sparire i documenti
da cui risultano cugini primi”.