(da Mio padre era bellissimo, Italic, 2009)
I
pomeriggi ospedalieri erano nettamente diversi da quelli a cui ero abituato, a
causa dell’assenza della bicicletta e del calcio, del gelato e della salamina, dei documentari e delle
fotografie. La cosa che li accomunava era invece la biligornia, uguale nella stanza dell’ospedale come a casa. Per
ingannare il tempo aprivo, sopra il tavolino per mangiare a letto, un
quadernone a quadretti che conteneva le principali manifestazioni calcistiche d’Europa,
tutte svolte da me. I vari campionati venivano disputati con il tiro dei dadi
che io stesso eseguivo, forte di una quasi totale imparzialità. Solo un paio di
volte, quando la squadra per cui tifavo nella realtà così in prossimità del
successo da non poter lasciarselo sfuggire, avevo barato. Prendendo come scusa
un improbabile bilico di dado, avevo rilanciato. Prima di farlo avevo osservato
il mio vicino di letto, un povero bambino al quale dovevano allungare una
gamba. Non capivo. Come si poteva nascere con una gamba più corta dell’altra?
Eppure fin da quando era venuto al mondo il bambino vicino era nato con una
gamba più corta dell’altra e periodicamente doveva ricoverarsi in ospedale per
fare operazioni, fisioterapia, tutto per arrivare un giorno, forse, ad avere
due gambe lunghe uguali. Ora dormiva. Nessuno avrebbe testimoniato, nessuno
avrebbe saputo come erano andate le cose, di questa piccola correzione in
semifinale. Alla fine la Juventus aveva vinto la Coppa dei Campioni, ma avevo
in lieve senso di colpa. Era giusta questa vittoria?
Ogni
tanto le infermiere passavano e controllavano cosa stavo facendo, poi mi
chiedevano di illuminarle sulla possibilità di recupero in campionato della
Juventus, del Milan e dell’Inter. Non gli rispondevo, ma le speranze erano
poche. La Juventus sembrava avere la testa altrove, le due milanesi facevano
fatica quell’anno e anche il Napoli di Maradona non brillava. Lo scudetto
pareva essere una faccenda tra Verona e Torino. Comunque, si sarebbe visto alla
fine.
Una
sera da ingessato all’ospedale era la sera della finale di Coppa dei Campioni
fra Juventus e Liverpool, 29 maggio 1985. La partita si giocava allo stadio “Heysel”
di Bruxelles. Non avevo la televisione ma, grazie a Dio, il bambino “allungabile”
vicino di letto, abituato a lunghi soggiorni ospedalieri, sì. Però, la teneva
girata quasi totalmente dalla sua parte. Sosteneva che io ero fortunato perché il
mio braccio sarebbe tornato normale mentre lui con le sue gambe avrebbe
sofferto per tutta la vita. Questa sua affermazione mi aveva fatto venire
immediatamente la biligornia. Era l’undicesima
operazione di allungamento che faceva. Mi ero addormentato per non pensarci.
Poi mi ero risvegliato di soprassalto. Il bambino allungabile mi aveva chiamato
per dirmi che era successo qualcosa di veramente brutto. La partita non
cominciava più. Sullo schermo scorrevano immagini orribili. Uomini schiacciati
da altri uomini tendevano le braccia disperatamente da una delle curve di
pietra dello stadio, verso qualcuno che potesse aiutarli. Sembravano
intrappolati con le gambe. Io non capivo cosa stava succedendo e con il bambino
allungabile osservavamo il capitano del Liverpool, Phil Neal, dire qualcosa in
inglese dalla cabina dello speaker. Non avevamo capito. Poi era toccato al
capitano della Juventus, Gaetano Scirea, annunciare: “Giocheremo questa partita
solo per permettere alle Forze dell’ordine di riorganizzarsi. Non rispondete
alle provocazioni. State calmi, giocheremo”. Il telecronista Bruno Pizzul
alternava lunghi silenzi a frasi sconcertanti:
“L’evento
agonistico non ha più importanza…”
“Sono
morte trentanove persone…”
Giunta
per la terza volta in finale, ancora una volta la Juventus sembrava non
riuscire a vincere la Coppa dei Campioni, l’unica che le mancava per diventare
la prima squadra in Europa a trionfare nelle tre manifestazioni calcistiche più
importanti del continente. I miei compagni di gioco, pensavo, avrebbero tirato
fuori la stessa storia all’oratorio, che l’avvocato Agnelli pagava gli arbitri
ma riusciva a farlo solo in Italia, e per questo la Juve non vinceva mai la
Coppa più prestigiosa. Poi la partita era iniziata, ma era così brutta che mi
ero di nuovo addormentato. Perfino Platini giocava male.
“Ehi
sveglia! Sveglia! Rigore per la Juve!
Il
bambino vicino di letto mi aveva chiamato apposta e appena in tempo per il
rigore di Platini.
Michel
si era asciugato la fronte dal sudore, passandosi una mano tra i capelli. Aveva
posizionato il pallone sul dischetto curvandosi con la schiena, era
indietreggiato di un paio di passi fermandosi ancora dentro l’area di rigore.
Aveva appoggiato le mani sui fianchi. Si era piegato con il corpo in avanti per
iniziare una breve rincorsa. Aveva spiazzato il portiere con il solito colpo di
piatto.
Gol.
Platini
aveva cominciato a correre per esultare, schivando l’arbitro e anche un
compagno che voleva abbracciarlo. Ridendo aveva alzato il braccio destro verso
una delle tribune dello stadio. Poi aveva rilanciato di nuovo lo stesso braccio
verso il cielo dopo averlo apparentemente “ricaricato” preparandone lo slancio
con l’altro. Aveva ripetuto il gesto una terza volta, senza più sorridere, con
un’espressione più rabbiosa, prima che i compagni lo sommergessero.
“Ma
non è una partita vera…” aveva sentenziato il bambino con una gamba più corta.
Platini
aveva esultato in un modo che la
consapevolezza di ciò che era accaduto, nei giorni seguenti, avrebbe reso
agghiacciante e tetro.
Il
sorriso di gioia atletica, il suo braccio lanciato verso l’alto. La Juventus
era campione d’Europa.
La
tragedia in cui persero la vita trentanove persone, provocata dal crollo del
muretto sotto la spinta animalesca dei tifosi inglesi, passò alla storia come
la “strage dell’Heysel”. La maggior parte delle vittime perse la vita per
fenomeni legati alla compressione degli organi vitali. La partita ebbe inizio
con qualche ritardo. Nei giorni successivi i giornali mischiarono notizie
sportive e cronaca nera, e io all’ospedale leggevo commenti e articoli che facevano
prevalere l’orrore a danno della gioia. La Juventus era così la prima società a
iscrivere il proprio nome nell’albo d’oro di tutte le competizioni organizzate
dall’UEFA, ma il rigore sembrò quasi una riparazione per quello che gli
italiani presenti allo stadio avevano subito. Era punizione. La cavalcata dell’attaccante
polacco Zibignew Boniek, raggiunto da un lungo lancio millimetrico di Michel
Platini, era stata sì interrotta con un fallo da parte di un difensore del
Liverpool, ma prima che il rapido numero undici dai capelli rossi e con il
bottone della maglietta allacciato entrasse nell’area di rigore. L’arbitro
aveva ugualmente concesso il penalty e la Juventus aveva vinto per uno a zero.
Era il caso di restituire la coppa? Le autorità belghe chiesero l’estradizione
di ventisei teppisti inglesi ritenuti responsabili della strage. Capocannonieri
del torneo furono Michel Platini della Juventus e Nilsson del Goteborg con
sette reti.
(da Mio padre era bellissimo, Italic, 2009)