Dell’uomo con il sole in tasca
ora sulla strada non restava che una caricatura curva, vestita con una tuta e
le pantofole. Eppure vivo, solo con il fastidio della luce e con un dito di
barba bianca sulle gote. Le nuove Brigate Rosse l’avevano rapito, uccidendo i
nove uomini della scorta. L’avevano tenuto imprigionato per quattro giorni in
uno stanzino lungo due metri e cinquanta, largo uno e venti e alto tre metri.
L’avevano interrogato in una lingua sepolta fino a condannarlo a morte “perché
colpevole di perseguire un progetto autoritario e antidemocratico, nonché per i
danni sociali, morali e mentali che ha provocato con le sue televisioni.”
Poi qualcosa dopo la lettura
della sentenza era accaduto. I tre terroristi non erano più tornati a
riprenderlo, aveva sentito un sparo oltre la parete, quindi si era avvicinato
alla porta della sua prigione e l’aveva trovata socchiusa. Nell’appartamento,
la brigatista più cieca e violenta, Cecilia, quella che avrebbe voluto
ammazzarlo fin dal principio, giaceva immobile sul pavimento con il sangue che
le usciva dalla testa. Degli altri due sequestratori, Luca e Mario, nessuna
traccia. Scendendo i tre piani di scale era arrivato in strada dove un uomo
senza emozione, il commissario Luigi Leandri, l’aveva riconosciuto a fatica.
La domenica splendeva, e la città
più bella era come avvolta da un velo dorato. Per una volta il sole vero era
più potente di quello che lui aveva avuto sempre di tasca: da venditore, da
imprenditore, da presidente. Era ancora vivo, e stretta la mano del commissario,
seppur in versione ginnica non aveva perso autorità nel convincere il Leandri a
disubbidire ai suoi superiori e alla logica, costringendolo a trovargli in
tempi brevi una donna, bella, disposta ad accompagnarlo allo stadio.
All’Olimpico, la Lazio infilzava
già al settimo minuto la suicida difesa alta della Roma. Hernanes trovava il corridoio
giusto alle spalle di Heinze, Klose s’infilava rapido in quella corrente d’aria
anticipando l’uscita disperata di Stekelenburg che lo abbatteva. Rigore,
espulsione del portiere, goal.
I giallorossi si catapultavano in
avanti rabbiosi e quasi subito pareggiavano: traversa di Juan, ribattuta verso
la porta di Borini, goal-non goal, questa volta goal, nonostante l’umano e
normale dissenso gridato di tutti i difensori biancocelesti. Nessuna polemica
ipocrita di giornalisti assunti per raccomandazione sul negazionismo laziale.
Il 2 a 1 finale sarebbe arrivato
nel secondo tempo con la rete oratoriale di Mauri. Punizione a spiovere dai 35
metri di Hernanes, l’aquila numero 6 finge di allontanarsi dall’area di rigore
poi invece si lancia nella medesima con uno scatto improvviso. Gli astuti
giocatori di Luis Enrique si guardano come a dire: “Ma come Mauri, cioè noi pensavamo
che a quest’azione non volevi partecipare, e invece...vatti a fidare degli
avversari.” Spaccata di sinistro dell’isolato capitano furbo, goal.
Mancava ancora mezz’ora, ma che la
partita ormai fosse conclusa lo sapeva anche il vento. In tribuna Monte Mario
(o Monti Mario) il presidente del Consiglio distoglieva lo sguardo dal campo
per passare ai fatti con la giovane donna al suo fianco:
“Signorina, mi consenta di
raccontarle del mio rapimento. Mi hanno tenuto in ostaggio in tre, ma li ho sgominati
con la mia forza, non prima di aver fatto a brandelli con il coltellino per
tagliare la mela quella orrenda bandiera rossa con la stella a cinque punte. Se
lei è d’accordo, a questo punto le darei un bacio.”
Sulla pista d’atletica rivolto
verso il pubblico, l’anziano Edy Reja invece saltellava. Solo qualche giorno
prima dimissionario, licenziato, sostituito, adesso si godeva il secondo
successo stagionale in un derby per 2 a 1 e il terzo posto in classifica.
Saltellava con la sciarpa biancoceleste al collo, e dalla tasca gli usciva un
sole.