Quando all’inizio
di marzo è uscito l’ultimo volume del Min
kamp di Karl Ove Knausgård, mai avrei immaginato che la
settimana seguente, mi sarei ritrovato chiuso in casa con il tempo necessario
per leggerne in media cinquanta pagine al giorno, fino a giungere alla
conclusione del romanzo, venticinque pomeriggi dopo. Sì, perché la Fine, sesto e ultimo
volume della stupefacente battaglia autobiografica di Karl Ove Knausgård, dura
1270 pagine, che vanno ad aggiungersi alle 2845 precedenti formando così un
totale di 4115, suddivise nei sei tomi: La
morte del padre, Un uomo innamorato, L’isola dell’infanzia, Ballando al buio, La pioggia deve cadere,
Fine. Ero scivolato nel vortice del Min kamp quasi per
caso, alla fine del 2014, stregato dall’incipit del primo romanzo: “Per il
cuore la vita è semplice: batte finché può. Poi smette”, e per via del titolo,
che toccava un tema nei confronti del quale sono particolarmente sensibile. La
morte del padre. Così, ero caduto nel vortice. Imitatore scontato dell’uomo e della
donna disegnati sulla locandina arancione del film Vertigo, di Alfred
Hitchcok, avevo scoperto la limpida capacità di Karl Ove di dilatare gli spazi
mentali e i ricordi, facendo sprofondare il lettore in un non-tempo glaciale e
intimo. Avevo imparato i periodi dell’attesa (quando sarebbe uscito il volume
successivo? A che punto della lotta intrapresa con il “mostro” era, la coraggiosa
traduttrice?). Divenuto da poco padre, avevo traslocato la probabile disgrazia
del non possederlo in una zona nuova, abitata dal privilegio di esserlo
diventato. Poi, con Un uomo innamorato, la battaglia di Knausgård era proseguita in parallelo alla
mia: quando trovare il tempo di scrivere, tra il lavoro quotidiano e il
mestiere di genitore? Con immensa fatica, frenando a pochi centimetri dal
recinto della sconfitta, dalla voglia confortante ma vuota del rinunciare a
tutto, avevo riconquistato quel tempo individuale, fatto di minuti strappati a
un costante e all’apparenza invincibile rumore di sottofondo. Avevo inventato
la mia sottovita, fingendo di scrivere un saggio sull’opera di Karl Ove Knausgård.
Perché, lontano da ogni forma di vanità e di arrivismo, scrivere per me
rappresentava una forma di preghiera, perlomeno autentica perché non razionale,
non programmata per ottenere il successo, ma per esistere in modo più reale.
Attraverso L’isola dell’infanzia, avevo abbandonato il bosco del ribelle di Ernst Jünger per
ricongiungermi alla famiglia: cosa guardavano gli occhi dei miei bambini?
Sarebbero diventati ciò che desideravano? In un villaggio di pescatori
all’estremo Nord della Norvegia, avevo sperimentato di nuovo l’ebbrezza e
l’insicurezza di avere diciotto anni, Ballando
al buio, prima di procedere in lento e
instabile equilibro tra il disperato desiderio di essere buono e il terribile
potere della trasgressione, bagnato da La
Pioggia che deve cadere.
Alla fine di
marzo, ho letto le ultime righe del Min
kamp. La famiglia Knausgård che prende il treno per Malmö,
si mette in auto per tornare a casa. E durante il tragitto, Karl Ove che si
gode, davvero, il pensiero di non essere più uno scrittore. E’ la Fine. Mi è venuto in
mente il fratello di Marcel Proust, che considerava la frattura di una gamba
come condizione ideale per poter leggere la Recherche. E poi
Sandro Penna, abituato a consigliare la creazione artistica in forma breve, più
adatta a questi tempi, fatti sempre di velocità. Erano le 13.57 di un’altra
domenica senza poter uscire, ma inondata di sole. Allora ho chiuso il libro e mi
sono staccato da questa preziosa vertigine letteraria, ringraziando Karl Ove Knausgård
per avermi imbarcato sulla nave incantata della sua memoria.
Karl Ove Knausgård, Fine, Feltrinelli
2020