giovedì 30 dicembre 2010

Due 21 dicembre. Bearzoff (ovvero un ricordo di Bearzot-Magritte attraverso Dino Zoff)



Se le stesse immagini, proiettate su televisori differenti a distanza di ventotto anni, fossero capaci come un prisma miracoloso di restituire oggi corpi, soggiorni e movimenti di chi le stava guardando nel 1982, allora senza dubbio a me non sarebbe dispiaciuto l’altra sera, mentre rivedevo Italia-Brasile su La7, scorgermi bambino sul divano di casa, scrutante un po’ la partita un po’ mio padre, fumante una sigaretta alla finestra per ogni goal di Paolo Rossi.

Con i gomiti appoggiati al cuscino posizionato sul marmo del davanzale (ma non era rischioso posizionare un cuscino in bilico al terzo piano? No, era solo un cuscino) Guerrino tratteneva a stento lo stupore per l’impresa degli Azzurri di Bearzot, il quale in panchina masticava, e gridava consigli a Cabrini, il più a portata di mano, lì sulla fascia sinistra.

Dopo gli stentati pareggi con Polonia, Perù e Camerun, e la sorprendente vittoria sull’Argentina, perfino i giornalisti più incompetenti e in malafede adesso si trovavano costretti a rimangiarsi molte delle furibonde critiche al Vecio con la pipa, e no, anche se il bell’Antonio e Rossi erano stati visti tenersi per mano, questo magari poteva anche non significare che i due fossero omosessuali.

Ma tornando a quel caldo pomeriggio di magliette sudate e strappate, Bearzot ruminava all’ombra della panchina, ancora ignaro della storia che l’avrebbe unito a Vittorio Pozzo non solo pochi giorni dopo sul tetto del mondo, ma anche sui calendari 1968 e 2010: il 21 dicembre, una stessa data decisa dal caso per l’addio alla vita di due Ct Campioni del Mondo.

Pare che Marcello Lippi, intervistato da un noto quotidiano sportivo per un ricordo del Vecio, abbia dichiarato che a partire dal 2011, ogni 21 dicembre se ne starà chiuso in casa, in solitudine, il sigaro acceso, a riguardare consecutivamente le Finali di Roma, Parigi, Madrid e Berlino.

Nei minuti conclusivi, un calcio d’angolo per il Brasile era sufficiente per trasformare milioni di italiani terrorizzati in aspiranti coristi del festival di Sanremo, al grido di:
”Esciiii!”
Dino Zoff, prima voce solista, spinto da questo suggerimento lontano ma convincente, usciva, bloccando in presa. Poi osservava con preoccupata soddisfazione il Direttore d’orchestra, come si cerca con gli occhi un padre silenzioso, ma rassicurante. Era fatta.
Bearzot, cercatore di finestre poco scontate, dalla panchina del Sarrià di Barcellona rispondeva allo sguardo del capitano, vivo nel miracolo, parafrasando Magritte:
“Questa non è una pipa. Ragazzi miei, voi siete la mia pipa”.

lunedì 27 dicembre 2010

Il Corriere del materassaio


Talvolta, specie quando mi ritrovo a fare il cassiere per sei ore consecutive, mi chiedo perché nessun quotidiano o settimanale decida di pagarmi per le cose che scrivo. Ascolto i Bip della mia cassa numero 7 per sei ore consecutive, e superato il dispiacere del non sapere il perché, dopo dieci anni di carriera nella stessa azienda (durante i quali mi sono occupato in prevalenza di consigliare dischi e libri a tanti milanesi) da qualche tempo io venga utilizzato solamente per fare Bip in cassa, la mia attenzione si sposta sui cognomi dominanti nelle svariate testate nazionali. La loro uguaglianza o similitudine, mi permette di rispondere alla domanda principale: perché nessuno mi paga per scrivere? Probabilmente, perché mio padre non faceva il giornalista. E pensare che io glielo avevo detto: papà, fai il giornalista. Lui però niente, voleva proprio fare il materassaio. E va bene. Se però mi avesse ascoltato, adesso io mi sarei potuto avvalere dell’unica cosa che, soprattutto in Italia, garantisce l’inserimento nel mondo del lavoro: la raccomandazione.

Sfogli le pagine dei giornali, e i cognomi sono sempre gli stessi. Vai al cinema, e gi attori sono sempre loro. Guardi SuperQuark, Piero e Alberto. Figli, nipoti, mogli, amanti. Ogni tanto qualcuno riesce a inserirsi in qualche professione avulsa alla storia della propria famiglia, per acclarata bravura o colpo di fortuna, garantendo così ai discendenti un sorprendente cambio di casta.

Leggo sempre divertito certi corsivi indignati contro Berlusconi (che non ho mai votato). Poi guardi chi l’ha scritto e dal cognome ti viene il dubbio che sia stato assunto in quel giornale per raccomandazione. Però si scaglia conto Berlusconi, dall’alto della sua integrità professionale. Perché Berlusconi è un furfante, lui invece no, è pulito. Perché, come disse una volta Piero Angela: “Non l’ho assunto perché è mio figlio, ma perché è bravo”. Ok, ma quanti altri bravi ce n’erano con cognomi diversi?

I Bip continuano e trovo la soluzione: fondare il Corriere del materassaio. Tutti i materassai lo prendono e un po’ di copie vanno così. Poi faccio come Repubblica e Corriere: qualche pubblicità con donne nude o in mutande, e altri lettori sono assicurati. Se proprio voglio esagerare, strappo alla concorrenza qualche giornalista corrotto (meglio se con la fama di incorruttibile). Di quelli pagati a gettone per scagliarsi contro i nemici principali del proprietario del quotidiano, e mi assicuro un’altra fetta di pubblico. Di più non posso fare.
Comprate il Corriere del materassaio, vi prego. Ci scrivo anch’io.

lunedì 20 dicembre 2010

Il posticipo: Napoli-Lecce (Taugenichts e il terremoto a Bet Lèhem)


Ricordo un tardo pomeriggio dicembrino degli anni ottanta. Con mia madre e un coltellino per uno, avevamo attraversato due strade dal portone di casa nostra per arrivare ai piedi del castello che dominava il quartiere, la città. Che intenzioni avevano mamma e figlio con coltello? Regolare all’aperto e in modo barbaro un litigio di famiglia? Attentare alla vita di qualche ignaro passante? Niente di tutto questo.

L’idea di Teresa, era quella di raschiare dal muro che precedeva l’inizio del colle Cidneo il muschio che vi era cresciuto, al fine di ottenere un degno prato per il presepio di casa. Era legale? M’interrogavo seguendo abbastanza fiducioso le orme materne. Probabilmente, e comunque in galera al massimo ci sarebbe andata lei, mica io, bambino. Gratta tu che gratto anch’io, alla fine eravamo tornati a casa col nostro prato, sul quale posizionare le statuine secondo criteri sedimentati dagli anni, e poi qualche pigna come alberi, sassi, e un rettangolo di stagnola a fare da laghetto.

Talvolta venivano a trovarmi le cugine, e giocando a calcio o a tennis con una pallina di spugna, capitava che la stessa terminasse sul presepio, travolgendo pastori e animali. Con l’innocenza cinica di certi giochi infantili, io Gisella ed Elena ci avvicinavamo al presepe, cercando di stabilire la causa di quella tragedia. Meteorite su Bet Lèhem? Terremoto nella Casa di Pane? E di che grado? In base alle statuine cadute, morte o ferite, veniva stabilito il grado della scossa, seguendo scale Mercalli o Richter.

Questi pensieri mi ritornano sempre quando all’inizio di dicembre vado con Marta in un negozio di Largo Schuster a Milano, specializzato in presepi. Ogni anno aggiungiamo uomini, donne e pecorelle alla nostra rappresentazione, costretti a privilegiare per fare economia alcuni personaggi rispetto ad altri. Ad esempio i Re Magi non li abbiamo ancora, ma se questo inizialmente mi dispiaceva ora no, perché ogni anno vedo le privilegiate comparse di Betlemme aumentare, e penso al giorno in cui la città sarà completa.

Prima di entrare da Tricella, mi chiedo se all’interno dietro il bancone troverò l’ex libero di Juventus e Verona a servirmi, ma poi mi accontento di una signora anziana che, a sorpresa, sbuca ai nostri piedi da una botola presente sul pavimento. Superato lo spaventato stupore di una persona che sale dal sottosuolo di legno per chiederti cosa desideri, giunge il momento di scegliere le statuine dell’anno. Marta le sue, io le mie, e quest’anno la mia è uno addormentato con il cappello rosso appoggiato sulla pancia, bello nel suo pennichellare, tanto da ricordarmi il protagonista di “Vita di un perdigiorno” di Joseph von Eichendorff, tra i libri che portavo sottobraccio quando intorno ai vent’anni oltre a lavorare andavo in giro per i parchi di Brescia a leggere da solo, pensando di essere qualcosa di simile a un poeta, che però vendeva anche lavatrici e frigoriferi.

Il perdigiorno addormentato adesso brilla nel nostro presepio, e siccome ho smesso di giocare con la pallina in casa perché sono una persona matura, mi sono permesso di chiedergli se, come statuina, si senta offeso quando i giornalisti più astuti definiscono “difese di belle statuine”, quelle immobili su cross avversari adatti a far svettare di testa punte col fiuto del gol, per intenderci il contrario di Amauri. Un po’ sì, mi ha detto il perdigiorno, ma alla fine che mi frega, lasciami dormire per favore.

Poi di sera tornavo a piedi da un teatro dove avevo visto Erri De Luca parlare in nome della madre. Calpestavo la neve, riflettendo sulla straordinarietà di Miriàm, moglie di Iosef, madre di Ieshu, capace di partorire da sola, con un coltello e un bacile d’acqua. Quale legame tra il suo coltello e quello mio e di mia madre? Perché la neve non si ferma sul sangue? Con tutta la neve che cadeva, avrebbero rinviato qualche partita? Quanto bianco nello stadio-grotta di Bet Lèhem?

Ho ascoltato qualche pastore maligno asserire che, per via del problema dei rifiuti, quest’anno potrebbero far vincere lo scudetto al Napoli. Non gli ho creduto. Di certo la squadra di Mazzarri è molto fortunata, e Cavani assomiglia pure ad un Ieshu adulto. Dopo ogni rete non si dimentica mai di ringraziare Dio, con le braccia indica il cielo, mormorando qualcosa con gli occhi spiritati. Del resto, la traiettoria del pallone scagliato dal “Teschio” uruguagio domenica pomeriggio come sempre oltre il novantesimo, qualcosa di religioso certamente aveva.

mercoledì 15 dicembre 2010

Carlo D'Amicis su Mio padre era bellissimo

Pubbico la recensione di Carlo D'Amicis su "Mio padre era bellissimo" tratta da l'immaginazione (novembre 2010).
Carlo D’Amicis su
FRANCESCO SAVIO, Mio padre era bellissimo
Italic Pequod 2009
Una solida corrente di pensiero vorrebbe la
generazione dei nati tra l’inizio degli anni Sessanta
e la fine degli anni Settanta come una collettività
disgregata e individualista: la prima a
crescere priva di quelle esperienze comuni che
furono, nel nostro Novecento, le due guerre, il
regime, l’antifascismo, i movimenti giovanili.
In realtà, nel leggere molti recenti romanzi,
questa tesi appare rivedibile. C’è oggi una cordata
di narratori fin troppo incline al reciproco rispecchiamento,
connotata da un background
certo meno ideologico rispetto alle generazioni
precedenti, ma non per questo più evanescente.
Nessun credo politico, o culturale è servito a cementare
una generazione più del ventennio
compreso tra il boom economico e gli anni di
piombo: spesso cresciuta davanti alla tv, in ambiti
familiari molto più ristretti e spesso sradicati,
oppressa da un senso di isolamento e di marginalità,
quella generazione che si voleva disunita
e frammentata oggi si riconosce compatta, e
quasi stupita, nelle tante narrazioni che ne descrivono
un forte, seppure involontario e inconsapevole,
tratto identitario.
Accade così che, nell’attingere al proprio vissuto,
i narratori che appartengono a questa vasta
nidiata di soli ed uguali si ritrovino costantemente
di fronte a un’insidia: quella cioè di scivolare
nel mainstream, in un flusso dove l’elemento
del riconoscimento, o addirittura dell’epica generazionale,
prevale su quello della ricerca personale.
Di fronte a questa insidia il quasi esordiente
Francesco Savio (già autore di un racconto nell’antologia
che Manni ha dedicato, nel 2008, a
Bob Dylan) sceglie una strategia umile e sfrontata
al tempo stesso: semplicemente non se ne
cura, misurandosi con i tanti topoi del romanzo
(primo tra tutti, quello della linea d’ombra, qui
anticipata ai 9 anni, l’età in cui il protagonista del
romanzo perde il padre) come se il suo piccolo
Nicola fosse, in un certo senso, il primo bambino
del mondo ad avvicinarli. Con il risultato che
il romanzo si rivela fragile nella sua presunta forza
(il volere attingere al vasto repertorio dei moderni
riti di passaggio: lo sport, gli straniamenti
linguistici, la bambina-principessa “dai capelli
biondi e dagli occhi profondi come oceani”) ma
forte della sua fragilità: il candore un po’ spericolato
con cui l’autore si incammina in un solco già
largamente battuto, infatti, diventa la stessa innocenza
del protagonista di fronte a un evento
troppo grande, come la morte del proprio genitore,
e al quale non sa cos’altro opporre se non la
sua profonda, estrema, dolente sensibilità.
C’è insomma, in Mio padre era bellissimo, un
che di ingenuo che Savio riesce a indirizzare
(inequivocabile segno di talento) verso una freschezza
e una trasparenza che, alla fine, seducono
anche il lettore più avvertito: quello che,
leggendo delle fughe in bicicletta di Nicola, è
portato a rivedere, in formato ridotto, l’Alex di
Jack Frusciante; che, imbattendosi nel racconto
della tragedia dell’Hysel, è costretto al confronto
con la potente valenza simbolica che, dallo stesso
fatto di cronaca, scaturisce nell’ultimo romanzo
di Lagioia; che, nella poetica del dettaglio come
“sineddoche della complessità”, a cui spesso
Savio si affida per rappresentare la sensibilità
infantile, rivede l’acume minimale di Francesco
Piccolo.
Quello di “Mio padre era bellissimo”, insomma,
è un sentiero battuto. Savio però lo percorre
con un passo rapido e lieve che lo rende seducente
compagno di viaggio. La sua generazione,
credendo di piangere soltanto un proprio
genitore, si è scoperta a celebrare il definitivo
lutto dei padri; credendo di poltrire davanti alla tv
si è scoperta ad officiare un rito collettivo; credendo
di essere totalmente de-responsabilizzata,
disincanta, disimpegnata, si è scoperta sulle
spalle il peso del crollo morale e civile di un Paese.
Anche per lui la sfida è dunque quella della
complessità: affondare nella propria formazione
per connetterla allo spirito dei tempi, scavare nel
privato per raccontare storie pubbliche, educare
la propria memoria alla profezia del futuro.

martedì 14 dicembre 2010

Il posticipo: Juventus-Lazio (Tremando sull’orlo con Henry David Thoreau)


Ancora nel 1848, Henry David Thoreau era a malapena noto ai suoi concittadini di Concord, che al massimo lo apostrofavano come un tipo strambo che era andato a vivere in una casupola nei boschi di Walden, e che aveva passato una notte al fresco per essersi rifiutato di pagare la tassa elettorale pro capite. I più maligni addirittura, avevano sparso la voce che il presunto “trascendentalista”, giunto alla soglia dei trent’anni, si fosse rifugiato nei boschi solamente perché tra gli alberi il segnale televisivo giungeva con maggiore pulizia visiva rispetto al centro di Concord, dove sia Sky che Mediaset Premium faticavano a garantire una copertura soddisfacente.

Conscio di queste cattiverie, quando un mattino Thoreau aveva intravisto una lettera nella cassetta della posta, aveva pensato immediatamente al peggio: si trattava con quasi certezza del solito fastidioso cittadino che chiedeva il perché del trasferimento a Walden oppure, in seconda battuta, del solito fastidioso cittadino che voleva sapere per quale squadra della serie A simpatizzasse il cosiddetto “filosofo naturale”, amico di Emerson (non il Puma brasiliano ma Ralph Waldo). Davvero aveva traslocato nella casupola solo per dedicarsi “agli studi che hanno più direttamente a che fare con questo pianeta”? Davvero Thoreau non sentiva il desiderio della compagnia degli amici, bastante a se stesso, al suo “essere niente”?
Difficile da credere, com’era difficile ignorare certe esplosioni vocali di gioia che parevano provenire dal bosco al sabato sera o alla domenica, casualmente in concomitanza con lo svolgimento del campionato di calcio.

La lettera invece era di Harrison Blake di Worcester, Massachusetts, un ammiratore dell’ancora sconosciuto “mistico”, il quale incitava Thoreau a iniziare una corrispondenza per aiutarlo ad innalzarsi “a una vita più vera e più pura”.
La soddisfazione di Henry David era stata grande: pur non ritenendosi niente, qualcuno gli aveva fatto capire che forse poteva essere qualcosa. Una volta aperta la busta, le poche righe scritte da Blake avevano confermato la sensazione positiva di poco prima. Finalmente qualcuno comprendeva il significato della sua scelta, il suo desiderio di separarsi dalla società, dal sortilegio delle istituzioni, dalle usanze, dai conformismi…
E la disperata umiltà di quella richiesta di soccorso spirituale, che si concludeva con il rammarico di sentirsi “tremare sull’orlo” era stata la goccia determinante per accettare quell’idea di amicizia sulla carta, da mettere in pratica subito, o meglio dopo la partita della settimana.

Utilizzando il telecomando per abbassare come sempre a zero il volume della televisione, al fine di non perdere i suoni del bosco che provenivano dalla finestra socchiusa, Thoreau aveva deciso per Juventus-Lazio, affascinato dalle potenzialità dell’incontro di cartello della sedicesima giornata.
Il tempo di sedersi, e Giorgio Chiellini portava in vantaggio i bianconeri, esibendosi poi in un battito ripetuto di pugni sul proprio petto griffato Balocco, metodologia di esultanza che a Henry David era apparsa come una raffinata citazione di quando l’uomo stava ancora nelle foreste. Bello da parte del capitano della Juventus il non dimenticarsi della Natura di un tempo, adesso che pelo e coda erano scomparsi e l’uomo in posizione eretta poteva divertirsi colpendo il pallone di testa anticipando grintoso altri suoi simili.
Sull’esempio del centrale livornese, anche Storari aveva pensato di lanciarsi in un omaggio naturalistico, ipotizzando di aggrapparsi ad una liana immaginaria per colmare uno spazio bianco, nero e celeste, ma sfortunatamente nel suo volo verso l’alto aveva dimenticato di afferrare con precisione la palla, sotto gli occhi azzurri e affilati di Gianluigi Buffon che, in tribuna, almeno per un secondo aveva pensato: il primo errore in sedici giornate, male per la Juve ma almeno i tifosi si ricorderanno che esisto. Zarate ne aveva approfittato per pareggiare.

Nelle pause di gioco, Thoreau riprendeva in mano la lettera che gli aveva scritto l’ammiratore di Worcester, soffermandosi sul quel “Ma aihmè, tremo sull’orlo!” che da solo valeva tutto, l’insicurezza di essere umani, e una serie di cose ben più vaste della penuria indecente racchiusa anche nelle migliori parole. Cosa rispondere a Blake? Qualcosa capace di semplificare il problema della vita, lasciando in pace Dio e le cose, puntando alle vette.

E mentre divisa in ventisette punti, la risposta cominciava ad arrivare, a dieci secondi dal 94 Momo Sissoko azzeccava un passaggio rasoterra diagonale che mai in carriera. A cinque secondi il giovane Cavanda, non potendo prevedere l’imprevedibile, faceva appena in tempo a osservare quel taglio passargli alle spalle. A tre, Milos Krasic saettava come una freccia verso la porta di Muslera, per crossare, o tirare. Nel dubbio, sull’orlo della fine, il portiere laziale smanacciava tremante col guantone-racchetta come quando a ping pong vuoi dare l’effetto, ma nella sua porta.

venerdì 10 dicembre 2010

Roma-Fahrenheit e il Colosseo Quadrato



Come verso la fine della vita può capitare di rimpiangere per un secondo certe cose non fatte o certe donne non fermate per strada, pur accettando l’impossibilità di non poter fare ogni cosa e di non poter fermare ogni donna, così ogni volta che vado a Roma ho la sensazione che mi manchi sempre del tempo, quello necessario per osservare con attenzione le meraviglie che la capitale mostra o nasconde, a seconda delle situazioni e della prontezza di chi la sbircia.

Ad esempio mercoledì, mentre raggiungevo il Palazzo dei Congressi dell’EUR per partecipare alla puntata di Fahrenheit trasmessa in diretta dalla Fiera Più libri Più Liberi, speravo mi avanzasse del tempo (sempre quello, prima o dopo) per guardare da vicino il Palazzo della Civiltà Italiana, soprannominato anche il Colosseo Quadrato o Groviera, e controllare quindi se corrispondeva al vero quell’informazione letta su Wikipedia (ebbene sì, anche io consulto Wikipedia, come del resto fa Michel Houellebecq, ovvero l’autore di uno dei libri più belli che ho letto in questo 2010) e cioè che “in alcune ore del giorno e in particolare di notte, l’edificio del Piacentini esprimesse un evidente fascino di architettura metafisica”. Che poi uno può cliccare su Piacentini e Razionalismo italiano se vuole saperne di più, o quantomeno qualcosa.
Comunque, avevo calcolato il tempo necessario dalla fermata Ottaviano a quella EUR Fermi per non ritardare l’appuntamento radiofonico e potermi permettere qualche spiata metafisica, ma non avevo fatto i conti con i lavori nei sottopassi della Stazione Termini, capaci di rallentare anche due camminatori esperti come me e M.
Partiti col sole poi, sbucati da EUR Fermi pioveva, quindi abbiamo preso il Bus Navetta per la Fiera e così il Colosseo Quadrato l’ho visto solamente dal finestrino, senza potermi avvicinare al groviera come avevo sperato.
Come in ogni luogo chiuso affollato, dentro il Palazzo dei Congressi faceva molto caldo, e mentre pensavo a non dire scemenze durante la spiegazione del perché avevo scelto “Nel territorio del diavolo” di Flannery O’Connor come “mio libro” della Fiera, altri pensieri, votati a tranquillizzarmi, mi facevano tornare a poche ore prima quando, presso un famoso antico forno-focacceria sito in Campo de’ Fiori, avevo notato appena fuori dal bagno una maglia di Totti autografata dentro un quadro, e per un attimo avevo desiderato comportarmi da vero inesperto di calcio, avvicinando il gestore per chiedere: “Scusi, ma il Totti non giocava mica nella Lazio?”.
Ottima in ogni caso la focaccia, anche se il rischio paventato dalla guida di sporcarsi la faccia e la barba di bianco farina, non era in effetti da sottovalutare.
Alle 17.10 sono andato in onda, in compagnia di Christian Raimo di Minimum Fax, autore della prefazione dei saggi sul mestiere di scrivere della O’Connor. Ho detto la mia, svelando agli ascoltatori di Radio3 quello che i lettori di Quasi Rete sapevano già. Cose relative alla grazia, e al coraggio di guardare. Poi la conduttrice Loredana Lipperini mi ha chiesto a bruciapelo quale libro sarei stato, in una vita di carta e non di carne, e allora ho detto “La vita agra”, di Luciano Bianciardi. Un parte del pubblico seduto nel caffè letterario sotto il palco ha emesso un breve boato di approvazione, e sorpreso ho realizzato di aver fatto goal. O meglio, di averla passata bene a Bianciardi che, davanti a Julio Sergio, ha fatto quello che solo i campioni sanno fare: saltare in dribbling il portiere, e accompagnare la palla oltre la riga di porta.

giovedì 9 dicembre 2010

Il ragazzo dai capelli come Pavel Nedved



Ho conosciuto un ragazzo che, per diventare come il suo campione preferito, era solito recarsi dal parrucchiere per farsi pettinare i capelli come il suo campione preferito.

Per una coincidenza sfortunata, il suo campione preferito era Pavel Nedved, proprietario di una chioma bionda irripetibile, sorgente dal centro della testa per propagarsi poi, attraverso onde saltellanti durante la corsa, fino quasi alle spalle.

E’ stato forse per il tempo perduto dal parrucchiere e a guardarsi allo specchio che quel ragazzo non è diventato forte come Nedved, lo si capisce con chiarezza leggendo La mia vita normale, autobiografia del fuoriclasse ceco scritta dall’ex giocatore di Juventus e Lazio in collaborazione con Michele Dalai, e pubblicata da add.

Leggere la vita di una persona importante è piacevole quando dal racconto traspare la normalità di essere straordinario, e quando questa eccellenza viene descritta senza presunzioni. E’ questo il caso della Vita normale di Pavel, iniziata a Cheb, ad ovest della Repubblica Ceca, nel 1972 e proseguita poi prevalentemente a Praga, Roma, e Torino. Luoghi dove Nedved ha dedicato più tempo a rinforzare il suo luminoso talento che a pettinare i suoi belli capelli.

Ora potrei raccontare della Rivoluzione di Velluto, delle Vacanze romane o del Pallone d’Oro di Pavel. Di certi derby o di un’ammonizione da dimenticare. Ma non voglio rovinare la lettura a chi magari sta già correndo, appena meno veloce della Furia Ceca, fino alla libreria più vicina per acquistare il prezioso volume, sorprendendo per giunta il libraio grazie ad una parrucca bionda esplosiva indossata per l’occasione.

Preferisco svelare un segreto nascosto a destra di pagina 96, dove solitamente, come tutti sanno, trova spazio pagina 97. Non in questo caso.
Qui a destra del 96 iniziano le fotografie, con un Nedved bambino splendente in mezzo agli altri compagni di classe. La domanda è: perché alcune persone splendono nelle fotografie? Solo una questione di luce, o accordi col fotografo? No, io non ci credo. Voi non so, ma se sapete la verità, fatemelo sapere.