venerdì 30 aprile 2010

Nessuno può impedire a un uomo di scrivere tranne se stesso

(Pubblico il mio intervento alla presentazione dell'Antologia di BooksBrothers).

Nessuno può impedire a un uomo di scrivere tranne se stesso
Prendo in prestito questa frase che Cosimo Argentina ha preso in prestito da Charles Bukowski.
Perché si comincia a scrivere? Gli altri non so, ma io perché ho iniziato?

Ammesso che io sia uno scrittore, non sono stato uno di quelli che a otto anni già scriveva poesie, racconti o romanzi. A otto anni giocavo a calcio, con la suprema sensazione che l’avrei fatto per tutta la vita. Ciò che accadeva all’oratorio, si sarebbe ripetuto prima sui campi di Brescia e provincia, poi d’Italia ed Europa, e infine nel mondo. Era talmente evidente. Così pensavo mentre indossavo la maglietta in cotone e senza sponsor della mia squadra preferita. Poi mi fermai invece ai rettangoli verdi di città e provincia.

Non sono nemmeno stato uno di quelli che durante l’adolescenza già aveva in testa un progetto più o meno articolato di come si costruisce un romanzo. Ad essere onesti nemmeno oggi ho in testa la formula esatta per scrivere un romanzo, e ho ormai 35 anni. Tardi anche per tornare indietro e provare a ripercorrere la via del calcio.

Prima di scrivere bisogna leggere, ma ad essere sincero, non sono stato nemmeno uno di quelli che, già da bambini, leggeva ad esempio Calvino. Preferivo sfogliare il Guerin Sportivo. Anzi ricordo ancora il dispiacere quando, durante una festa di compleanno, un compagno di classe particolarmente istruito mi regalò il libro per ragazzi “Orlando a Roncisvalle”. Era rilegato, aveva la copertina in cartoncino viola e tanti disegni colorati all’interno, ma dovetti fingere non poco dopo avere scartato il pacchetto. Mi piaceva? Certo che mi piaceva, mica come gli altri invitati che mi avevano regalato giochi o baggianate simili. “Orlando a Roncisvalle”, proprio quello che volevo. Ogni tanto lo riprendevo tra le mani, per non “sprecare” il regalo che mi era stato fatto. Per educazione. Lo aprivo, sbirciavo, primo rettangolo con le pagine di tanti che mi avrebbero “salvato” la vita, sul serio.

Ho cominciato a leggere tardi, e tardi ho iniziato a scrivere, durante il servizio militare. Forse perché ero a Casarsa della Delizia, dove era vissuto il bambino Pier Paolo Pasolini. Il viale che conduceva alla caserma portava il suo nome, o forse immagino adesso che sia così. Ma la solitudine del servizio militare, quella mi ha portato a scrivere. Dopo le prime settimane all’insegna delle uscite di gruppo, delle birre, delle sigarette o di qualcos’altro ricordo che pensai: avanti così, e non arrivo alla fine dell’anno.

Così iniziai a leggere, osservando lo stupore sul volto dei commilitoni che uscivano per la serata di sbronze e marijuana. Cosa ci facevo sulla branda con un libro tra le mani invece che andare con loro? Perché leggevo invece di uscire? Ero matto? Ero gay?
M’immergevo nel mio periodo “orientale”. Hermann Hesse ovviamente, altri che non ricordo, e un bel tomo sostanzioso dal titolo perentorio: “Buddha: i quattro pilastri della saggezza”. Quando i soldati rientravano in caserma, cantando e ruttando, contavo i pilastri che mi mancavano per non ridurmi come loro.

Poi iniziai a scrivere delle pessime poesie, quelle assolutamente di nascosto, dedicandole prevalentemente ad amori del passato, quasi sempre mai consumati. Marciavo per ore nel piazzale della caserma sotto il sole di agosto e mi sforzavo di non dimenticare quei versi che mi arrivavano da chissà dove, trapassando l’elmetto. Passo, cadenza, dietro-front. Camminare per ore senza andare da nessuna parte. Gli scarponi sbriciolavano il pavimento del cortile.

Questa cosa del nascondiglio mi ha poi sempre accompagnato, portandomi ad associare lo scrivere ad una cosa da fare senza farsi scoprire. Anche di ritorno dalla naja, quando mi sono lanciato nello straordinario mondo del lavoro. Dentro ogni professione svolta, il mio scopo era trovare il posto giusto per nascondermi e scrivere qualcosa. Vendevo lavatrici e frigoriferi, e dopo aver esaudito i desideri investigativi dei clienti (A cosa serve questo pulsante? Che differenza c’è tra 400 e 800 giri di centrifuga? La classe A di questo elettrodomestico, allora, ci spieghi… ) Dopo aver risposto, ecco, aprivo un frigorifero tra quelli esposti e prendevo un appunto, o scrivevo una poesia, appoggiandomi su uno dei ripiani in plastica e sfruttando la lucina interna. Poi riponevo il mio bloc notes delle “vendite” nella tasca del camice bianco, con la scritta Candy, Ariston o Whirlpool bene in evidenza.

Ma scusatemi se divago. Era per dire che niente può impedire a un uomo di scrivere, tranne se stesso. In altre epoche, in altre situazioni ben meno fortunate della mia, grandi scrittori hanno scritto, mentre tutto gli remava contro. Mentre scontavano condanne in galere, mentre subivano vessazioni. Scrivevano in prigione, e quando non era davvero possibile farlo lo facevano nella testa, capitolo dopo capitolo, e magari la speranza di poter srotolare un giorno quelle parole sopra un foglio era l’unica cosa capace di farli resistere all’orrore.

Scrivere per me è questo, non è costruire in romanzo o “un prodotto” il più accattivante possibile per un target di pubblico, come pensa la maggioranza dei direttori editoriali delle case editrici. Per questo ammiro i poeti, non essendolo. Ho avuto la fortuna di credere di esserlo, e successivamente di cercare di esserlo senza scrivere poesie.
Cogliere la scintilla, sentire che arriva, resta per me la sensazione più bella.
Scrivere permette di reagire. Dopo otto ore di lavoro magari, circondato da capi bestiali, da esseri parzialmente umani, arroganti e maleducati.
Quindi scrivo per sopravvivere con la maggiore serenità possibile, scrivo come se pregassi, cercando la religione migliore per me e per chi mi sta vicino.
Non sono nemmeno abbastanza furbo, spregiudicato o forse fortunato per trasformare l’eventuale briciolo di talento che ho in qualcosa di retribuito. Scrivo gratis, leggo gratis. Non sono un bravo imprenditore di me stesso.
Con tutti i libri che ho comperato dai diciotto anni in poi mi sarei potuto prendere l’automobile, mi disse una volta un parente, ma francamente pur avendo la patente non amo guidare. Preferisco leggere. E camminare.

Ho fatto solo sei mesi di Università. Facoltà di Lettere. Soffocavo di fronte alle liste dei libri da studiare che comprendevano quasi sempre un titolo del professore che teneva il corso, o di un suo amico. Non mi andava giù che fossero altri a scegliere ciò che dovevo leggere.
Poi ho preso l’abitudine, quando non lavoravo, di camminare per chilometri con i miei libri nello zaino, fino a quando non trovavo un parco adeguato al mio desiderio di leggere. Ogni libro come una pietra preziosa sulla quale scrivevo il mio nome e la data. Pessoa, Fitzgerald, Thoreau, Salinger, Fante, Bukowski, Penna, Proust, Carver…Arrivavo a sera che non avevo parlato con nessuno. Mi chiedevo se era normale.

I libri mi hanno sempre regalato la possibilità di respirare, anche in metropolitana, schiacciato dagli altri passeggeri devoti ai giornaletti gratuiti, capaci di rivelare loro fondamentali notizie, riguardanti ad esempio la presunta, imminente maternità di Carla Bruni.
Ho buttato tanti di quei soldi in carta che sono proprio felice.

Ma forse le cose che ho detto non c’entrano nulla. Nessuno può impedire a un uomo di scrivere, tranne se stesso, mi ha suggerito Cosimo Argentina, e questo è quello che mi è venuto in mente.

giovedì 29 aprile 2010

Luminol

Mio padre era bellissimo, di Francesco Savio
Nicola ha solo nove anni quando suo padre Guer­rino, da tempo malato e costretto al letto, muore. Lui non è ancora che un bam­bino; passa le sue gior­nate a fan­tas­ti­care di vin­cere il Giro d’Italia e a ped­alare sulla sua bici­cletta per il quartiere, a gio­care a cal­cio con gli amici o den­tro casa sog­nando un giorno di diventare più forte di Michel Pla­tini, e di sfug­gire al monot­ono des­tino di fare il mat­eras­saio, erede di suo padre e aiuto per la madre Leonilde e Camilla, la sorella.
Nasce così Mio padre era bel­lis­simo, romanzo d’esordio di Francesco Savio, sto­ria di una edu­cazione domes­tica in piena regola che si fa ben presto un avvin­cente viag­gio nell’amore di un figlio fil­trato attra­verso i ricordi. L’assenza, l’abisso della morte, la «bilig­or­nia» per un rap­porto con­sumato in fretta e finito troppo presto, visti però con il can­dore e la lucid­ità spi­etata di un bam­bino che ancora non vuole rin­un­ciare ai pro­pri sogni.
I flash­back famil­iari, le fughe e i salis­cendi, le impres­sioni di vita in presa diretta, diven­tano dunque la voce di Nicola, le pias­trelle di una vita per la quale le parole sono diven­tate troppo strette, ed escono con fat­ica come quelle a tratti bal­buzi­enti del gio­vane pro­tag­o­nista: «Ma per­ché le per­sone morte resta­vano incas­trate den­tro le fotografie? Per­ché quando una per­sona non c’era più non se ne anda­vano via con lei? Sarebbe stato meglio. Ci vol­e­vano delle for­bici per ritagliare via la per­sone morte dalle fotografie. Sarebbe stato tutto meno doloroso».
Tema dunque dif­fi­cile quello con cui si con­fronta Savio, che però riesce nel pro­pon­i­mento di mostrarci l’irruzione della morte nella vita di chi ancora non ha avuto modo di chiedersi bene cosa sia. Lo fa ser­ven­dosi di uno stile che in più di un tratto può ricor­dare quello di Cris­tiano Cav­ina, ma con una lev­ità più let­ter­aria e al tempo stesso un senso dolente dell’esistenza, per­ché, in fondo «[…]senza sac­ri­fici non si real­iz­zano i pro­pri sogni».

lunedì 26 aprile 2010

Quando Mario

(Savio per Bresciaingol)

Quando Mario indossò per la prima volta la maglia numero dieci con la V bianca sul petto, era l’inizio di settembre ma il sole picchiava ancora forte.

Salendo i gradini di pietra che portavano al rettangolo verde incorniciato da righe bianche, Mario ciondolava con i piedi a papera come suo solito, e guardava un po’ la tribuna dello stadio Rigamonti e un po’ avanti, evitando solamente quei riflessi di luce che dalla plastica delle panchine e dei cartelloni pubblicitari lo infastidivano, facendogli pensare per un attimo: dovrei giocare con gli occhiali da sole, come se mi trovassi in spiaggia, e non in serie A. Ma la gente penserebbe che non sono cambiato per niente.

In città aveva destato qualche perplessità la decisione di motivare ulteriormente Mario riesumando la casacca ritirata del campione più straordinario della storia del Brescia. Gli appassionati si erano divisi, ma poi, complice un’intervista di Roberto Baggio nella quale il trequartista di Caldogno aveva dichiarato che sì, a lui avrebbe fatto solamente piacere togliere dall’armadio la sua maglia per farla indossare al talento più limpido della nuova generazione di calciatori italiani, la maggioranza si era lasciata convincere. In fondo, quando era cominciata quella moda poco condivisibile di ritirare le maglie dei giocatori? Cosa c’entrava con il calcio? In fin dei conti non era la cosa più bella per un bambino sognare che un giorno, forse sarebbe toccato a lui mettersi addosso il numero che era stato di Roby Baggio?
Anzi, Roberto aveva fatto di più. Aveva aperto la scatola dei suoi ricordi di stoffa per prestare a Mario la fascia di capitano tricolore, ma di una bandiera diversa da quella nazionale, senza dubbio più religiosa.

Così Mario faceva senza dubbio una bella figura vestito d’azzurro, la prima domenica di settembre, mentre stringeva la mano al suo ex-compagno Javier Zanetti, sempre pettinato con la riga a sinistra, come un calciatore degli anni quaranta.

Caracciolo, Possanzini e Balotelli. Un azzardo per una squadra di provincia, o forse no. E poi eravamo all’inizio del campionato. Che senso aveva chiudersi a riccio per novanta minuti, pregando che Milito, Eto’o, Pandev, Snejder o Maicon non trovassero mai il varco giusto?
Il sole picchiava, illuminando il vecchio stadio che cadeva a pezzi.
Valeva la pena rischiare.

giovedì 22 aprile 2010

BooksBrothers in biblioteca

di M. Zimotti
Giovedi 29 aprile alle 21 a Pantigliate (Milano) presso la Biblioteca Civica in via Risorgimento 34 si presenta un libro importante. Nasce dall'esperienza di BooksBrothers, associazione culturale che ha messo su carta il lavoro di due anni di pubblicazione in rete. BooksBrothers ha sondato la realtà con l'ascolto delle voci e la selezione di qualità oltre che con importanti interventi critici. Assieme a Cosimo Argentina e Francesco Savio, autori affermati che hanno dato contributi a quest'antologia chi lo vorrà potrà avere un'occasione importante per entrare nell'affascinante mondo della genesi della scrittura e potrà capire l'importanza anche fisica dei libri nella vita di tutti. La letteratura poi si farà voce con la recitazione intensa di Mauro Savino e Dona Amati che racconteranno una delle tante e diversificate storie, per stili e tematiche, presenti nell'antologia che ha visto il contributo di 36 autori.

venerdì 16 aprile 2010

Sembra quand'ero all'oratorio. Frizza vuol dire fiducia

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)

Il passaggio dall’oratorio alla squadra dell’Adrian Pam non era stato completamente indolore. All’oratorio tra noi bambini ci si conosceva bene, ogni giorno cambiavano le squadre ma se un pomeriggio ad esempio ti trovavi contro Matteo e Vincenzo, quello dopo sapevi che sarebbero invece stati con te. Di conseguenza le partite erano talvolta anche dure, ma mai cattive. E poi, sapendo di essere tra i tre più talentuosi del campetto, ben monitorato dal campanile e dalla croce luccicante, la sicurezza nei propri mezzi non mancava.

Scovato dalla squadra Pendolina, che aveva assunto negli anni Ottanta come nome quello dello sponsor, seguendo un’usanza ben più diffusa nella pallacanestro, la mia condizione era radicalmente mutata. Adesso avevo una divisa (maglietta blu con quattro strisce verticali sulla parte sinistra e logo centrale F.C. Adrian Pam, pantaloncini neri, calzettoni blu), facevo parte di un progetto.

L’allenatore Frizza, che m’aveva scoperto all’oratorio, avrebbe puntato su di me come centravanti della squadra esordienti. Il numero sarebbe stato il 9. Matteo e Vincenzo, rispettivamente difensore-centrocampista e portiere, avrebbero fatto parte anche loro della squadra, ma gli altri bambini no, erano tutti nuovi. Ci sarebbe voluto del tempo per formare il gruppo.

Non pensavo di essere un centravanti puro, mi vedevo più come seconda punta, o trequartista, influenzato in questa seconda convinzione dal ruolo del mio campione preferito, Michel Platini. Ma se mister Frizza mi vedeva col numero 9, aveva le sue buone ragioni, pensavo. In fondo aveva almeno cinquant’anni più di me, così a occhio e croce, e di bambini calciatori ne aveva pur visti.
Non eravamo una squadra formidabile. Dopo le prime giornate di campionato navigavamo tra la metà e la bassa classifica, ma avevamo ampi margini di miglioramento, sostenevano un po’ tutti. Se solo il centravanti avesse cominciato a segnare con maggiore frequenza…Ma ad essere onesti non si trattava di maggiore frequenza. La verità è che dovevo ancora mettere a segno il primo gol.

Durante gli allenamenti della settimana ero sempre tra i più bravi, ma la domenica mattina qualcosa mi bloccava senza rimedio. La paura di sbagliare, ecco. Leggevo sul Guerin Sportivo il mio idolo francese dichiarare che: “Michael Laudrup è il calciatore più forte del mondo, il giovedì” e quella frase sentivo che poteva riguardare anche me. Non sarei stato capace di spiegare con precisione il perché, ma forse ero più simile all’attaccante danese, che a Platini. Uno smacco, anche se Laudrup non era mica male. Cosa voleva dire di preciso Platini riferendosi al compagno? Era un complimento oppure no?
Pensavo anche a questo mentre mi nascondevo dietro i difensori della squadra avversaria. Mi era sembrata la soluzione più semplice. Meglio che avere la palla giusta, magari solo davanti al portiere, e tirargliela addosso oppure oltre la traversa. Mi era capitato, e il rammarico urlato del pubblico sulle tribune di ferro non mi era piaciuto per niente. Nooo! Avevano sospirato tutti insieme, come se si fossero messi d’accordo. Allora avevo deciso, meglio limitarsi a passaggi elementari, appoggiando spalle alla porta il pallone ai centrocampisti prima di correre verso l’area di rigore.

Mancavano poche giornate alla fine, e i gol segnati dal centravanti titolare dell’Adrian Pam erano…zero. Eppure Mister Frizza continuava a puntare su di me. Boh, forse nel mio nascondermi terrorizzato dietro lo stopper trovava qualcosa di speciale. O certo sperava che le mie prodezze del giovedì trovassero ripetizione nelle domeniche sui campi di Brescia e provincia.

Il fanalino di coda del nostro campionato era la squadra di Chiari. Il numero di gol subiti dallo Young Boys rasentava il record per la categoria esordienti in tutta la provincia. Avevano un campo bellissimo, un prato verde da sogno per noi che eravamo abituati a giocare su terra e sassi.Fabio, il numero 8 della Pendolina, aveva portato a spasso la difesa clarense per un paio di volte, consentendoci di terminare il primo tempo con un tranquillo 0-2. Nel secondo eravamo tutti più tranquilli, e perfino io tendevo a mimetizzarmi con meno ossessività dietro il numero 5.
Un cross da sinistra, una serie di rimpalli, il portiere del Chiari che non trattiene e la palla sui miei piedi a pochi metri dalla riga. Gol! Questo non potevo assolutamente sbagliarlo. Avevo fatto gol, e Frizza in panchina poteva finalmente esultare in un modo speciale, aveva vinto la sua scommessa. Avevo fatto gol. Il boato dei genitori in trasferta mi aveva galvanizzato al punto che pochi minuti dopo, seguendo un cross da destra, mi ero tuffato di testa centrando in pieno con la fronte il pallone che era andato nuovamente in rete. Questa volta avevano applaudito anche gli spettatori di casa. Poi un contropiede, un diagonale rasoterra appena sfiorato dal povero portiere dello Young Boys prima di infilarsi nell’angolino. Gol.Insomma era finita 0-5, e tre reti erano stato mie. Prima di entrare negli spogliatoi, Frizza da lontano mi aveva urlato: “Ma quanti ne hai fatti?”“Tre!” gli avevo risposto con la mano, attore protagonista di un sogno che pareva riguardarmi molto da vicino.

Nella stagione 1985-86 l’Adrian Pam si piazzò a metà classifica, un risultato niente male per una squadra non in grado di competere con le più forti del girone. Segnai altri gol, e la Pavoniana, tra le società più forti della città, mi convinse a passare a giocare per loro, indossando così una maglietta sempre blu, ma solo in centro perché le due maniche erano bianche. Ricordo Mister Frizza che ci rimase male. Mi aveva “creato” lui, e ora lo tradivo.

“Un altro anno qui non gli farebbe male…” l’avevo sentito dire a un collaboratore, e poi a mia madre.
Anni dopo, incontrandolo per caso non mi ricordo nemmeno dove, forse allo stadio a vedere il Brescia, si sorprese che avessi smesso di giocare. Mi disse che ero il ragazzo più forte che avesse mai allenato. Lo guardai, pensando stesse esagerando per l’emozione di rivedermi, e ci abbracciammo.

lunedì 12 aprile 2010

E i cantanti italiani persero il cognome

Non ricordo il giorno in cui cominciò con esattezza. Me ne stavo in negozio sottoterra a presidiare con la maggiore eleganza possibile il Punto Informazioni, mentre orde di italiani mi assalivano con le domande più assurde, probabile frutto di eccessiva esposizione ai raggi televisivi. Me ne stavo tranquillo, tenace Gandhi in balia di esseri che sovente non salutavano, sorpassavano la coda creando tensioni con i sorpassati oppure giungevano a sorpresa alle spalle o ai lati del mio corpo.
Eccoli qua i miei amici italiani, pensavo, e immaginavo l’amaro stupore di Pasolini se avesse potuto montare una telecamera fissa rivolta verso il gregge di clienti, in particolare al sabato e alla domenica.

Ricordo però che fu una ragazza a chiedermelo:
"Hai il disco di Dennis?"
"E di cognome?"
"Non lo so, ma è il Dennis di Amici, o forse di XFactor..."
"Ah...Guarda non so di cosa stai parlando, ora controllo..."
Da quel giorno i quesiti nominativi non si fermarono più. Avevo il disco di Dennis? E di Antonino? Noemi era uscita? Ed Emma?

I cantanti italiani avevano perso il cognome, e la musica dello Stivale non sarebbe stata più la stessa.

venerdì 9 aprile 2010

Vila-Matas, Messi e me

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
Il fatto che Enrique avesse deciso di invitare proprio me a vedere Barcellona-Arsenal inizialmente mi lasciò molto stupito. Perché io e non un altro? Io, il quasi sconosciuto autore di “Mio padre era bellissimo”? Tanto valeva non pensarci troppo e accettare, rispondendo con un emozionato Sì al sorprendentemente perfetto italiano di Vila-Matas. Quando mi sarebbe ricapitato che uno dei scrittori preferiti mi chiamasse sul BlackBerry comunicandomi che aveva trovato due biglietti per quella che si presentava come una delle più belle partite della stagione calcistica?

Il Camp Nou visto dal primo anello dove eravamo appariva come un Mediterraneo verticale di gente, con onde blaugrana e un piccolo golfo bianco e rosso. Restavo ipnotizzato dalle linee che la palla creava passando dai piedi dei giocatori del Barca, forse perché sono geometra. Una ripetizione di triangoli ossessiva, fino a trovare il varco per il tiro.
Le azioni partivano dal portiere Valdes che non passava mai ai terzini, ma ai centrali, per la precisione Milito e Marquez, sostituti dei titolari Puyol e Piqué. Da qui, il pallone veniva appoggiato al centrocampista smarcato, il quale (quasi sempre di prima) serviva il primo compagno di squadra che vedeva libero, sovente all’indietro. Era un modo di avanzare andando apparentemente indietro, per vie centrali, veloce e orchestrato, fino a trovare il tiro o il passaggio su una delle fasce per gli inserimenti di Dani Alves e Abidal.
Così mi spiegava Vila Matas, e quella semplicità che non avevo mai compreso con tale chiarezza da solo mi lasciava deluso. Ecco, pensavo, sono qui con uno scrittore vero e faccio la figura di quello che non ha mai capito nemmeno come si muove il Barcellona di Guardiola. Gioca semplice, attraverso ripetizioni triangolari ossessive, fino a trovare il varco per il tiro. Oppure, opzione B: palla a Messi, che accelera in serpentina, ne scarta tre e fa gol.

Wenger e' un professore capace, serio e forse troppo permaloso. La tensione talvolta lo divora e allora si mangia le mani, non le unghie. L’ho visto mordersi continuamente la mano destra esasperato, tra il pollice e l’indice, avvolto nel suo giubbotto da magro omino Michelin blu con stemma rosso. Inizialmente trova le contromisure: fa pressare altissimo i suoi giovani Gunners per approfittare di un eventuale errore di palleggio dei catalani. Passa in vantaggio con quello spilungone di Nicklas Bendtner. Il Barca ha la fortuna di pareggiare subito, poi è notte fonda per i Cannonieri, pur molto eleganti nella loro terza divisa bianca con sottili righe rosse, sponsor grigio e colletto.

Quattro volte Messi. Vila-Matas è fuori di sé, e francamente pure io. Si possono avere tre squadre del cuore: la prima per dove si nasce, la seconda per scelta infantile. La terza si sceglie da grandi.

giovedì 8 aprile 2010

Juventus campione d'Italia


Gli italiani sono fatti così. Prendono per buone le verità della televisione, e della Gazzetta dello Sport. Restare appassionati di calcio in questo Paese è difficile, penso sempre quando mi capita di guardare una partita del campionato inglese, o del Barcellona.

Da piccolo chi non tifava Juve mi diceva che l’Avvocato pagava gli arbitri, poi la squadra di Torino perdeva le finali di Coppa dei Campioni, e io mi convincevo allora che Gianni avesse dei problemi con il cambio della Lira all’estero. Cioè Agnelli gli assegni li preparava come al solito, ma per qualche ragione non finivano mai sui conti correnti delle giacchette nere.

Nell’estate del 1982 avevo 8 anni, e osservando Dino Zoff alzare la Coppa del Mondo restavo stupito dalla similitudine tra la formazione juventina e quella della Nazionale: Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli, Rossi…Era chiaro, ciò che all’Avvocato non riusciva in Europa veniva facile invece nel mondo, certamente così si spiegava pure la vittoria della Coppa Intercontinentale del 1985.

Circa un decennio dopo sarebbero cominciate le vittorie della Juventus di Lippi, anch’esse viziate da furti di ogni tipo, oltre alla solita corruzione arbitrale non era da escludere il doping. Solo la squadra di Torino utilizzava probabilmente questi espedienti, mentre le altri grandi come Inter e Milan no, quando riuscivano a vincere lo facevano con i propri mezzi.
In Italia il partito degli anti-juventini aveva ormai ingrossato le proprie fila, con punti di maggiori raccolta a Milano, Firenze, Roma. Erano strani individui. La domenica guardavano prima se la Juve aveva vinto o perso, poi il risultato della loro squadra.

Poi, nel nuovo millennio, dopo i due scudetti di Fabio Capello, finalmente arrivò la primavera-estate del 2006. Le intercettazioni coinvolgevano soprattutto Luciano Moggi, anzi solo lui. Lui era il Mostro del calcio italiano. Un trionfo per gli onesti Moratti, Tronchetti-Provera, e Guido Rossi. Ai tanti tifosi interisti non sembrò vero di poter estrarre dagli armadi bandiere rese praticamente inutilizzabili dopo 17 anni di immobilismo al vento. Erano campioni d’Italia, ma anche dell’onestà. Nessuno aveva mai potuto vantarsi di una cosa del genere. Cominciarono ad apparire scritte grottesche sui muri vicino allo stadio S. Siro, indicavano il numero dei tricolori vinti dalla squadra di proprietà di una famiglia di petrolieri e poi il commento: “Senza rubare”. E anche altre, più vigliacche, come: “Pessotto, vola ancora”.
“El Chino” Recoba fu tra i più felici, non era lui la causa di tanti anni senza scudetto. Marco Materazzi poté finalmente sfogare la sua boria antisportiva con nuovi tatuaggi e dichiarazioni da uomo vero. Furono prodotte migliaia di spillette con la scritta “Io sono interista”, slogan che sottintendeva “Io tifo l’unica squadra onesta che c’è al mondo, davvero”.

Intanto, la Nazionale vinceva a Berlino il suo quarto campionato del Mondo, con Marcello Lippi in panchina e tanti giocatori della Juventus sul campo. Anche da morto Gianni Agnelli sapeva come farsi intendere dalla classe arbitrale.

Nella stagione successiva l’Inter, grazie al fondamentale apporto di Zlatan Ibrahimovic strappato alla Juventus condannata alla B con 17 punti di penalizzazione, vinse un altro scudetto, sbaragliando la temibile concorrenza di squadre come Roma e Lazio, e partendo con 8 punti di vantaggio sul Milan, anch’esso coinvolto in calciopoli, ma certamente meno della Juve.
Passarono gli anni e la squadra di Moratti riuscì a vincere altri scudetti, grazie ai miliardi spesi dal presidente, talvolta anche per pagare due allenatori contemporaneamente (Mancini e Mourinho) per una cifra annuale intorno ai venti milioni di euro.

Purtroppo, un giorno di marzo del 2010, dal processo di Napoli iniziarono a saltare fuori intercettazioni riguardanti Massimo Moratti e i designatori, Giacinto Facchetti e gli arbitri. Tutti gli interisti si affrettarono a specificare che non era la stessa cosa, non si doveva scherzare. Beppe Severgnini con la consueta sportività consigliò ai tifosi bianconeri di non cadere nel tranello, e di liberarsi del “passato tossico”. Perfino il Club bianconero decise di diramare una nota ufficiale per chiedere pari trattamento per tutti, annunciando di voler tutelare in ogni sede i tifosi e la storia della Juventus.

domenica 4 aprile 2010

Un libro breve, raffinato e meraviglioso

14 euro per 94 pagine, ho pensato all’inizio. Ho guardato il libro di profilo, nero rosso e bianco. Mi sono detto: d’accordo, adoro Cheever, ma ogni pagina vale 15 centesimi di euro. Ne vale la pena? Lo sconto del 25% perché lavoro in libreria (o quasi) mi ha rassicurato e convinto.
Cheever è leggero, e pesa. Sottolineo tanto, più cose fermo con la matita, più cose mi ricorderò un giorno, quando aprirò a caso. Gli altri libri premono dalla scaffale di quelli “da leggere”. Sono decine. Mantengo relativamente la calma, nessuno mi corre dietro.
Sei racconti, e basta. Preziosi come informazioni segrete. E’ difficile abbandonare certi libri così onesti, scritti in un’epoca nella quale forse i trucchi erano meno all’ordine del giorno. O più precisamente i geni non hanno bisogno di stratagemmi. Allora libri come questo li lascio sulla scrivania per qualche tempo, prima di metterli a posto nella libreria in ordine alfabetico. Così ogni tanto li guardo, loro fanno lo stesso con me, con discrezione. Ci sono libri che mi osservano da anni. Sanno più loro di me che io di me stesso. Nelle storie di Cheever va tutto a gonfie vele, è difficile essere uomini ma le difficoltà non sono insuperabili.