martedì 30 marzo 2010

Elogio di Pirlo, calciatore quasi magro, e aperitivo

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
Ho avuto la fortuna di veder esordire tanti ragazzi che poi sono diventati bravi calciatori, in alcuni casi campioni. Seguendo il Brescia quando la domenica giocava in casa, ogni tanto qualche “primavera” promettente prima si metteva a sedere in panchina, ci stava magari settimane, ma poi si alzava ed entrava.
Una domenica nel 1987 o nel 1988 non ricordo bene, i titolari del centrocampo erano tutti fuori uso. Chi per squalifica, chi per infortunio. E toccò al giovane Eugenio Corini. Ricordo almeno venti minuti senza toccare palla, poi un lancio d’esterno, al volo, intuizione talmente geniale da non essere compresa a pieno dal compagno di squadra sulla fascia, ma sufficiente per strappare un applauso al pubblico del Rigamonti.“Hai visto il ragazzo??” aveva esclamato uno dei miei casuali vicini di gradoni. Il primo tempo era terminato con un abbastanza noioso 0-0, ma la gente si era alzata per applaudire Eugenio da Bagnolo Mella.
Otto anni dopo, mi capitò di vedere un altro regista (che ancora non sapeva di esserlo) indossare con scioltezza la casacca delle Rondinelle in serie A, nonostante i sedici anni d’età: si trattava di Andrea Pirlo. E qui, gli amanti del calcio e dell’aperitivo erano rimasto davvero stupiti. Da dove veniva quel quasi-uomo magro? Quale mistero aveva desiderato unire il suo cognome al nome dell’aperitivo più in voga della città? Pirlo poi in bresciano significava caduta, fare un pirlo insomma, e gli spettatori della partita sembravano cercarsi con lo sguardo mentre Andrea muoveva i primi passi lungo la strada che l’avrebbe trasformato in un campione. Sarebbe scivolato sul più bello? Avrebbe fatto un dannoso pirlo proprio quando stava per calciare una punizione?
Vino frizzante (meglio Franciacorta Brut spumante), vermouth (Campari o Aperol) e acqua di seltz. Per quanto mi riguarda meglio col Campari. Non ho più trovato, nella mia vita, un senso d’ebbrezza leggera così poetico. Il pirlo aveva un segreto, sconosciuto, ma che non mi sarei lasciato sfuggire. E Andrea non poteva tradirmi, sarebbe diventato un giocatore straordinario, nonostante i detrattori continuassero a dirmi:“Ma sei fissato?? E’ troppo magro per diventare un calciatore vero! E poi i numeri 10 non servono più!”
Poveri scemi, Pirlo è leggero come il senso d’ebbrezza che provoca l’aperitivo. Questo a voi sfugge, ma a me no, eppure di certo non bevo più di voi. Come vi sfugge quello che c’è nella aria o nel cibo qui nella città della Leonessa. Deve esserci qualcosa fatto apposta per nutrire e fare crescere registi o trequartisti.
Il passaggio all’Inter (un sogno realizzato per Andrea, di fede nerazzurra) qualche giornata di fiducia e talento (con Nicola Ventola terminale offensivo degli assist del centrocampista bresciano). Poi il patatrac: la dirigenza dell’Inter scopre che Pirlo è italiano e lo mette fuori rosa. “Volevi prenderci in giro eh? Ti abbiamo scoperto, sei di Brescia! Noi l’Internazionale, quindi fuori da questa squadra! Italiani non ne vogliamo! Hai capito?!”
Pare la fine. E invece no. Reggina, ancora Inter per sole 4 presenze, quindi di nuovo Brescia con Roberto Baggio, e finalmente Milan. Coppe dei Campioni, e Mondiale, vinte da quello che era troppo magro.

lunedì 29 marzo 2010

Nella Brescia anni '80 un padre «bellissimo» perso troppo presto


di Cristiano Tognoli

Un passo dopo l'altro, pedalando con il protagonista, per entrare nella sua testa, vivere i suoi racconti (e per chi abita in città non è difficile identificarvisi), capire cosa può provare 25 anni dopo colui che da bambino, a soli 9, perse il padre.«Mio padre era bellissimo», premio Fahrenheit nel mese di gennaio, è il primo lavoro completo (dopo il racconto «Passi falsi» nell'antologia «Dylan revisited») del bresciano Francesco Savio, che nella vita di tutti i giorni lavora alla «Feltrinelli» di Milano. Il volume, che per leggerezza della scrittura e pagine limitate si legge tutto d'un fiato, è ambientato nel quartiere del Carmine primi anni '80. In realtà sarebbe quello di Crocifissa di Rosa (come si evince dalle citazioni della gelateria «Bedont»), ma qualcosa l'autore ha volutamente modificato. Come i nomi dei parenti. Del padre stesso, che diventa Guerrino.Tutto il resto però è assolutamente reale. A cominciare dalla malattia, che costringe Savio senior spesso a letto, mentre in sala Francesco gioca ad essere Michel Platini con una palla di spugna. C'è poi la passione per il ciclismo: il «Giro d'Italia» è uno dei pochi momenti che riesce a condividere con il padre; l'oratorio, le prime cotte che può solo accennare a Guerrino, le scalate in Castello con la mountain bike sognando la maglia rosa. Ma anche il funerale, la «paura» di diventare materassaio come il genitore, il sentirsi compatito e indicato sempre come «quello che ha perso il padre a 9 anni». Troppo presto. Ma non lo è ora per ricordarlo.

venerdì 26 marzo 2010

Malaparte. Arcitaliano nel mondo in mostra a Milano


Ci sono cose che capitano, come decidere per festeggiare il santo giovedì libero dal lavoro di prendere un autobus a caso appena dopo S. Babila, essendo certi che prosegua dritto, verso Porta Venezia, ma scoprendo invece dopo pochi metri che gira a sinistra, in via Senato. Che fare?
Restare sull’autobus, come se niente e fosse, e guardare fuori dal vetro certi angoli di Milano che prima, per un motivo oppure no, non avevano mai accarezzato lo sguardo.
Fuori dalla Fondazione Biblioteca di via Senato, uno striscione nero si muove leggero al vento, la scritta rossa e bianca dice: MALAPARTE – ARCITALIANO NEL MONDO.
Dentro la mostra dedicata a Curzio Malaparte, fino al 26 settembre 2010, ingresso libero.

Mettere in mostra uno scrittore non è facile, si rischia un susseguirsi di teche contenenti oggetti o vestiti appartenenti all’artista, del tipo “Ecco il pennello con cui l’autore era solito farsi la barba…” Insomma, parzialmente interessante.
Ma nonostante la temperatura raggiunta nelle sale espositive (ad occhio una trentina di gradi) mi fa piacere, ancora di più perché sono l’unico visitatore, seguire il percorso che si snoda dalla nascita fino alla morte di Kurt Erich Suckert. Dal curato opuscolo introduttivo che potete astutamente prelevare anche dal marciapiede di via Senato, sempre gratuitamente, isolo:
“Egli fu arcitaliano in tutti i sensi perché, pur di padre tedesco, fu ben radicato nella nostra tradizione culturale più autentica, rivendicando in ogni momento la propria italianità. In un’epoca drammatica e travagliata, seppe conoscere e raccontare finemente gli italiani, i loro pregi e difetti, in un costante e sincero confronto con le diverse culture incontrate nei suoi viaggi in Europa e nel mondo (…) La mostra è divisa in quattro sezioni ispirate ai quattro elementi del cosmo: fuoco, aria, terra e acqua. Malaparte ha idealmente attraversato nella sua vita questi elementi, affrontandoli nella loro duplicità, positiva e negativa. La sua biografia e le sue opere ne sono la testimonianza”.

Manoscritti e dattiloscritti originali di opere edite e inedite, articoli di giornale, documenti personali, lettere e fotografie. E poi, alla fine, un filmato di Philippe Daverio che racconta la meravigliosa “casa come me” ideata e progettata da Malaparte, e costruita caparbiamente sulla punta Massello a Capri.
Ecco, questo è forse l’aspetto più pericoloso della mostra dedicata allo scrittore di Prato, perché poi esco e la desidero, consapevole che il destino non mi riserverà mai una casa del genere. Ma pazienza, penso osservando lo splendido cortile interno al palazzo della Fondazione Biblioteca via Senato, intanto ne è valsa la pena di sbagliare autobus.

giovedì 25 marzo 2010

Piccolo spazio pubblicità: Nostalgica. Le maglie non sono più quelle di una volta


Il calcio non è più quello di una volta, capita spesso di sentire. Si può essere d'accordo oppure no, come quelle altre cose di una volta che oggi non lo sono più, ma una cosa è certa: le maglie delle squadre non sono più quelle di una volta. Su questo non transigo, e se qualcuno non la pensa come me, allora basta amico, io e te abbiamo chiuso. Sì, ce l'ho proprio con te, che hai appena speso 70 euro per acquistare la nuova maglia della tua squadra del cuore, magari solo perché è cambiato lo sponsor. Ma non ti accorgi che ti hanno rapinato? Di che tessuto e'?? Te ne rendi conto?? Quando la metterai?? E poi perché andare in giro a fare l'uomo sandwich per una marca di gomme, per una di trattori, per un'agenzia di scommesse?
Amico, levati quella maglia, come se avessi fatto un gol, e buttala nel cestino. Dagli errori s'impara, e l'arbitro non ti ammonirà. Prendi la metropolitana, il tram, o meglio comincia a camminare fino a corso Buenos Aires, Milano. Fermati al numero 51 e spia nel cortile interno. Troverai Nostalgica, un negozio dove le maglie sono ancora di cotone, dove se vuoi puoi fare finta di essere Cruijff, Zoff, Rivera.
Ci sono poche cose che mi rilassano e mi fanno felice come prendere una maglia da Nostalgica. Oggi ad esempio sono diventato Paolo Rossi, perché al Mondiale non manca poi così tanto.

martedì 23 marzo 2010

Mentre John Cheever cercava la luce

Mentre John Cheever cercava la luce sui volti degli altri abitanti della libreria, si chiedeva come mai fossero così pochi quelli capaci di scegliere un libro per conto proprio, senza bisogno di essere imboccati o presi all'amo da una recensione, o da una pubblicità ripetuta a oltranza sulle pagine dei quotidiani nazionali.
John osservava le pile del bestseller del momento scendere con implacabile costanza ritmica, prontamente riportate ad altezze adeguate da puntuali librai, e pensava: mah. Perché questi leggono loro e non me? Sanno che sono esistito, che ho scritto 5 romanzi e 7 raccolte di racconti, che una mia storia (presa a caso) vale almeno dieci volte quei tomi che occupano le prime posizioni della classifica?

No, non lo sanno, gli rispondeva Richard Yates che sopravviveva alla lettera Y con qualche copia venduta in più, grazie alla fama postuma che gli era piovigginata addosso dopo la trasposizione cinematografica del suo capolavoro “Revolutionary road”, scritto nel 1961.

Eppure io, continuava John, ho amato l'Italia di un amore quasi soffocante, che ho conosciuto sul serio solo dopo averlo sognato per dieci anni. Sento dire che la maggioranza degli italiani non legge, ma anche quelli che lo fanno, perché faticano così tanto a scegliersi la propria via di parole da soli, senza aiuti e consigli più o meno interessati?

Caro John, concludeva Yates, sono la persona meno adatta a rispondere a certe domande: io in vita non ho mai venduto più di 12.000 copie.

giovedì 18 marzo 2010

Le ultime parole sull’Isola

Ventura: “…diciamo chi è il segretario del Pd. Il segretario del Pd é…”.
Busi: “E’ inesistente. Finché la sinistra sarà clericale, sarà solo la brutta copia della destra”.

Busi: “Lo decido io il linguaggio”.
Ventura: “La potrò avere un’opinione e dirti che secondo me la sbagli, la forma, e che la forma cancella la sostanza?”.
Busi: “Il fatto che sia sbagliata per lei e per la maggior parte degli italiani vuol dire che io la forma non la cambio. La mia sostanza sta nella mia forma. Questa nazione è indietreggiata di 15 anni anche per colpa vostra. Voi dovete essere ricoverati. Sentite quelli che avete mandato sull’Isola con me. Non è una novità per me non essere capito. Purtroppo sono tutti come Federico Mastrostefano. Non c’è più cultura. Il Paese è morto”.

Busi: “Il mio mandato è esautorato, esaurito. Non c’è più racconto. Temo che, se restassi, finirei per vincere. Ho partecipato per una rassegnata e decadente malinconia. Voglio tornare nel mio limbo, le dinamiche sono loro. Voglio dare l’esempio del signore anziano che si mette da parte. Mi sembrerebbe umiliante per me vincere questa piccola corsettina. Qua ci sono persone alla canna del gas, che non hanno forza contrattuale”.

Busi: “Lei è caduta nella mia provocazione. Io non capisco perché solo le coppie sposate possano adottare un figlio. Io voglio come singola persona dire che tanto si finisce tutti da single e che il figlio adottato ritorna dall’uno o dall’altro. Perché io single non posso adottare un bambino o una bambina?”.

Busi: “Se avete bisogno di me mi trovate in libreria. La mia pantomima della cultura è durata fin troppo. Da un momento all’altra questa telecamera diventerà buia e io sparirò. Non adduco pretesti di salute, anche se ho un’infezione, non è una malattia diplomatica la mia. Senza di me, che ho fatto il capro espiatorio, potranno scagliarsi l’uno contro l’altro. E vedremo la vera ipocrisia.
I naufraghi sono tutti qua perché non hanno un cazzo da fare, sono meschine marionette di se stessi che non hanno rispetto dello spettacolo”.

venerdì 12 marzo 2010

"In bicicletta e in treno alla ricerca del padre" (di F. Marcolini su Bresciaoggi del 10/3/2010)

"In bicicletta e in treno alla ricerca del padre"

di Flavio Marcolini

Mercoledì 10 marzo lo scrittore bresciano Francesco Savio alla libreria Feltrinelli di Corso Buenos Aires 33 a Milano presenterà il suo romanzo “Mio padre era bellissimo” (edizioni Pequod, pag. 139, euro 11), racconto denso e intenso di un rapporto particolare, fra un padre e di un figlio che non hanno avuto il tempo di conoscersi.
35 anni, un lavoro alla Feltrinelli di Piazza Duomo a Milano, Savio ha alle spalle la pubblicazione del racconto “Passi falsi” nell’antologia “Dylan revisited” (Manni editore, 2008) e collaborazioni con “Quasi Rete”, il blog letterario della ”Gazzetta dello Sport”.
“Il protagonista - ci spiega - è un bambino di nove anni che passa i pomeriggi sognando di vincere il Giro d’Italia, o di giocare bene a calcio come il suo idolo Platini. Quando il padre muore, il mondo intero per lui diventa incomprensibile, inadatte le parole per dirlo, inappropriati i sogni che continua a fare. Ha ancora senso affrontare in bicicletta la salita del Castello per migliorarsi e riuscire a indossare un giorno la maglia rosa o quella iridata di campione del mondo? E a che serve giocare a pallone per diventare un giorno un calciatore del Brescia e poi della Juventus, se papà non c’è più?”.
Il ragazzo decide di partire alla ricerca del genitore, in bicicletta o in treno, convinto che da qualche parte deve pur essersi nascosto: inizia la sua investigazione infantile, raccoglie e cataloga le foto di famiglia per scoprire la verità, convinto che il padre non possa essere morto per davvero.
“Ho iniziato a scrivere il testo spinto dalla necessità di recuperare l’infanzia, un periodo speciale della vita, quando tutto, forse, deve ancora incominciare” osserva. “Mi sono chiesto cosa renda interessante un’infanzia rispetto ad un’altra. Forse il modo in cui viene raccontata? Mi sono ricordato di un consiglio che Bradbury rivolgeva agli aspiranti scrittori: ‘inventatevi un personaggio e fategli desiderare qualcosa con tutto il cuore’”.
“Volevo scrivere una storia drammatica con ironia – sottolinea. “Ho cercato di scrivere un romanzo fatto di fotografie, immagini, pensieri, senza trucchi o stratagemmi. Un libro da far riposare un attimo quando lo si è finito, come una torta”.
Mentre si gode il risalto che l’opera ha avuto nelle cronache letterarie di queste settimane (la trasmissione Fahrenheit di RaiRadio3 lo ha fra i libri più gettonati), Savio continua a scrivere: “Ho quasi finito un altro romanzo. Potrebbe intitolarsi “Troppe somiglianze con la solitudine” o “Una storia della nuvole”. Sarà la storia di un ragazzo che ama le nuvole, il cinema, e il silenzio”.
Savio vive a Milano dal 2001. “Ma - assicura - torno quasi ogni settimana a Brescia affinché la mia città non si dimentichi di me. A volte penso che alla fine una persona scelga di vivere nel posto dove stanno i ricordi della sua infanzia, e per questo credo che un giorno tornerò a stare a Brescia. Nell’attesa che ciò avvenga, qualche volta quando passeggio mi sorprendo ad accarezzare con le dita le pareti di certe case del centro. Forse significa qualcosa”.
Con l’autore mercoledì dialogheranno il saggista Giuseppe Antonelli (conduttore della trasmissione letteraria di RaiRadioTre Fahrenheit) e l’editore Marco Monina (titolare di Pequod). L’appuntamento è alle ore 18.30.

lunedì 8 marzo 2010

Non so perché non sono argentino. Curiosa anteprima della presentazione di "Mio padre era bellissimo" in una libreria a Buenos Aires

Non so perché non sono argentino, ma ad essere onesto più di una volta mi sono chiesto anche il perché del mio non essere spagnolo o portoghese. Il triangolo delle mie prossime reincarnazioni a grandi linee lo vedo così. Chi avrà ragione poi si vedrà. Non disdegno comunque l’essere italiano, nonostante certi orribili connazionali, insomma poteva andarmi peggio, ma qui si parlava del futuro, e allora.
Mentre in Spagna e in Portogallo ho già avuto modo di constatare certe anticipazioni di ciò che sarò, in Argentina non sono mai stato, e proprio per questo ritengo una circostanza favorevole trasformare la via in città, e convincermi quindi che Mercoledì 10 marzo presenterò “Mio padre era bellissimo” in una libreria a Buenos Aires. Quantomeno avrò il vantaggio di sembrare spaesato per una ragione opportuna, quella di essere in Sudamerica e capire solamente qualcosa delle parole e della gente intorno. Potrei anche attendere la traduzione dell’interprete prima di sorridere o annuire alle affermazioni di Giuseppe Antonelli e Marco Monina, che mi accompagneranno della presentazione, e prendere tempo per rispondere ad eventuali domande, giustificando i secondi trascorsi con la necessità di permettere al traduttore il ritrovamento dei vocaboli più esatti.
Per ciò che riguarda i miei di vocaboli, essi si ridurranno esponenzialmente rispetto al solito per un fattore più che altro emotivo, ma pazienza. Sarò eventualmente disponibile per articolare discorsi più raffinati ai partecipanti l’evento individualmente, pure in giorni successivi, rinfrancando per giunta la mia antica convinzione: meglio avere a che fare con le persone una alla volta.
Poi mi farò una bella passeggiata con tanti respiri, e non mi dispiacerebbe cenare da “La curva”, ristorante frequentato da Lucho Bordenave a Buenos Aires, nelle pagine di Bioy.

sabato 6 marzo 2010

La tristezza di Ramon Diaz

(Savio per Quasi Rete Gazzetta dello Sport)
Da piccoli lo facevamo anche noi. Vero Matteo? Vero Vincenzo? La palla sfiorava il palo, un avversario entrava col piede a martello, un compagno decideva di concludere a rete invece di passartela quando eri al centro dell’area, solo, pronto per battere a rete. Ci scappava fuori un “Porco Diaz!”, capitava, eravamo all’oratorio. Non avevamo nulla contro il centravanti dell’Inter.
Qualche ribelle in realtà se ne fregava, e bestemmiava, il prete in fondo non è che stava sempre a bordo campo per ammonire i peccatori del rettangolo verde. Ma era più un’interpretazione individuale del proprio rapporto col cattolicesimo: se credevi in Gesù, lui e suo Padre ti avrebbero beccato comunque, con o senza prete a fare da sentinella, e sicuramente non avrebbero fatto distinzioni tra Diaz e Dio.
Mi chiedo sempre come certe teste di legno siano arrivate a dirigere aziende, come abbia fatto quel tale a diventare direttore di un giornale, e quell’altro addirittura a fare il Ministro della Repubblica? Poi rammento di abitare in Italia, il Paese dove nel bene e del male, tutto è possibile. Altro che il sogno americano.
Quando ho appreso che il presidente del Coni Gianni Petrucci aveva deciso di punire i bestemmiatori, ho pensato che si trattasse di uno scherzo. Da non bestemmiatore, mi chiedevo, ma è davvero una regola così fondamentale? Però da uno Stato che non vuole risolvere il problema della violenza negli stadi, da un Paese capace di costruire nel 1990 stadi che sarebbero stati ottimi negli anni ’70, cosa potevo aspettarmi se non la volontà di occuparsi della pagliuzza ignorando la trave? Approfondendo la regola, ho scoperto che in serie A e B non si potrà più bestemmiare, dalla Lega Pro in giù sarà via via più facile, non perché il rischio di squalifica sia limitato ai campionati maggiori, ma per la penuria di telecamere dispiegate. Ho immaginato la storia di un calciatore depositario di un solo grande talento, quello di bestemmiare, costretto a retrocedere pur di poter dare libero sfogo alla propria volgare creatività.
Durante la prima giornata in cui questa regola è stata applicata, il centrocampista del Chievo Marcolini è stato graziato per aver gridato Diaz al posto di Dio, l’allenatore Di Carlo pare che abbia invece urlato Dio, quindi è stato squalificato. Superato lo stupore iniziale che mi ha aggredito quando ho scoperto l’esistenza di persone stipendiate per distinguere alla moviola un Diaz da un Dio, altri interrogativi hanno bussato alla mia porta. Come ci si comporta con i calciatori stranieri? Quelli di lingua spagnola, inglese o francese potrebbero essere facilmente controllabili, ma gli atleti africani? Se Eto’o tira giù una Madonna in un dialetto africano io come faccio a saperlo? Ho pensato per un attimo che questa regola fosse stata inventata per favorire l’Internazionale di Moratti, quasi priva di giocatori italiani, ma mi sono detto no, non può essere. Certo il pensiero tornava ad un'altra regola cambiata a campionato in corso, quella che permise alla Roma di schierare il giapponese Nakata rivelatosi poi decisivo per far vincere lo scudetto alla Roma ai danni della Juventus, casualmente nell’anno del Giubileo. Ma allora il burattinaio del calcio italiano era Luciano Moggi, oggi il calcio è più pulito, non può essere, mi sono risposto colpendomi la fronte per due volte con la mano aperta.
Allora ho spostato questi cattivi pensieri, e mi sono chiesto quale sia la lingua di Dio, se Dio faccia distinzioni tra un porco Diaz e un porco altro. Di certo quando ha deciso per la regola anti-bestemmiatori, Petrucci ha assunto dipendenti in grado di comprendere tutte le lingue del mondo, deve essere certamente così. E ho pensato alla tristezza di Ramon Diaz, quando in Argentina è stato raggiunto dalla notizia che il suo nome era tornato alla ribalta in quanto utilizzato come sotterfugio per non essere puniti dal giudice sportivo se non addirittura da Dio. Ho pensato alla tristezza di Ramon Diaz, che ha visto il suo cognome usato per imprecare bestemmie finte, diverse dalle vere solamente per una vocale e una consonante in più.

giovedì 4 marzo 2010

I fiori più belli degli ultimi dieci anni

Ci sono fiori che restano belli anche dopo dieci anni, penso bevendo l’ultimo bicchiere di porto di una bottiglia che viene dal Portogallo. Canzoni come Aria di neve, Ed io tra di voi, Te lo leggo negli occhi, avrei voluto cantarle o quantomeno scriverle io.
Un bravo scrittore saprebbe descrivere con precisione il colore del porto inventato da Joseph J. Forrester. Si può provare una nostalgia soffocante per una città che non ci ha visto nascere, come si possono amare all’istante le sfumature di uno sguardo incrociato per pochi secondi.
Ci sono dischi che non sfioriscono anche dopo dieci anni. Il profumo di un luogo ci rincorre quando pensavamo di averlo dimenticato.

mercoledì 3 marzo 2010

Mercoledì 10 marzo presentazione di "Mio padre era bellissimo" alla Feltrinelli di corso Buenos Aires, Milano


Mercoledì 10 marzo 2010, la Feltrinelli Libri e Musica, corso Buenos Aires 33
ore 18.30
MIO PADRE ERA BELLISSIMO

Mio padre aveva una bicicletta rossa. Sul telaio c'era scritta la marca e poi 'dal 1922'. Da bambino pensavo che la bicicletta fosse stata costruita nel 1922. E' ancora bella per essere così vecchia, pensavo. Più grande avevo cominciato anche a usarla, pedalando senza una metà precisa, alla ricerca un po' del verde e un po' di mio padre.

Miglior libro di gennaio per Fahrenheit di Radio3, Mio padre era bellissimo (Italic Pequod) di Francesco Savio, è la più classica delle storie d'amore: quella tra un padre e un figlio che non hanno avuto il tempo di conoscersi. Insieme all'autore intervengono Giuseppe Antonelli e Marco Monina.

(dal calendario degli Eventi Feltrinelli Milano Marzo 2010)