lunedì 15 giugno 2009

Le ore


Le ore in cui non c’era erano quelle che preferiva. Le ore in cui non avrebbe dovuto esserci, le ore quando gli era capitato di alzarsi presto, prima della sveglia, e si trovava ad esistere in una maggiorazione di minuti solitamente non disponibili. Le ore che in genere aveva trascorso dormendo. Ogni cambio di programma che regalava al tempo una dimensione del tutto nuova e splendente, come quando sarebbe dovuto andare a scuola, e invece no. Come quando alzandosi presto, prima della sveglia, si era fermato ad osservarsi con le braccia stranamente alzate, nel sogno turbolento, nell’attesa inconsapevole di un suono fastidioso che avrebbe sancito l’inizio delle ore in cui avrebbe cominciato ad esserci.

sabato 6 giugno 2009

Un popolo di seduti mentali


Milano, Piazza S. Fedele. Le poche panchine verso le tredici sono ambite. Figuriamoci quelle all’ombra. Se ne libera una. All’ombra. Una ragazza europea pensa di raggiungerla con passo appena più veloce del normale. Dal lato opposto della piazza, un uomo con un bambino sulla testa pensa di fare lo stesso. Dal mio punto d’osservazione, li vedo pari. Anzi, leggermente favorita la ragazza, diciamo un paio di metri. E poi l’uomo ha il peso in testa, e tiene famiglia. Lo seguono, fiduciosi del capo tribù, una moglie, un adolescente griffato, una bambina. L’uomo si volta due volte per controllare, poi scatta, vile. “Hop hop hop” canticchia quasi correndo, fingendo che questa accelerazione sia per fare giocare il figlio che porta attorno alla testa. Non è vero. Si getta sulla panchina ed è sua. Il resto della famiglia si accascia sulla pietra con le gambe, qualche secondo più in là. La ragazza europea ci rimane male, il padre italiano fa finta di niente. Gli italiani si siedono sempre, penso. La maggioranza degli italiani. Questa parte di popolo così volgare e cafona, che ha dimenticato le buone maniere più elementari, l’educazione. Questo popolo di seduti mentali che si alza solo quando ci sono le elezioni, per andare a votare Berlusconi.

martedì 2 giugno 2009

Fiori giapponesi


Il cameriere che leggeva La Capria, non lo faceva mai durante l’orario di lavoro. O meglio, lo faceva ma nella sua testa, ripassando velocemente i racconti che aveva studiato poco prima in metropolitana. C’era quello in cui…l’altro invece nel quale…Amava sottolineare le frasi che gli erano piaciute di più. Leggere così era più impegnativo (ad esempio doveva portarsi sempre dietro una matita) in particolare quando gli capitava fra le mani un libro come “Fiori giapponesi”. Avrebbe dovuto infatti sottolineare tutto. Aveva imparato allora a fare due segni, uno all’inizio e uno alla fine di ogni pagina. Non era stupido, pensava, anche se era solo un cameriere aveva pure lui le sue astuzie. Nascondeva la matita nel taschino della camicia bianca. Era la stessa con cui aveva evidenziato frasi, interi periodi. Il difficile in determinate occasioni era non confondere l’eleganza di un pensiero con un risotto, e tirare righe dritte. Non sopportava quando i segni sul libro non era sostanzialmente paralleli, quando il grigio-linea sotto le parole tremolava.
La Capria aveva esordito nel 1952 con “Un giorno d’impazienza”. Il secondo libro era uscito nel 1961, “Ferito a morte”. Cosa diavolo aveva fatto in quei nove anni? Erano altri tempi, pensava il cameriere. Erano fatti suoi. Pause così lunghe avrebbero spaventato scrittori e editori di oggi. Ma di più gli scrittori quantitativi. Quelli pronti ad elencare tronfi la loro produzione: “Ho 42 anni. Ho scritto 12 romanzi, 8 raccolte di racconti, 4236 poesie”. In fondo però queste erano cose che non lo riguardavano. Ci teneva di più a scomparire per un attimo nella cucina del ristorante, lontano almeno per qualche minuto dagli sguardi tristi del caposala, che non avrebbe mai letto La Capria in tutta la vita. Ci teneva di più a ricordarsi delle virgole, dei punti, a ripetersi nel cervello il ritmo di ogni fiore giapponese. Se fosse riuscito a farli sbocciare di nuovo nella sua testa, pensava, un giorno magari avrebbe scritto così bene anche lui.